ISSN 2039-1676


29 marzo 2018 |

Per le Sezioni Unite penali non è ancora decorso il termine di prescrizione delle azioni di cui all’art. 35-ter, co. 1 e 2, ord. pen. per violazioni dell’art. 3 CEDU avvenute prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014

Cass., SSUU, sent. 21 dicembre 2017 (dep. 26 gennaio 2018), n. 3775, Pres. Canzio, Est. Montagni, ric. Ministero della giustizia, imp. Tuttolomondo

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2018

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1. Con la decisione in commento, le Sezioni Unite penali, che erano state chiamate a pronunciarsi su alcuni aspetti delle impugnazioni del Ministero della Giustizia avverso i provvedimenti di cui all’art. 35-ter, co. 1 e 2 ord. pen., hanno colto l’occasione per esaminare la disciplina della prescrizione con riferimento alle azioni ivi previste. Come è noto, in seguito alla sentenza pilota Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo[1], con l’art. 1, co. 1 d.l. 26 giugno 2014, n. 92, conv. con modif. in l. 11 agosto 2014, n. 117 il legislatore italiano ha introdotto, “a titolo di risarcimento del danno” per le violazioni dell’art. 3 CEDU, i rimedi della “riduzione della pena detentiva” e della “somma di denaro”.

Giova riassumere brevemente gli elementi di fatto e le attività processuali svolte nei gradi inferiori di giudizio, nella misura in cui si possono ricavare dalla sentenza in esame e dall’ordinanza di remissione. Con istanza dell’8 luglio 2014, una persona in stato di detenzione lamentava, con riferimento a periodi anteriori alla data di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, di aver subito un trattamento penitenziario in violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU, e chiedeva i rimedi di cui all’art. 35-ter ord. pen. al Magistrato di Sorveglianza di Pisa, il quale disponeva in suo favore a titolo di risarcimento del danno una riduzione di ottantasei giorni della pena detentiva ancora da espiare ed euro 16. In seguito, avverso tale provvedimento, l’Amministrazione Penitenziaria aveva proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza di Firenze, che lo aveva rigettato con ordinanza dell’11 ottobre 2016. Successivamente, il Ministero della Giustizia ricorreva in Cassazione, deducendo la violazione degli artt. 35-ter ord. pen., e degli artt. 2935 e 2947 cod. civ., dolendosi del mancato accoglimento dell’eccezione di intervenuta prescrizione quinquennale dell’azione risarcitoria per la violazione del diritto ad una detenzione conforme all’art. 3 CEDU, in riferimento ai periodi detentivi anteriori all’8 luglio 2009.

La sez. I penale della Suprema Corte ha rimesso con ordinanza del 21 luglio 2017[2] la causa alle Sezioni Unite, per via del contrasto sulla seguente questione di diritto: “se il Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi degli artt. 35-bis e 35-ter, legge n. 354 del 1975, debba essere condannato al pagamento delle spese processuali ed eventualmente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.”. Una parte della giurisprudenza, infatti, applica i “principi di diritto espressi in riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione - ove il Ministero delle finanze viene condannato al pagamento delle spese, in caso di rigetto o di declaratoria inammissibilità del ricorso proposto avverso l’ordinanza della corte di appello quale giudice della riparazione”. A ciò “si contrappone un diverso orientamento che esclude la condanna alle spese nei confronti del Ministero della giustizia, ritenuto privo della qualità di parte privata richiesta dall’art. 616 cod. proc. pen.”.

 

2. Le Sezioni Unite hanno dapprima esaminato d’ufficio l’ammissibilità del reclamo dell’Amministrazione rispetto al provvedimento emesso in prima istanza dal Magistrato di Sorveglianza.

In primo luogo, la decisione in commento rileva, con riguardo al reclamo proposto dinnanzi al Tribunale di Sorveglianza di Firenze, la mancanza della sottoscrizione dell’Avvocatura generale dello Stato, e contrapponendosi a quanto in precedenza elaborato dalla giurisprudenza di legittimità[3], afferma il seguente principio di diritto: “Il reclamo-impugnazione di cui all’art. 35-bis, comma 4, Ord. pen. può essere proposto dall’Amministrazione penitenziaria senza il patrocinio e l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato”.

Nell’argomentare tale soluzione, analizzando il co. 1 dell’art. 35-ter, la Corte da un lato parla di “rimedi risarcitori e […] riparazione in forma specifica ottenibile dal danneggiato che si trovi detenuto”, e – per quanto attiene al co. 2 – di “una somma di denaro, a titolo di risarcimento del danno”. Dall’altro, però, le Sezioni Unite concordano con la precedente giurisprudenza di legittimità nel rilevare la “ispirazione solidaristica e […] connotazione pubblicistica dell’istituto introdotto nell’ordinamento con finalità non risarcitorie ma riparatorie e di riequilibrio ed in parte compensatrici della lesione della libertà rivelatasi ingiusta”.

La Corte sostiene poi che la “connotazione pubblicistica” della novella, unita al fatto che l’Amministrazione Penitenziaria può “essere destinataria delle prescrizioni impartite dal magistrato di sorveglianza, direttamente incidenti sulle modalità di gestione dei detenuti” – secondo le Sezioni Unite – condurrebbero “ad escludere la natura civilista degli interessi di cui l’Amministrazione è portatrice”, poiché essa viene coinvolta nel procedimento innanzi al Magistrato di Sorveglianza essendo “oggettivamente nell’esercizio di una funzione pubblica, quale organismo istituzionalmente deputato alla gestione dei detenuti”.

Da ciò la sentenza in commento fa discendere l’inapplicabilità, al reclamo dell’Amministrazione innanzi il Tribunale di sorveglianza, “delle disposizioni che riguardano l’impugnazione proposta per i soli interessi civili (art. 573 cod. proc. pen.) dalle altre parti private presenti nel giudizio penale, come pure della norma che impone, nei casi da ultimo richiamati, il ministero di un difensore (art. 100 cod. proc. pen.), per la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento”. La Corte, quindi, ritiene anche che “la possibilità di costituzione informale da parte dell’Amministrazione, espressamente prevista dall’art. 35-bis, comma 1, Ord. pen. nella fase promossa dal reclamo-istanza del detenuto, di competenza del magistrato di sorveglianza”, si possa applicare anche al successivo reclamo-impugnazione innanzi al Tribunale di Sorveglianza.

 

3. Si deve parlare ora del contrasto per il quale la sezione I penale aveva ordinato la remissione alle Sezioni Unite, anche se esse lo affrontano alla fine della pronuncia in commento, in quanto la soluzione adottata vuole inscriversi nella scia di quanto appena esaminato.

Ci si chiedeva infatti se, con il rigetto del ricorso del Ministero, esso debba essere condannato ex art. 616, co. 1, prima prop. cod. proc. pen. al pagamento delle spese del procedimento, e – in caso di declaratoria di inammissibilità – se esso sia anche tenuto al pagamento alla cassa delle ammende delle somme di cui all’art. 616, co. 1 seconda prop. e 616, co. 2 cod. proc. pen.

Secondo un primo orientamento[4], al Ministero della Giustizia si applicherebbero “i principi di diritto espressi in riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione” ex art. 314 cod. proc. pen., in cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze – in caso di rigetto o inammissibilità del proprio ricorso – è tenuto a pagare le somme di cui all’art. 616 cod. proc. pen., poiché esso viene considerato “parte privata” in tale sede.

Nella decisione in commento, le Sezioni Unite abbracciano invece la tesi opposta[5], poiché il Ministero della Giustizia viene coinvolto nel procedimento di cui all’art. 35-bis e 35-ter ord. pen. per via delle funzioni di “natura sostanzialmente pubblicistica” che esso svolge, e dunque difetta della qualità di “parte privata” di cui all’art. 616 cod. proc. pen.

 

4. Per quanto attiene al merito del ricorso, dove si affronta il tema della prescrizione, le Sezioni Unite penali ritengono innanzitutto che “il diritto al risarcimento dei danni in capo al soggetto detenuto in condizioni disumane e degradanti, di matrice costituzionale e convenzionale, è da ritenere preesistente rispetto alla novellazione del 2014 che ha riguardato l’ordinamento penitenziario”, come già era stato sostenuto in passato[6]. La violazione di tale diritto integrerebbe un “illecito permanente”, poiché “ogni giorno trascorso in condizioni di detenzione disumana e degradante determin[a] il perfezionamento della relativa fattispecie lesiva”, considerando che “la detenzione ha una unità di misura temporale. E l’art. 35-ter ord. pen. individua come parametro per il risarcimento (sia in forma specifica sia per equivalente), ogni giorno trascorso in condizione disumana”. Si noti fin da subito che la Corte non specifica se il detenuto, per accedere ai rimedi di cui ai co. 1 e 2, debba o meno rientrare tra coloro che hanno esperito in precedenza ricorso alla Corte EDU, di cui all’art. 2, co. 2, l. 117/2014 – contenente la disciplina transitoria dei rimedi di cui all’art. 35-ter ord. pen. – e che in precedenza le sezioni semplici della Cassazione avevano riconosciuto anche a coloro che erano rimasti inerti la possibilità di avvalersi della novella, mutuando ad esempio le soluzioni in precedenza adottate dalle Sezioni Unite civili con riferimento ad una disposizione di tenore simile contenuta nell’art. 6 l. 24 marzo 2001, n. 89, c.d. legge Pinto sull’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo[7].

Tornando al problema del decorso del tempo, la Corte afferma poi che nel nostro ordinamento l’assenza dell’art. 35-ter ord. pen., e cioè di uno “strumento di tutela, accessibile ed effettivo - idoneo a far cessare la detenzione in condizioni inumane e degradanti, anche mediante forme di compensazione in forma specifica”, avrebbe integrato un “impedimento all’esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all’art. 2935 cod. civ., in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Per questo, le Sezioni Unite concordano con l’indirizzo secondo cui “qualora il richiedente si trovi detenuto al momento di presentazione dell’istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all’entrata in vigore del decreto-legge n. 92 del 2014, la prescrizione del relativo diritto inizia a decorrere solo dall’introduzione dell’art. 35-ter ord. pen.”[8], e cioè dal 28 giugno 2014. Più precisamente, il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite è il seguente: “La prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante, azionabile dal detenuto ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, Ord. pen., per i pregiudizi subiti anteriormente all'entrata in vigore del decreto-legge n. 92 del 2014, decorre dal 28 giugno 2014”.

 

5. Non mancano i riferimenti alla giurisprudenza della Corte EDU e della Consulta. In particolare, vengono richiamate la sentenza Torreggiani e la sentenza Corte cost., 21 luglio 2016, n. 204. Quanto alla prima, la Corte di Strasburgo non pareva aver particolarmente approfondito la tipologia dei rimedi compensativi richiesti all’Italia[9], lasciando al legislatore nazionale la scelta in merito. Di grandissima rilevanza ai fini dell’adempimento di quanto espressamente richiesto dalla sentenza Torreggiani è stata forse l’introduzione del rimedio di cui all’art. 35-bis ord. pen.[10], tale da porre velocemente ed effettivamente fine alle violazioni dell’art. 3 CEDU, dato che secondo la Corte EDU “pour qu’un système de protection des droits des détenus garantis par l’article 3 de la Convention soit effectif, les remèdes préventifs et compensatoires doivent coexister de façon complémentaire”. Inizialmente, anche la Corte costituzionale ha adottato un atteggiamento simile a quello della sentenza Torreggiani[11]. Una volta entrato in vigore il nuovo art. 35-ter ord. pen. contenente il nuovo rimedio della riduzione della pena detentiva, ed in seguito ad altre decisioni di Strasburgo su questa materia[12], la Consulta ha però affermato l’insufficienza dell’art. 2043 cod. civ – rectius dell’art. 2059 cod. civ. – se raffrontato alla novella[13].

 

6. Giova poi analizzare ulteriormente l’argomentazione secondo la quale la prescrizione non sarebbe decorsa ex art. 2935 cod. civ. per l’impossibilità di far valere il diritto. Ci si chiede innanzitutto a quale diritto la sentenza faccia riferimento.

Infatti, in un importante passaggio, sopra richiamato, le Sezioni Unite penali prendono in considerazione quello “al risarcimento dei danni in capo al soggetto detenuto in condizioni disumane e degradanti”, che riconoscono anche essere preesistente all’introduzione dell’art. 35-ter ord. pen., salvo poi, nell’enunciazione del principio di diritto, parlare della “prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante, azionabile dal detenuto ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen.”.

Ora, non vi è dubbio che i nuovi rimedi di cui all’art. 35-ter e il rito di cui all’art. 35-bis ord. pen. abbiano agevolato il detenuto rispetto a quanto normalmente gli offrirebbe la procedura civile. Ma, nell’ottica risarcitoria a cui le Sezioni Unite fanno a tratti riferimento, occorre verificare se al detenuto fosse impedito di promuovere un procedimento civile – sede naturale dell’azione risarcitoria – per soddisfare la pretesa relativa “al risarcimento dei danni” derivanti da violazioni dell’art. 3 CEDU. Sul punto, va innanzitutto ricordato che la giurisprudenza italiana di legittimità ha ritenuto che la violazione di “valori della persona costituzionalmente garantiti” può condurre al risarcimento del danno non patrimoniale[14]. In seguito alla decisione Torreggiani – ma prima di un intervento del legislatore sul punto – è stata poi suggerita la medesima soluzione in caso di violazione dell’art. 3 CEDU, in quanto nel nostro ordinamento nazionale il “giudice generale dei diritti” è quello civile[15]. Infine, anche in altre materie alcune decisioni di merito sembrano propendere per l’esperibilità dell’azione risarcitoria per danni non patrimoniali in caso di violazioni della Convenzione[16]. L’applicazione dell’art. 2935 cod. civ., allora, si giustificherebbe nella misura in cui fosse possibile rilevare una complessiva incertezza del quadro normativo relativo al risarcimento dei danni in caso di lesione di diritti inviolabili della persona, almeno con riferimento alle violazioni della CEDU[17].

 

7. Le Sezioni Unite penali non si pronunciano invece sulla questione della natura dei rimedi di cui all’art. 35-ter ord. pen., e cioè se essa debba essere ritenuta indennitaria o se debba essere ricondotta alla responsabilità civile, e in tal caso se a quella extracontrattuale o a quella da inadempimento di un’obbligazione[18], che pende innanzi alle Sezioni Unite civili[19]. La soluzione adottata in quella sede potrebbe avere delle conseguenze in materia di disciplina della prescrizione, che andrebbe anche coordinata con le disposizioni in materia di decadenza di cui all’art. 35-ter, co. 3 ord. pen. e all’art. 2 d.l. n. 92 del 2014. Ad ogni modo, stando alla decisione in commento, alla data odierna il termine di prescrizione delle azioni concesse alle persone ancora detenute che hanno subito un trattamento contrario all’art. 3 CEDU prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014 non risulterebbe spirato nemmeno nell’ipotesi interpretativa meno favorevole per coloro che chiedono i rimedi dell’art. 35-ter, co. 1 e 2 ord. pen., e cioè quella dell’inquadramento di tale disciplina all’interno dell’illecito aquiliano e dell’applicazione del termine quinquennale di cui all’art. 2947, co. 1 cod. civ.

 

8. Dopo aver esaminato la sentenza e le sue conseguenze, va però infine osservato che un percorso argomentativo radicalmente differente – e forse più lineare – era a disposizione delle Sezioni Unite penali, sulla base delle stesse premesse della loro decisione.

Va infatti osservato che la Cassazione pare aver dato conto inizialmente – e come si è visto sopra – di una qualche specialità dei rimedi di cui all’art. 35-ter ord. pen. Essi infatti possono essere definiti speciali rispetto a quelli in precedenza offerti dall’ordinamento italiano, sia nella sostanza che nel trattamento processuale, essendo stati progettati dal legislatore sulla base delle indicazioni della Corte EDU come un rimedio effettivo e di prossimità. Le Sezioni Unite, però, non hanno proceduto sulla base di queste premesse, ma hanno adottato una soluzione consequenziale all’argomentazione proposta dall’Avvocatura generale dello Stato. Questa aveva in realtà fatto ricorso al metodo dell’inversione[20], perché aveva inquadrato l’art. 35-ter, co. 1 e 2 ord. pen. nella categoria dei rimedi risarcitori – il che può essere più o meno corretto ma risulta nel caso di specie irrilevante – e da tale inquadramento qualificatorio aveva dedotto che il rimedio esperito era assorbito dal generale rimedio aquiliano, come tale disponibile anche prima dell’introduzione della legge speciale, e da ciò aveva a sua volta argomentato che il diritto era prescritto.

La Cassazione avrebbe ben potuto rilevare che, avendo il detenuto esperito il rimedio speciale e non quello generale, era logicamente errato riqualificare l’azione intrapresa in base all’argomento per cui all’attore era disponibile anche un altro rimedio. La qualificazione del rimedio o – il che è lo stesso – dell’azione si fonda infatti sull’analisi del petitum e della causa petendi, e ciò implica un rinvio al principio dispositivo[21], in base al quale spetta all’attore impostare la propria azione scegliendo quello che più gli conviene nella rosa dei rimedi che l’ordinamento rende a lui disponibili, esercitando al riguardo un diritto di tipo potestativo. La valutazione del rimedio esperito può comportare un problema di qualificazione solo qualora quello prescelto presenti difformità tra il modello rimediale ed il contenuto concreto della pretesa esperita, e non già quando era astrattamente disponibile un rimedio diverso. In ogni caso il metodo dell’inversione è qui foriero di un altro errore logico. Un rimedio speciale – vuoi di carattere indennitario vuoi di carattere risarcitorio – non è mai assorbito dal generale rimedio ex art. 2043 cod. civ. Al contrario, quest’ultimo è residuale, nel senso che serve a risarcire i danni che non siano già stati accordati in base ai rimedi speciali effettivamente esperiti, altrimenti si incorrebbe in una duplicazione dei risarcimenti. Da ciò infatti consegue che quanto ottenuto in precedenza per i medesimi fatti, ma in base a tutele speciali, deve essere defalcato dall’ammontare del risarcimento ottenibile ex art. 2043 cod. civ.[22].

 


[1] Cfr. Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, in questa Rivista, 9 gennaio 2013, con nota di Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno.

[2] Cfr. Cass. pen., sez. I, 21 luglio 2017, (dep. 28/07/2017), n. 37793, in DeJure.

[3] Cfr. Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016 (dep. 9/3/2017), n. 11244, rv. 269512 (m); Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016 (dep. 9/3/2017), n. 11248, rv. 269377 (m); Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, dep. (9/3/2017), n. 11249, rv. 269513 (m).

[4] Cfr. Cass. pen., sez. I, 27 novembre 2014 (dep. 19/12/2014), n. 53011, rv. 262354 (m); Cass. pen., sez. I, 27 novembre 2014 (dep. 19/12/2014), n. 53012, rv. 261306 (m); applica la medesima soluzione, senza argomentarla dettagliatamente, Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, (dep. 13/04/2017), n. 18562, in DeJure.

[5] Espressa in Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2017 (dep. 26/6/2017), n. 31475, rv. 270842 (m), ed applicata anche in Cass. pen., sez. I, 16 marzo 2017 (dep. 13/10/2017), n. 47333, in DeJure.

[6] In dottrina, cfr. Viganò, Alla ricerca di un rimedio risarcitorio per il danno da sovraffollamento carcerario: la Cassazione esclude la competenza del magistrato di sorveglianza, in questa Rivista, 20 febbraio 2013; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. I, 19 ottobre 2016 (dep. 27/2/2017), n. 9658, rv. 269308 (m); Cass. pen., sez. I, 19 ottobre 2016, (dep. 10/1/2017), n. 831, in DeJure; Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2017, n. 31475, cit., il cui testo integrale è disponibile in DeJure.

[7] Cfr. ad es. Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2017, n. 31475, cit., che richiama Cass. civ., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28507, in Foro it., 2006, I, c. 1423 ss.

[8] In precedenza, cfr. ancora Cass. pen., sez. I, 19 ottobre 2016, n. 9658, cit., il cui testo completo è disponibile in DeJure, che però fa decorrere il termine dal 26 giugno 2014; Cassazione penale, sez. I, 19 ottobre 2016, n. 831, cit.; inoltre, cfr. Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016 (dep. 12/5/2017), n. 23711, in Riv. pen., 2017, 5, p. 647 ss.; Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2017, n. 31475, cit.; Cass. pen., sez. 1, 16 marzo 2017, n. 47333, cit.

[9] Cfr. Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, cit., in part. il § 50 del considerato in diritto: “En particulier, la Cour a déjà eu l’occasion d’indiquer que dans l’appréciation de l’effectivité des remèdes concernant des allégations de mauvaises conditions de détention, la question décisive est de savoir si la personne intéressée peut obtenir des juridictions internes un redressement direct et approprié, et pas simplement une protection indirecte de ses droits garantis par l’article 3 de la Convention (voir, entre autres, Mandić et Jović c. Slovénie, nos 5774/10 et 5985/10, § 107, 20 octobre 2011). Ainsi, un recours exclusivement en réparation ne saurait être considéré comme suffisant s’agissant des allégations de conditions d’internement ou de détention prétendument contraires à l’article 3, dans la mesure où il n’a pas un effet ‘préventif’ en ce sens qu’il n’est pas à même d’empêcher la continuation de la violation alléguée ou de permettre aux détenus d’obtenir une amélioration de leurs conditions matérielles de détention (Cenbauer c. Croatie (déc), no73786/01, 5 février 2004 ; Norbert Sikorski c. Pologne, no 17599/05, § 116, 22 octobre 2009 ; Mandić et Jović c. Slovénie, précité § 116 ; Parascineti c. Roumanie, no 32060/05, § 38, 13 mars 2012). En ce sens, pour qu’un système de protection des droits des détenus garantis par l’article 3 de la Convention soit effectif, les remèdes préventifs et compensatoires doivent coexister de façon complémentaire (Ananyev et autres c. Russie, nos 42525/07 et 60800/08, § 98, 10 janvier 2012)”; cfr. ancora, al § 96: “En ce qui concerne la ou les voies de recours internes à adopter pour faire face au problème systémique reconnu dans la présente affaire, la Cour rappelle qu’en matière de conditions de détention, les remèdes ‘préventifs’ et ceux de nature ‘compensatoire’ doivent coexister de manière complémentaire. Ainsi, lorsqu’un requérant est détenu dans des conditions contraires à l’article 3 de la Convention, le meilleur redressement possible est la cessation rapide de la violation du droit à ne pas subir des traitements inhumains et dégradants. De plus, toute personne ayant subi une détention portant atteinte à sa dignité doit pouvoir obtenir une réparation pour la violation subie (Benediktov c. Russie, précité, § 29; et Ananyev et autres, précité, §§ 97-98 et 210-240)”.

[10] Cfr. art. 3, co. 1, lett. b, d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, conv. con modif. in l. 21 febbraio 2014, n. 10.

[11] Cfr. Corte cost, 22 novembre 2013, n. 279, in Cass. pen., 2014, 2, p. 506 ss. con nota di Aprile, la quale aveva affermato che da una parte “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia”, dall’altra però nulla diceva su possibili rimedi risarcitori, limitandosi semplicemente a suggerire l’adozione di “idonei strumenti esecutivi in modo da rendere certa l'ottemperanza dell'amministrazione alle decisioni della magistratura di sorveglianza”.

[12] Cfr. C. eur. dir. uomo, sez. II, decc. 25 settembre 2014, Stella e altri c. Italia, ric. n. 49169/09 e Rexhepi e altri c. Italia, ric. n. 47180/10, in questa Rivista, 7 novembre 2014, con nota di Martufi, La Corte EDU dichiara irricevibili i ricorsi presentati dai detenuti italiani per violazione dell’art. 3 CEDU senza il previo esperimento dei rimedi ad hoc introdotti dal legislatore italiano per fronteggiare il sovraffollamento. Tali decisioni, successive all’adozione del d.l. n. 92 del 2014, hanno riconosciuto l’adempimento da parte dell’Italia di quanto richiesto dalla sentenza pilota, ma hanno anche ribadito che Strasburgo “se réserve la possibilité d’examiner la cohérence de la jurisprudence des juridictions internes avec sa propre jurisprudence ainsi que l’effectivité des recours tant en théorie qu’en pratique”.

[13] Cfr. Corte cost., 21 luglio 2016, n. 204, in Foro it., 2016, I, c. 2964 ss.: “la sentenza della Corte EDU, nel caso Torreggiani, ha chiesto all'Italia di introdurre procedure attivabili dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione o a trattamenti carcerari in contrasto con l'art. 3 della CEDU, le quali, a differenza di quelle al momento in vigore, avrebbero dovuto essere accessibili ed effettive; procedure, in altri termini, idonee a produrre rapidamente la cessazione della violazione e, anche nel caso in cui la situazione lesiva fosse già cessata, ad assicurare con rapidità e concretezza forme di riparazione adeguate. E questa richiesta deve costituire un indefettibile criterio ermeneutico ai fini della corretta applicazione della disciplina successivamente introdotta dal legislatore”, salvo però dire che vi sarebbero non meglio specificati “casi nei quali di fatto l'azione civile sarebbe negata”. La posizione della Consulta si consolida con Corte cost., 13 aprile 2017, n. 83, in Foro it., 2017, I, 1813, secondo cui “[all]'azione prevista dall'art. 35-ter […] non può certamente sostituirsi, con analoghi effetti e tempestività, la domanda proponibile ai sensi dell'art. 2043 del codice civile”.

[14] Cfr. Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, in Foro it., 2003, I, c. 2272 ss. con note di La Battaglia e Navarretta, nella quale si parla inoltre di “diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica”; più di recente, cfr. Cass. civ., sez. un., 16 febbraio 2009, n. 3677, in Foro it., 2009, I, c. 3073 ss. con nota di D’Auria, la quale individua quale presupposto della risarcibilità la violazione di “un diritto costituzionalmente garantito”.

[15] Così si era espresso Viganò, op. cit., commentando Cass. pen., sez. I, 15 gennaio 2013, (dep. 30/1/2013), n. 4772. Si v. poi anche Cass. pen., sez. I, 27 settembre 2013 (dep. 18/10/2013), n. 42901, rv. 257161 (m). Nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Palermo, sez. III, 25 marzo 2015, in questa Rivista, 22 luglio 2015, con nota di Masieri, La natura dei rimedi di cui all’art. 35-ter ord. pen., con cui il “Tribunale si uniforma ai principi dettati dalle sentenze della Corte europea, ritenendole direttamente applicabili al contenzioso in esame ogniqualvolta il trattamento carcerario assuma caratteri tali da risultare “inumano” ai sensi dell’art. 3 CEDU, così come interpretato dalle sentenz[e] dianzi richiamate”, e - “pur consapevole dell’irretroattività della norma” introdotta dal d.l. n. 92 del 2014, “ritiene di condividere e adottare” la somma ivi prevista “quale parametro equitativo, comunque di matrice legislativa, ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale”.

[16] Cfr. Trib. Biella, 1 giugno 2005, in Giur. it., 2007, 1, p. 88 ss., con nota di Bona; Trib. Firenze, 21 gennaio 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, p 762 ss. con nota di Azzarri; più di recente, cfr. Di Genova, Risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà: una svolta nella giurisprudenza di merito nazionale, in Riv. crit. dir. priv., 2016, 2, p. 293 ss.

[17] Cfr. Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Corr. giur., 2009, 1, p. 48 ss., secondo cui “[…] ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, […] non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007)”. Ma la copertura costituzionale del diritto leso da violazioni dell’art. 3 CEDU potrebbe essere forse rinvenuta in alcune disposizioni della Costituzione italiana.

[18] Hanno affermato la natura indennitaria, e l’applicazione del termine ordinario decennale di prescrizione, Cass. pen., sez. I, 15 marzo 2017, n. 31475, rv. 270841 (m) e Cass. pen., sez. 1, 16 marzo 2017, n. 47333, rv. 271173 (m); per Cass. pen., sez. I, 19 ottobre 2016, n. 9658, cit., si tratta di “uno strumento di riparazione della violazione francamente atipico, con carattere prevalentemente indennitario e di matrice solidaristica”; negli stessi termini, Cass. pen., sez. I, 19 ottobre 2016, n. 831, cit.; Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, n. 11244, cit., Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, n. 11248, cit. e Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, n. 11249, cit., i cui testi completi sono disponibili in DeJure; per la responsabilità extracontrattuale optava invece Mag. sorv. Alessandria, ord. 31 ottobre 2014, in Cass. pen., 2015, 5, p. 2012 ss. con nota di Penoncini; nello stesso senso, in sede civile, Trib. Roma, sez. II, 30 maggio 2015, in questa Rivista, 22 luglio 2015, cit.; Trib. Perugia, 23 febbraio 2016, in Rep. Foro it., 2017, voce Ordinamento penitenziario [4640], n. 82, ma la soluzione appare in contrasto con una precedente decisione del medesimo Trib. Perugia, 15 giugno 2015, in Rep. Foro it., 2017, voce Ordinamento penitenziario [4640], n. 83; conclude invece per la responsabilità da inadempimento di un’obbligazione Trib. Palermo, 1 giugno 2015, n. 3638, in questa Rivista, 22 luglio 2015, cit.

[19] Cfr. Cass. civ., sez. III, ord. 28 settembre 2017, n. 22764, in DeJure.

[20] Cfr. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Diritto e valori, Bologna, 1985, p. 34-35: “Il metodo della ‘giurisprudenza costruttiva’ consiste […] nel risolvere i problemi di regolamento delle situazioni concrete con la mediazione discorsiva di concetti costruiti in via di astrazione dai concetti legali e separati dai punti di vista di politica del diritto (etici, economici, sociologici, ecc.) sottostanti alle norme positive. Quando si presenti un caso non corrispondente univocamente a una precisa fattispecie legale, esso viene qualificato nei limiti della comprensione dei concetti sistematici, variamente combinati tra di loro, scartando a priori come irrilevanti circostanze di fatto che, prive di valore informativo dal punto di vista precostituito del sistema, potrebbero invece, se esaminate da punti di vista diversi, assumere il valore di indici di un problema nuovo, estraneo al quadro originario di riferimento problematico delle norme da cui quei concetti sono stati estratti e fuori dal quale essi perdono significato. È questo, come tutti sanno, il cosiddetto ‘procedimento o metodo di inversione’ (Inversionsmethode) aspramente rimproverato dai critici della giurisprudenza dei concetti. Esso […] è un procedimento doppiamente arbitrario, sia perché attribuisce ai concetti sistematici una forza produttiva di nuove regole di diritto (in via di sviluppo del sistema con mezzi puramente logici) della quale non sono dotati, essendo meri strumenti di conoscenza delle norme esistenti, sia perché le soluzioni di nuovi problemi pratici così dedotte rispondono unicamente all’interesse di chiusura (o di purezza) del sistema, mentre sono prive di giustificazione sotto il profilo delle conseguenze che ne derivano nella realtà sociale circostante, e in questo senso sono politicamente irresponsabili”; cfr. inoltre, ibidem, p. 40-41, nota 87; nello stesso senso si v. Id., L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Id., Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 113; Id., Diritto e politica nella dottrina giuridica, in Id., Scritti, I, Milano, 2011, p. 160-161; Mengoni, Dogmatica giuridica, in Mengoni – Modugno – Rimoli, Sistema e problema. Saggi di teoria dei sistemi giuridici, Torino, 2017, p. 105, nota 66 e p. 109, nota 75; ma v. anche Id., Interpretazione e nuova dogmatica, in Id., Ermeneutica e dogmatica giuridica, cit., p. 72-73: “Anche la ‘giurisprudenza dei valori’ rimane però nell’orizzonte del positivismo legislativo; […] Quando si impegna nell’attività di integrazione delle lacune, […] cade nel medesimo errore di ‘inversione di metodo’ che i suoi precursori del primo novecento rimproveravano alla ‘giurisprudenza dei concetti’. […] Da concetti astratti di valore non si può dedurre più di quanto è già in essi contenuto. Essi riproducono l’esistente, non portano a scoprire nuove regole di decisione”.

[21] Cfr. art. 2907 cod. civ. e art. 99 cod. proc. civ., su cui si v. Mandrioli – Carratta, Diritto processuale civile, I, Torino, 2017, p. 94-97.

[22] Cfr. ad es. in tema di danni da emotrasfusioni, in primis Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584, in Foro it., 2008, I, c. 451 ss. con nota di Palmieri; nello stesso senso, cfr. inoltre Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2013, n. 6573, in Rep. Foro it., 2013, voce Sanità pubblica e sanitari [6020], n. 304; la questione della compensatio lucri cum damno è stata rimessa alle Sezioni Unite civili, cfr. Cass. civ., sez. III, ord. 22 giugno 2017, n. 15535, in DeJure.