3 ottobre 2014 |
Sollevata questione di legittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio dei fatti di 'spaccio' di lieve entità
Trib. di Nola, Sez. pen., ord. 8 maggio 2014, Giud. Tirone
1. Si segnala all'attenzione dei lettori che, nella Gazzetta Ufficiale, 1ᵃ Serie Speciale, n. 40 del 24 settembre scorso, è stata pubblicata l'ordinanza con cui il Tribunale di Nola, Giudice dott.ssa Tirone, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 73, co. 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella formulazione introdotta dal d.l. n. 146 del 2013, convertito nella l. n. 10 del 2014, nella parte in cui non distingue, nel trattamento sanzionatorio, tra fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III dell'art. 14 del medesimo d.P.R. (cc.dd. droghe pesanti) e fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope cui alle tabelle II e IV del citato art. 14 (cc.dd. droghe leggere).
In particolare, si assume violato l'art. 3 Cost. e, in specie, il principio di eguaglianza formale e sostanziale ivi consacrato, «che comporta che siano trattate ugualmente situazioni eguali e diversamente situazioni diverse, con la conseguenza che ogni differenziazione, per essere giustificata, deve risultare ragionevole, cioè razionalmente correlata al fine per cui si è inteso stabilirla». Una razionalità che l'atto di promovimento in questione reputa non potersi rintracciare nel vigente art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che, in relazione ai fatti di non lieve entità, contempla limiti edittali diversi a seconda delle sostanze stupefacenti che vengano in rilievo e che, al contrario, in relazione ai fatti di lieve entità, fissa un identico delta punitivo quale che sia la sostanza stupefacente oggetto della condotta illecita. In effetti, secondo il remittente, non vi sarebbero argomenti plausibili a giustificazione del venir meno della rilevanza tributata a natura e tipologia della sostanza oggetto del reato allorquando si tratti di fatti di lieve entità, essendo stata determinata, d'altronde, la disomogeneità interna all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, «unicamente dalle vicissitudini normative della previsione in esame».
2. Il provvedimento in epigrafe - alla cui lettura si rinvia - recepisce dunque perplessità da più parti manifestate già all'indomani della nota sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014[1] e che, come rilevato in altra sede, potrebbero addirittura essersi irrobustite a seguito del d.l. n. 36 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 79 del 2014, che ha ripristinato un trattamento sanzionatorio differenziato, in ragione della sostanza stupefacente, anche rispetto agli illeciti amministrativi di cui all'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990[2].
Si tratta di perplessità, come ricorda l'ordinanza, affiorate anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass., sez. III, 7 marzo 2014, n. 11110, Ric. Kiogwu), ma successivamente sdrammatizzate dagli stessi Giudici di legittimità (cfr. Cass., sez. IV, 5 marzo 2014, n. 10514, Ric. Verderamo; sez. IV, 14 marzo 2014, n. 13903, Ric. Spampinato) che, da un lato, non hanno ravvisato i tratti di un'evidente irragionevolezza (tanto logica, quanto assiologica) nella «scelta legislativa di svalutare il rilievo della natura della sostanza stupefacente trattata (sia essa droga cd. 'leggera' o 'pesante'), a fronte di specifiche modalità del fatto criminoso tali da rilevarne la concreta ed obiettiva ridotta idoneità offensiva» e, dall'altro, hanno comunque giudicato l'escursione edittale contemplata dalla disposizione atta a garantire margini di flessibilità «tali da consegnare, nelle accorte mani del giudice di merito, un largo spettro di soluzioni sanzionatorie, la cui ampiezza appare tale da consentirne, con un soddisfacente grado di duttilità, l'agevole adattamento al singolo episodio di vita» in concreto sottoposto al suo esame[3].
Il giudice a quo si confronta, in particolare, con la argomentazione da ultimo riportata, non condividendo l'assunto per cui l'ampiezza del potere discrezionale del giudice, in sede di commisurazione della pena, riuscirebbe idonea «a fronteggiare paventate diseguaglianze di trattamento» e, per l'effetto, ad assicurare una patente di legittimità costituzionale alla disposizione censurata. Ordinariamente - si fa notare - il sistema sanzionatorio è caratterizzato dalla previsione di forbici edittali entro cui il giudice individua la pena da irrogare in concreto alla stregua dei molteplici criteri di cui all'art. 133 c.p., e cioè «tenuto conto di un complesso di circostanze che non può limitarsi alla valutazione della natura della sostanza stupefacente», spettando, tra l'altro, «al legislatore il compito di indicare i limiti sanzionatori per le varie fattispecie criminose, secondo il principio di legalità consacrato dagli artt. 25 Cost. e 1 c.p.».
3. Alcune rapide considerazioni si impongono nel breve spazio della presente segnalazione.
Innanzitutto, va rilevato come l'ordinanza faccia riferimento all'art. 73, co. 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella formulazione introdotta dal d.l. n. 146 del 2013, convertito nella l. n. 10 del 2014, e non tiene conto, in quanto antecedente, delle modifiche apportate al citato comma 5 dalla l. n. 79 del 2014 di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 36 del 2014.
Di conseguenza, andrebbe considerata l'eventualità che la Corte restituisca gli atti al giudice a quo ai fini della rivalutazione della questione alla luce dello ius superveniens[4], che, avendo ridotto le pene previste per i fatti di lieve entità (passate da uno fino cinque anni a sei mesi fino a quattro anni), sarebbe la normativa da applicare nel giudizio principale in omaggio al principio della lex mitior[5].
Peraltro, non è più attuale la considerazione, contenuta nell'ordinanza, secondo la quale, come si è precedentemente esposto, la disomogeneità interna all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sarebbe da addebitare unicamente alle vicissitudini normative della previsione in esame, ovverosia alla antecedenza cronologica del d.l. n. 146 del 2013 e della relativa legge di conversione alla sentenza della Corte costituzionale che, peraltro, come è noto, pur riportando in vita, quanto al resto della disposizione, il 'vecchio' art. 73, ha 'salvato' la modifica del comma 5 intervenuta medio tempore. Con il d.l. n. 36 del 2014 e con l. n. 79 del 2014, di conversione dello stesso, il legislatore, come dimostrano i lavori preparatori, ha consapevolmente optato, in costanza di una ripristinata divaricazione del trattamento sanzionatorio relativo ai 'fatti-base', per uno statuto punitivo indifferenziato dei fatti di lieve entità.
Al riguardo, va segnalata una recente ordinanza del Tribunale di Trento che ha dichiarato manifestamente infondate le eccezioni di legittimità costituzionale prospettate dalla difesa dell'imputato in riferimento all'art. 24-ter, lett. a), dell'art. 1 del d.l. n. 36 del 2014, come modificato, in sede di conversione, dalla l. n. 79 del 2014, rilevando, tra l'altro, «che la recentissima normativa di cui all'art. 1 co. 24 ter lett. A) del D.L. n. 36/14 convertito nella L. n. 79/14 era intervenuta in presenza della sentenza n. 32/14 della Corte costituzionale per cui il Legislatore ha inteso, così, svolgere le proprie insindacabili scelte»[6].
È evidente, d'altro canto, che l'ultima riforma, in ordine di tempo, del comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 non ha spostato di molto i termini della questione in riferimento al parametro costituzionale invocato, avendo semmai, come si diceva, ispessito i dubbi, tenuto anche conto del 'restringimento' dello spettro di soluzioni sanzionatorie attualmente nella disponibilità del giudice e dell'acuirsi della sperequazione sanzionatoria tra fatti 'non lievi' e fatti 'lievi'[7]. Sicchè, privilegiando una tale chiave di lettura, la Corte costituzionale potrebbe forse escludere l'opzione di una decisione di tipo processuale quale quella della restituzione degli atti al giudice remittente.
4. Ad ogni modo, al netto dei profili problematici connessi allo ius superveniens, ci sembra che l'ordinanza esibisca delle criticità ulteriori, che, di per sé considerate, potrebbero condurre ad una declaratoria di (manifesta) inammissibilità o di infondatezza.
Sopra di ogni cosa, ciò che desta maggiori perplessità è il petitum, che, in base alla pervicace posizione espressa sul punto dalla Corte costituzionale, deve essere non solo esplicitato, ma altresì puntuale e univoco[8].
Nel caso di specie, al contrario, la formulazione dello stesso è tale da lasciare indeterminato l'intervento che la Corte sarebbe chiamata a compiere, trascurando, in particolare, d'indicare se esso debba essere di tipo (integralmente o parzialmente) caducatorio o di diversa specie.
In altri termini, non è chiaro, all'esito della prospettazione delle censure, che cosa si chieda di fare al Giudice costituzionale per rimediare al vulnus di costituzionalità denunciato.
Tale indeterminatezza del petitum potrebbe finanche condurre all'adozione di una declaratoria di manifesta inammissibilità della questione sollevata, considerato che, nei più recenti tracciati giurisprudenziali, la corretta formulazione del petitum appare vieppiù affermarsi quale condizione necessaria per la stessa valutazione nel merito del ricorso incidentale[9].
5. Indeterminatezza del petitum a parte, vi sarebbero ragioni ulteriori che farebbero ritenere altamente improbabile l'accoglimento delle eccezioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Nola.
Esse sono strettamente correlate alle peculiarità che connotano il giudizio (e i poteri) della Corte costituzionale al cospetto di censure appuntate sull'inosservanza del principio di eguaglianza/ragionevolezza quando si faccia questione di norme penali.
Indipendentemente da quanto chiesto (o non chiesto) dal giudice a quo e al di là di qualsiasi considerazione in ordine al tradizionale self-restraint osservato dal Giudice delle leggi in materia[10], che pur non ha impedito, talora, l'accoglimento di doglianze centrate, in sostanza, sull'"irragionevolezza in sé" della scelta legislativa[11], va rilevato che nel caso di specie si sarebbe al cospetto di una tipica ipotesi in cui, in apicibus, difetterebbe la stessa possibilità di prospettare una soluzione "a rime costituzionali obbligate"[12].
In effetti, nell'occasione, ci si duole, in definitiva, della irragionevolezza della parificazione sanzionatoria tra fattispecie asseritamente diverse[13], ipotesi paradigmatica in cui la Corte costituzionale viene chiamata a rimodulare la scala sanzionatoria attraverso una scelta discrezionale - e, dunque, non consentita - della/e pena/e da sostituire a quella/e censurata/e[14].
Se ne trae conferma dalla stessa ordinanza in commento, nella quale si individua un 'tertium comparationis' - «la restante parte dell'art. 73 D.P.R. n. 309/1990, nella formulazione precedente alla riforma del 2005, in vigore a seguito della sentenza della Corte delle leggi n. 32/2014» - che, sebbene in grado di significare una aporia nel quadro sanzionatorio riservato alle condotte di 'spaccio', non può certo offrirsi a termine di paragone per l'identificazione di una cornice edittale sostitutiva idonea a porre rimedio all'incoerenza ordinamentale lamentata senza che si tracimi, al contempo, nel campo riservato della discrezionalità legislativa.
D'altro canto, non sarebbe probabilmente risolutiva né, prima ancora, percorribile la soluzione di una dichiarazione di illegittimità del minimo edittale per i (soli) fatti di lieve entità relativi alle cc.dd. droghe leggere che, per tali fattispecie, dischiuda il campo all'operatività delle previsioni di cui agli artt. 23 e 24 c.p.[15]
Ancor più remota, si ritiene, la prospettiva di interventi radicalmente ablatori.
6. Mettendo da canto il provvedimento del Tribunale di Nola e, più in generale, eventuali censure di illegittimità costituzionale al metro dell'art. 3 Cost., va segnalato come, secondo talune prospettazioni difensive, la differenziazione dei compassi edittali (anche) per i fatti di lieve entità sarebbe imposta altresì dalla normativa sovranazionale - e segnatamente dalla Decisione quadro n. 757/2004/GAI del Consiglio U.E. - e, dunque, dall'art. 117, co. 1, Cost.[16]
Il discorso non può essere affrontato in questa sede, ma il parametro costituzionale da ultimo menzionato offre il destro per chiedersi se il vigente comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, non esibisca, per avventura, ulteriori profili di dissonanza rispetto alle previsioni europee, e cioè se non sia, per caso, irrispettoso dei minimi dei massimi edittali cui la menzionata Decisione quadro (che parla di pene detentive della durata massima compresa tra almeno cinque e dieci anni) assoggetta le condotte ivi stigmatizzate, laddove queste implichino la fornitura degli stupefacenti più dannosi per la salute.
L'intervento normativo che, da ultimo, ha interessato il predetto comma 5, infatti, come già accennato, ha modificato i limiti edittali contemplati dalla disposizione, in particolare riducendo il massimo della pena detentiva da cinque a quattro anni di reclusione per i fatti di lieve entità (anche) ove concernenti droghe pesanti.
Se così fosse, nel caso di specie - ma la questione meriterebbe ben altro approfondimento[17] - sarebbe forse ravvisabile un'ipotesi di inadempimento statale sopravvenuto alla stregua di un obbligo sovranazionale connotato da un grado di determinatezza tale da rendere l'antinomia eventualmente riscontrata un'antinomia censurabile da parte della Corte costituzionale[18].
Come è facile intuire, difatti, anche agli effetti degli spazi di intervento che la Corte possa ritagliarsi per sanzionare eventuali difformità tra diritto dell'Unione e diritto interno, gioca un ruolo fondamentale la possibilità di intercettare o meno, nei singoli casi, soluzioni stringenti, per l'appunto (a rime) obbligate.
7. Concludendo, si ritiene di poter affermare che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 73, co. 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (per come) prospettata dal Tribunale di Nola sia destinata, verosimilmente, a non essere accolta.
Ciò, beninteso, a prescindere dal fatto che, in tesi, si possa condividere la valutazione circa l'irragionevolezza della previsione nella parte in cui assoggetta ad un indifferenziato trattamento punitivo tutti i fatti di lieve entità.
Non è un caso, d'altronde, che, nella variegata gamma di provvedimenti adottabili dal Giudice delle leggi, figurino anche le cc.dd. "decisioni di inammissibilità per eccesso di fondatezza", e cioè decisioni con cui si dà atto di una impossibilità, a dispetto di una volontà[19].
[1] Cfr. F. Viganò-A. Della Bella, Sulle ricadute della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale sull'art. 73 t.u. stup., in questa Rivista, 27 febbraio 2014; Unione Camere Penali Italiane, Prime riflessioni sulla portata della sentenza della Consulta sulla Fini-Giovanardi, pubblicato sul sito dell'Unione Camere Penali; M. Gambardella, La nuova ipotesi criminosa del fatto di lieve entità in tema di stupefacenti alla prova della sentenza costituzionale n. 32 del 2014, in www.archiviopenale.it, 9 ss.; e, più di recente, Id., La sequenza "invalidità" e "reviviscenza" della legge all'origine del "nuovo" sistema penale degli stupefacenti, in CP, 2014, 1143 ss; S. De Flammineis, La disciplina del fatto lieve in materia di stupefacenti alla luce delle ultime sentenze della Cassazione, in www.archiviopenale.it, 7 ss.
[2] Cfr., volendo, L. Romano, La riforma della normativa di contrasto agli stupefacenti: osservazioni sulla legge 16 maggio 2014, n. 79. Ovvero tra novità, conferme e "sviste", in questa Rivista, 29 maggio 2014, 4 s.
[3] Così, testualmente, Cass., sez. IV, 5 marzo 2014, n. 10514, Ric. Verderamo, cit.
[4] In merito a natura, caratteri e presupposti del provvedimento di restituzione degli atti al giudice a quo, si rinvia a R. Romboli, Lo strumento della restituzione degli atti e l'ordinanza 150/2012: il mutamento di giurisprudenza della Corte Edu come ius superveniens e la sua incidenza per la riproposizione delle questioni di costituzionalità sul divieto di inseminazione eterologa, in www.giurcost.org.
[5] Cfr., tra gli altri, G. Amato, La nuova disciplina delle sostanze stupefacenti, in www.archiviopenale.it, 6 s.
[6] Così Tribunale di Trento, 24 settembre 2014, ord.
[7] In effetti, accanto al dato, in sé considerato, della differenziazione o meno, a seconda dei casi, del trattamento sanzionatorio, andrebbe considerata anche (e forse soprattutto) la fortissima divaricazione di quest'ultimo, in base al tipo di sostanza, nei fatti di non lieve entità, che dà la 'misura' del giudizio di disvalore formulato dal legislatore in relazione allo stupefacente. In altri termini, è difficile comprendere come lo stesso elemento (tipo di sostanza) che, nei fatti-base di cui ai primi commi dell'art. 73, è capace di motivare il passaggio da un minimo edittale di due a otto anni e quello da un massimo edittale di sei a vent'anni, non sia chiamato a giocare alcun ruolo (già) in sede di determinazione della cornice edittale per i fatti di lieve entità.
[8] Cfr., ex plurimis, le ordinanze nn. 279 e 393 del 2007, entrambe di manifesta inammissibilità per il fatto che «il rimettente si è limitato a denunciare una presunta situazione di contrasto tra la disciplina censurata e gli evocati parametri costituzionali, senza indicare uno specifico petitum e senza precisare quale intervento di questa Corte sarebbe necessario onde ricondurre la norma censurata a legittimità costituzionale»; n. 163 del 2007; nn. 135 e 155 del 2009; e, più di recente, la sentenza n. 281 del 2013.
[9] Nel corso del tempo, il controllo della Corte costituzionale è diventato più severo anche in ordine ai vizi del petitum, tanto da essere numerosi i provvedimenti che, riscontrati tali vizi, dichiarano (manifestamente) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate [cfr., tra le più recenti, le sentenze (di inammissibilità) n. 220 del 2012; nn. 117 e 186 del 2011; e le ordinanze (di manifesta inammissibilità) nn. 21, 260 e 335 del 2011].
[10] Per una ricognizione sistematica della giurisprudenza costituzionale in materia, cfr. V. Manes (a cura di), Principi costituzionali in materia penale (Diritto penale sostanziale), Giurisprudenza sistematica, settembre 2013, in www.cortecostituzionale.it. Sul tema dei controlli di eguaglianza-ragionevolezza, cfr., G. Insolera, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza delle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, a cura di G. Insolera-N. Mazzacuva-M. Pavarini-M. Zanotti, Torino, 2012, 4ᵃ ed., vol. I, 394 ss.; V. Manes, I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in Dir. pen. cont.- Riv. trim., n. 1/2012, 99 ss.; Id., Ragionevolezza delle norme penali, in Libro dell'anno del diritto 2012, Treccani, 2012; Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in RIDPP, 2007, 739 ss.; G. Dodaro, Uguaglianza e diritto penale, Milano, 2012, 139 ss.
[11] Oltre ai contribuiti indicati alla nota precedente, cfr. V. Manes, Lo "sciame di precedenti" della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in DPP, 2014, 457 ss.; Id., Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005, 279 ss.; G. Leo, Automatismi sanzionatori e principi costituzionali, in Libro dell'anno del diritto 2014, Treccani, 2014, 121 ss.
[12] Sulla inammissibilità delle questioni che richiedano interventi additivi in materia riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, cfr., tra le molte, le sentenze nn. 134 e 301 del 2012; n. 271 del 2010; le ordinanze nn. 138 e 113 del 2012.
[13] Peraltro, in base alla giurisprudenza costituzionale, al legislatore, in linea di massima, non sarebbe precluso includere in una stessa figura di reato fattispecie differenti per struttura e disvalore, spettando al giudice, in tal caso, il compito di far emergere la diversità tra le varie condotte in sede di graduazione in concreto della pena tra il minimo e massimo (così, per esempio, ordinanza n. 224 del 2011). Un paradigma argomentativo di tale tenore è, del resto, sotteso a Cass., sez. IV, 5 marzo 2014, n. 10514, Ric. Verderamo, cit. così come a Tribunale di Trento, 24 settembre 2014, ord., cit. Ma vedi le osservazioni di cui alla nt. 7).
[14] Netta la recente sentenza n. 81 del 2014, nella quale si afferma, appunto, che, in un caso come quello in questione, la Corte costituzionale «dovrebbe scegliere...essa stessa, in modo "creativo", la pena da sostituire a quella censurata, così da "scaglionare" le ipotesi in comparazione sul piano sanzionatorio: operazione che le è preclusa»; ma, analogamente, già la precedente sentenza n. 22 del 2007, secondo cui il sindacato di costituzionalità «può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio», mentre, nella speculare ipotesi in cui si riscontri una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione e si rilevi una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, «un eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore». Sullo specifico argomento, cfr. L. Priscoli-F. Fiorentin, Trattamento sanzionatorio eccessivo e principio di ragionevolezza, in CP, 2008, 3810 ss.; D. Brunelli, La Corte costituzionale «vorrebbe ma non può» sulla entità delle pene: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa?, in Giur. cost., 2007, 181 ss.
[15] Cfr. la già citata sentenza n. 81 del 2014, in base alla quale lo stesso allineamento ai limiti edittali di cui agli artt. 23 e 24 c.p. costituirebbe una scelta non "a rime obbligate", risultando, del resto, evidente il rischio che, per tale via, possa trovare affermazione «un principio inaccettabile: e, cioè, che tutte le volte in cui si riscontri che due reati di diversa gravità sostanziale sono puniti con pene eguali la pena minima del reato meno grave dovrebbe essere ridotta (nel caso di delitto punibile con pene congiunte) a quindici giorni di reclusione e ad euro cinquanta di multa».
[16] Cfr., in particolare, le argomentazioni a sostegno dell'istanza di parte intesa a sollecitare l'adozione di un provvedimento di remissione alla Corte costituzionale, non accolta dalla già citata ordinanza del Tribunale di Trento, 24 settembre 2014 (http://droghe.aduc.it/).
[17] Ferma restando l'esigenza, espressa nel Considerando n. 5) della Decisione quadro, di una modulazione delle cornici di pena in ragione della natura degli stupefacenti, meriterebbe soffermarsi sulla formulazione disgiuntiva di cui all'art. 4, co. 2, lett. b) della stessa Decisione quadro, che prevede una pena detentiva della durata massima compresa tra almeno 5 e 10 anni per i casi in cui « il reato o implica la fornitura degli stupefacenti più dannosi per la salute, oppure ha determinato gravi danni alla salute di più persone» (corsivo nostro).
[18] Sul tema del controllo di costituzionalità rispetto ad obblighi di tutela penale di matrice eurounitaria, formulando l'ipotesi di una futuribile "giustiziabilità" degli stessi nei casi di c.d. "inadempimento statale sopravvenuto", cfr. V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, 112 ss., 119 ss.; si ritorna sull'argomento, prendendo spunto da un importante obiter dictum della sentenza n. 32 del 2014, in V. Manes-L. Romano, L'illegittimità costituzionale della legge c.d. "Fini-Giovanardi": gli orizzonti attuali della democrazia penale, in questa Rivista, 23 marzo 2014, 10 ss.
[19] Per tale tipo di decisioni si rinvia a A. Bonomi, Quando la Corte può decidere ma decide di "non decidere": le decisioni di "inammissibilità per eccesso di fondatezza", le decisioni interpretative di inammissibilità per omessa interpretazione "conforme a" e alcune decisioni di restituzione degli atti per ius superveniens, in www.forumcostituzionale.it, 2 ss.