ISSN 2039-1676


24 febbraio 2014 |

Convertito il d.l. 146/2013 sull'emergenza carceri: il nodo dell'art. 73 co. 5 t.u. stup.

Legge 21 febbraio 2014 n. 10

Per consultare il testo della legge di conversione, clicca qui.

Per consultare il testo originario del decreto-legge, clicca qui.

Per scaricare l'art. 73 t.u. stup., nelle diverse versioni succedutesi per effetto degli interventi normativi recenti e della sentenza della Corte costituzionale di imminente pubblicazione, clicca qui.

 

 

1. Lo scorso 20 febbraio il Senato ha convertito il d.l. 146/2013 (clicca qui per scaricare il relativo commento di A. Della Bella), con il quale il Governo ha introdotto alcune misure finalizzate a fronteggiare il sovraffollamento carcerario, nell'intento di adempiere agli obblighi imposti al nostro ordinamento dalla sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Nonostante le battaglie annunciate in sede politica, le modificazioni apportate al decreto in sede di conversione non sono state particolarmente incisive. Paradossalmente, infatti, più che sugli emendamenti approvati, occorrerà in questa sede soffermarsi sugli effetti derivanti dalla mancata modifica, in sede di conversione, dell'art. 73 co. 5 t.u. stup., in materia di spaccio di sostanze stupefacenti nei casi di "lieve entità", disposizione che, proprio durante l'iter parlamentare di conversione in legge, è stata oggetto di una declaratoria di illegittimità da parte della Corte costituzionale (cfr. il comunicato stampa diffuso dalla Corte a proposito della decisione assunta nel camera di consiglio del 12 febbraio 2014, pubblicato in questa Rivista).

 

2. La presenza, da un lato, di una successione di leggi modificative, ai sensi dell'art. 2 co. 4 c.p. e, dall'altro, di una declaratoria di illegittimità costituzionale, da cui discende la rimozione con effetto ex tunc della disposizione dichiarata illegittima, con conseguente ripristino di quella previgente, fa sorgere il problema di individuare la norma applicabile per l'ipotesi dello spaccio di lieve entità, in relazione da un lato al tempus commissi delicti e, dall'altro, alla presenza o meno di una sentenza passata in giudicato.

Nel tentativo di mettere ordine su di una questione apparentemente piuttosto intricata, occorre innanzitutto fare il quadro delle norme della cui applicabilità si discute.

A questo proposito, viene in considerazione, in primo luogo, l'art. 73 co. 5, nella versione della legge Fini Giovanardi (d.l. 272/ 2005, conv. l. 49/2006), in vigore fino al 23 dicembre 2013, data della pubblicazione in G.U. del d.l. 146/2013. In base a tale disposizione, il fatto di lieve entità - che si configura come una circostanza attenuante del reato di cui al co. 1 - è punito con la reclusione da 1 a 6 anni (oltre che con la multa da 3.000 a 26.000 euro).    

La seconda norma che entra in gioco è poi quella contenuta nel d.l. 146/2013, non modificato sul punto in sede di conversione, con la quale l'art. 73 co. 5 è stato modificato sotto due profili: in primo luogo, è stato ridotto il massimo edittale della pena detentiva (la reclusione è ora da uno a cinque anni); in secondo luogo, è stato configurato come fattispecie autonoma di reato, con la conseguenza - per nulla marginale - che il blando quadro edittale ivi previsto non può essere eliso (con conseguente ritorno al ben più severo quadro edittale previsto per il reato-base) nel caso, assai frequente, di concorso con l'aggravante della recidiva, e con l'ulteriore conseguenza di una notevole riduzione del termine della prescrizione, da calcolarsi ora in sei anni (anziché in venti), ai sensi dell'art. 157 co. 1 c.p.

Come anticipato, nelle more della conversione del d.l. 146/2013, il 12 febbraio scorso, un comunicato stampa della Corte costituzionale ha dato notizia della declaratoria di illegittimità, per eccesso di delega, delle disposizioni della legge Fini Giovanardi, con le quali era stato modificato tra l'altro l'art. 73 stup. Tale sentenza, a far data dalla sua ormai imminente pubblicazione, comporterà la rimozione ex tunc delle norme dichiarate incostituzionali e la 'riviviscenza' - nei termini che di seguito proveremo ad indagare - delle norme precedentemente vigenti, ossia di quelle contenute nella legge Iervolino-Vassalli (l. 162/1990), fondata, come noto, sulla distinzione tra droghe 'pesanti' e droghe 'leggere'. Con riferimento, in particolare, all'ipotesi della lieve entità di cui al co. 5 quella disciplina sanzionava: al co. 1, il fatto relativo a droghe 'pesanti' con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da euro 25.822 (lire cinquanta milioni) a euro 258.228(lire cinquecento milioni); al co. 4, il fatto relativo a droghe 'leggere' con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da euro 5.164 (lire dieci milioni) a euro 77.468. Questa dunque la terza norma di cui si deve tenere conto.

Con una importante precisazione, però. Il comma 5 dell'art. 73 di cui alla legge Iervolino-Vassalli, illegittimamente abrogato dalla legge Fini-Giovanardi e da considerarsi pertanto ancora vigente dal 2005 al 22 dicembre 2013 per effetto della preannunziata sentenza della Corte costituzionale, è stato nel frattempo sostituito dal d.l. 146/2013 appena convertito, che non è evidentemente interessato dalla sentenza della Corte e deve pertanto ritenersi vigente a far data dal 23 dicembre 2013, combinandosi con il testo risultante dai primi quattro commi dell'art. 73 nella versione di cui alla legge Iervolino-Vassalli. Con un risultato in certo senso 'ibrido', che ci restituisce una norma strutturata nei primi quattro commi attorno alla distinzione - ai fini sanzionatori - tra droghe 'pesanti' e 'leggere', e in un quinto comma che invece prescinde da tale distinzione.

Inoltre - ma qui il condizionale è d'obbligo, in attesa di leggere la sentenza della Corte - la dichiarazione di illegittimità costituzionale sembrerebbe aver travolto anche il co. 5 bis dell'art. 73 (anch'esso introdotto con la l. 49/2006), che prevede la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità per  i fatti di cui al co. 5 commessi da tossicodipendente.

 

3. Si tratta ora di capire quale sia la norma applicabile nei vari casi che si possono presentare al giudice. Nel tentativo di fornire una risposta, proviamo qui ad immaginare tre diverse situazioni:

a) quella di chi abbia commesso il fatto dopo il 23 dicembre 2013;

b) quella di chi abbia commesso il fatto prima del 23 dicembre, e dunque nella vigenza della legge Fini-Giovanardi, nel caso in cui il giudizio sia ancora pendente; ed infine

c) quella di chi, avendo commesso il fatto durante la vigenza della legge Fini Giovanardi, stia espiando la pena in esecuzione di una condanna passata in giudicato.

 

4. Nel primo caso la soluzione è agevole: è infatti evidente che, nei confronti di chi abbia commesso il fatto dopo il 23 dicembre 2013, si dovrà applicare l'art. 73 co. 5 nella formulazione del d.l. 146/2013, ora convertito.   

Ci si potrebbe forse interrogare sulla rispondenza al parametro della ragionevolezza della mancata differenza di trattamento sanzionatorio tra droghe pesanti e leggere nell'ipotesi della lieve entità, differenza che invece, come abbiamo visto, sussiste in relazione al reato base. Soprattutto ciò che può generare qualche perplessità, sotto il profilo dell'art. 3 Cost., è che all'esito di questa ricostruzione lo sconto di pena per l'ipotesi della lieve entità è molto consistente quando la condotta concerne droghe 'pesanti', ed ha invece molto meno peso qualora concerne droghe 'leggere' (infatti, per i primi fatti il reato-base è punito, secondo la norma nella versione  Iervolino-Vassalli, con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da euro 5.164 ad euro 77.468, mentre il fatto di lieve entità è punito, secondo il nuovo co. 5, con la reclusione da 1 a 5 anni e con la multa da euro 3.000 ad  euro 26.000), e ciò nonostante il ben diverso disvalore delle due ipotesi. Ciò potrebbe rendere non del tutto implausibile un dubbio di legittimità costituzionale sulla nuova norma al metro dell'art. 3 Cost.

 

5. Quanto al secondo caso, ossia all'ipotesi di chi è ancora sub iudice per fatti commessi prima del 23 dicembre 2013, occorre operare un distinguo a seconda che il giudice si pronunci prima o dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale sull'art. 73 stup. (essendo questo il momento a partire dal quale, ai sensi dell'art. 136 Cost., la norma dichiarata costituzionalmente illegittima cessa di avere efficacia).

Il giudice che si pronuncerà prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale si troverà davanti ad un normale caso di successione di leggi modificative, in quanto tale disciplinato dall'art. 2 co. 4 c.p.: da un lato, c'è la norma 'vecchia', ovvero la Fini-Giovanardi (ancora applicabile sino al deposito della sentenza che ne dichiarerà l'illegitimità), che configura la lieve entità come circostanza attenuante e che prevede la reclusione da 1 a 6 anni; dall'altro, c'è la norma 'nuova', contenuta nel d.l. 146 ora convertito, che configura l'ipotesi della lieve entità come reato autonomo e che riduce a 5 anni di reclusione il massimo edittale della pena detentiva.

Ora, non ci pare potersi porre in dubbio il fatto che, nel confronto tra le due norme, la lex mitior sia rappresentata da quella nuova: non solo perché quest'ultima prevede una pena detentiva inferiore nel massimo, ma anche perché - configurando la lieve entità come reato autonomo - la sottrae al bilanciamento con altre circostanze aggravanti e la sottopone ad un termine prescrizionale molto più breve.

La situazione sarà ancora più favorevole per l'imputato nel caso in cui la decisione giunga dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale. In questo caso, infatti, l'art. 73 co. 5 nella formulazione della Fini-Giovanardi non potrà in ogni caso essere applicato, dal momento che, ai sensi dell'art. 30 co. 3 l. 87/1953, "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Poiché, d'altra parte, la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma ha altresì effetto ex tunc, retroagendo sin dal momento dell'emanazione della norma, una volta dichiarate incostituzionali le modifiche introdotte dalla legge Fini-Giovanardi il giudice dovrà considerare come legge vigente al momento del fatto l'art. 73 co. 5 nella formulazione di cui alla legge Iervolino-Vassalli; sicché, a fronte del novum legislativo rappresentato dal d.l. 146/2013, ora convertito in legge, il giudice dovrà anche in questo caso stabilire, ai sensi dell'art. 2 co. 4 c.p., se sia più favorevole per l'imputato la legge vigente al momento del fatto (e cioè l'art. 73 co. 5 nella formulazione precedente al 2006) ovvero la legge vigente al momento del giudizio (e cioè l'art. 73  nella formulazione introdotta dal d.l. 146/2013).

A differenza del caso precedente, ove emergeva ictu oculi il carattere più favorevole della nuova disciplina, nel caso in esame tale valutazione dipenderà dalle circostanze del caso concreto. In particolare, con riferimento ai fatti concernenti droghe 'pesanti', sembrerebbe comunque più favorevole la norma nuova: non solo perché il massimo della pena è inferiore (5 anni contro i 6 della vecchia norma), ma anche per le conseguenti discendenti dalla configurazione della condotta di lieve entità come reato autonomo (con conseguente impossibilità di tornare al quadro edittale di cui al primo comma in presenza di aggravanti e termine prescrizionale più breve). Con riferimento alle droghe 'leggere', invece, la risposta sembrerebbe dipendere dalla presenza o meno di circostanze aggravanti: infatti, mentre di regola risulterà più favorevole la norma 'vecchia' (in relazione al minimo edittale più basso: sei mesi anziché l'anno attuale), nel caso in cui vi siano aggravanti plausibilmente la configurazione della condotta come reato autonomo renderà più favorevole la norma 'nuova'.

 

6. Rimane ora da analizzare il terzo caso: quello cioè del soggetto che abbia commesso il fatto prima del 23 dicembre 2013, dunque sotto la vigenza della Fini-Giovanardi, ma nei cui confronti sia intervenuta una sentenza già passata in giudicato. La domanda da porsi è se, a seguito della rimozione della norma incostituzionale e della conseguente riviviscenza della più favorevole disciplina contenuta nella Iervolino-Vassalli, il condannato possa chiedere la rideterminazione della pena in fase esecutiva nonostante la formazione del giudicato.  

Proprio tale questione è stata di recente sottoposta all'esame delle Sezioni unite (clicca qui per accedere all'ordinanza di rimessione e a una densa nota di G. Romeo, pubblicata proprio oggi sulla nostra Rivista), alle quali è stato chiesto "se la dichiarazione della illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale, diversa dalla norma incriminatrice (nella specie, appunto, dell'articolo 69, comma quarto, cod. pen. in parte de qua, giusta sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012), comporti la rideterminazione della pena in executivis, così vincendo la preclusione del giudicato". Quesito che si pone, mutatis mutandis, anche rispetto all'ipotesi qui in discussione, in cui oggetto della declaratoria di incostituzionalità è stata invero la stessa norma incriminatrice (l'art. 73 t.u. stup.), ma soltanto nella sua parte relativa alla determinazione della sanzione, essendo invece restato inalterato il precetto penalmente sanzionato: con un esito dunque - per prendere a prestito il linguaggio dell'art. 2 c.p. - non già di abolitio criminis, bensì di mera modifica della disciplina di un reato che resta in vigore.

Nell'ipotesi che le Sezioni Unite si pronuncino in senso favorevole alla rideterminazione della pena in sede esecutiva, l'unica norma applicabile da parte del giudice sarà evidentemente quella precedente a quella dichiarata incostituzionale (e dunque, quella di cui alla legge Iervolino-Vassalli), che dovrà essere considerata - come si diceva poc'anzi - come la legge a tutti gli effetti vigente al momento del fatto, e sulla base della quale si dovrà (ri)commisurare la pena. Non potranno invece in alcun modo entrare in considerazione, in sede esecutiva, le modifiche apportate dal d.l. 146/2013, che certamente non potranno essere retroattivamente applicate (nemmeno se più favorevoli) a fatti già giudicati in via definitiva, stante lo sbarramento rappresentato dall'art. 2 co. 4 c.p.  

 

7. Un cenno ora agli emendamenti approvati in sede di conversione (per un più compiuto esame di questo provvedimento e del precedente d.l. emanato per fare fronte al sovraffollamento carcerario - d.l. 78/2013 conv., con modif., in l. 94/2013 - sia consentito rinviare a A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale: i decreti legge del 2013, edito da Giappichelli, in corso di pubblicazione).

La modifica principale riguarda l'avvenuta esclusione dall'ambito applicativo della nuova 'liberazione anticipata speciale' dei condannati per i delitti di cui all'art. 4 bis o.p. Come si ricorderà (sia consentito rinviare, sul punto, a A. Della Bella, Un nuovo decreto-legge sull'emergenza carceri: un secondo passo, non ancora risolutivo, per sconfiggere il sovraffollamento) tale misura, destinata ad operare per un periodo di due anni dall'entrata in vigore del d.l. 146, consente una detrazione di 75 giorni ogni sei mesi di pena scontata - anziché di 45 giorni, come nella liberazione anticipata ordinaria, di cui all'art. 54 o.p. - sul presupposto della "prova della partecipazione del condannato all'opera di rieducazione".

In sede di conversione, tale misura è stata osteggiata da alcune forze politiche che hanno accusato il Governo di aver surrettiziamente introdotto in questo modo un 'indulto mascherato', ma le maggiori perplessità hanno riguardato appunto la sua estensione ai condannati per i delitti di cui all'art. 4 bis o.p., e ciò nonostante il fatto che nei loro confronti l'applicabilità della maggiore detrazione dei 75 giorni fosse subordinata al riscontro di un presupposto soggettivo più pregnante, rappresentato dalla prova, nel periodo di detenzione, "di un concreto recupero sociale, desumibile da comportamenti rivelatori del positivo evolversi della personalità": ignorando tale profilo, in sede parlamentare si è diffusa la convinzione che la disposizione avrebbe comportato l'indiscriminata scarcerazione di detenuti socialmente pericolosi ed è stata per ciò soppressa.  

 

8. Un'altra modifica di rilievo, approvata in sede di conversione, riguarda l'art. 19 co. 5 d.P.R. 448/1988, disposizione che stabilisce la rilevanza della diminuente della minore età nella determinazione del quantum di pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere nei confronti degli imputati minorenni. A tale regola è stata posta ora un'eccezione, nel senso che della diminuente legata alla minore età non deve tenersi conto "in relazione ai delitti di cui all'art. 73 co. 5 t.u. stup.".

L'intervento sull'art. 19 si è reso necessario, perché la modifica apportata con il d.l. all'art. 73 co. 5 stup., ed in particolare la riduzione del massimo della pena detentiva a 5 anni di reclusione, avrebbe comportato l'impossibilità di applicare una qualsiasi misura cautelare al minorenne: ciò in quanto il co. 4 dell'art. 19 citato stabilisce che "le misure diverse dalla custodia cautelare possono essere applicate solo per delitti per i quali la legge stabilisce (...) la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni".

Ci pare però seriamente possibile dubitare della conformità all'art. 3 Cost. della novella, che discrimina in modo del tutto ingiustificato una categoria di imputati che, proprio per la 'lievità' del fatto commesso, dovrebbero meritare un trattamento più favorevole: del tutto irragionevolmente, infatti, della diminuente della minore età potranno beneficare coloro che si sono resi responsabili del ben più grave delitto di spaccio punito ora ai sensi del co. 1 (per le droghe pesanti) e del co. 4 (per le droghe leggere) dell'art. 73 stup.

Allo stesso risultato - apprezzabile nella misura in cui si preoccupa di garantire, attraverso l'applicazione della misura del collocamento in comunità, un'occasione di recupero nei confronti di ragazzi sulla via della tossicodipendenza - si sarebbe forse potuti pervenire, con più attenzione al rispetto dell'art. 3 Cost., abbassando il limite edittale di pena per l'accesso alle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, nei confronti degli imputati minorenni, autori di un qualsiasi reato in materia di stupefacenti.  

 

9. Una battuta conclusiva: la sensazione è che, un po' casualmente, in parte grazie alle varie misure deflattive contenute nei decreti legge sull'emergenza carceri, ma soprattutto per effetto della Corte costituzionale, che ha rimosso una legge carcerogena come la Fini-Giovanardi, ci si stia finalmente avviando a dare una risposta agli obblighi impostici da Strasburgo. Quel che è sicuro, però, è che si è ancora una volta persa l'occasione, che i giudici di Strasburgo ci avevano offerto su di un piatto d'argento, di mettere finalmente a punto una riforma strutturale del sistema sanzionatorio. Ed il prezzo da pagare per questo procedere 'a tentoni', per la totale assenza, cioè, di un disegno organico di politica criminale è alto, e si traduce in un sistema normativo sempre più incoerente e complicato, come dimostra la vicenda paradigmatica dell'art. 73 co. 5 Cost.