16 settembre 2014 |
'Svuota-carceri' e liberazione anticipata speciale: decreto legge non convertito e successione di leggi penali nel tempo.
Trib. sorveglianza Torino, ord. 17 giugno 2014, Pres. ed est. Vignera, Ric. C.
A pochi giorni di distanza dall'intervento su questa Rivista del Prof. Giostra (clicca qui per accedere al contributo) torniamo sul tema, attualmente assai controverso nella prassi, della concedibilità della liberazione anticipata speciale ai condannati per i delitti di cui all'art. 4 bis o.p., nel caso di richiesta avanzata durante la vigenza dell'art. 4 d.l. n. 146/2013, poi non convertito in legge. Di seguito pubblichiamo, sul punto, un'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Torino, con un commento di F. Cecchini.
1. Con l'ordinanza in commento, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha ribadito quanto affermato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 51 del 1985[1], riguardo la inidoneità del decreto legge non convertito ad inserirsi in un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo. Il Giudice delle Leggi, come ampiamente noto, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'ultimo comma dell'art. 2 c. p., nella parte in cui rende applicabile la disciplina dettata dagli attuali commi secondo e quarto del medesimo articolo (retroattività della abolitio criminis e della lex mitior), al caso di decreto legge recante una norma penale favorevole e non convertito in legge, ovvero convertito con emendamenti i quali implichino mancata conversione in parte qua. Ciò per contrarietà con l'art. 77, terzo comma Cost. che, a differenza della disciplina antecedente la Carta costituzionale, incentrata sulla perdita di efficacia ex nunc del decreto legge non convertito, sancisce inequivocabilmente la perdita di efficacia ex tunc in caso di mancata conversione del decreto. Di qui l'impossibilità di applicare retroattivamente la norma penale più mite contenuta nel decreto legge non convertito ai fatti cosiddetti 'pregressi', ossia commessi antecedentemente l'entrata in vigore del decreto stesso. Ferma restando, al contrario, la necessità di applicare la norma più mite ai fatti cosiddetti 'concomitanti', ossia commessi sotto la vigenza del decreto, stante la prevalenza, sul disposto dell'art. 77, terzo comma Cost., del superiore ed irrinunciabile principio di irretroattività della legge penale più severa, sancito dall'art. 25, secondo comma Cost.[2]
L'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino riporta ampi passi della decisione della Consulta, per escludere l'applicazione della norma sopravvenuta più favorevole (art. 4, primo comma del d. l. n. 146 del 2013), venuta meno a seguito della conversione del decreto con emendamenti, importanti proprio mancata conversione in parte qua. Pur nell'esattezza dell'esito cui la pronuncia perviene, sembrerebbe opportuna una più esplicita precisazione del principio in essa affermato. Per meglio comprendere il punto, è utile ripercorrere brevemente la vicenda su cui l'ordinanza, pronunciata in sede di reclamo avverso un provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Cuneo, è intervenuta.
2. Il decreto cosiddetto "svuota-carceri" n. 146 del 2013, all'art. 4, primo comma, ha previsto, per un periodo di due anni dall'entrata in vigore del decreto medesimo, un aumento, da 45 a 75 giorni per ogni semestre di pena scontata, della detrazione di pena concessa con la liberazione anticipata di cui all'art. 54 l. n. 354 del 1975. Si tratta dunque di una norma indubbiamente più favorevole della previgente disciplina, applicabile senza alcuna distinzione. Distinzione introdotta invece in sede di conversione (l. n. 10 del 2014): al primo comma dell'art. 4 sono state infatti premesse le parole: «Ad esclusione dei condannati per taluno dei delitti previsti dall'art. 4 bis[3] della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni». La legge di conversione, quindi, prevede che ai condannati per taluni delitti (fra i quali quelli di cui agli artt. 609 bis e 609 ter c. p., interessanti il caso di specie), non si applichi la nuova detrazione di pena di 75 giorni. Il reclamante, condannato per i suddetti delitti in primo grado nel dicembre 2011, con sentenza poi divenuta definitiva nel gennaio 2014 (dunque per un fatto "pregresso" al decreto n. 146), aveva presentato istanza di detrazione di pena a titolo di liberazione anticipata in pendenza della disciplina prevista dall'originario art. 4 del d. l. n. 146. Con provvedimento dell'aprile 2014, intervenuta la legge di conversione, il Magistrato di sorveglianza accoglieva l'istanza, concedendo tuttavia una detrazione di 45 giorni per semestre, anziché 75 giorni. Di qui il reclamo fondato, tra l'altro, sulla pretesa violazione dell'art. 25, secondo comma Cost., conseguente all'applicazione della sopravvenuta e più sfavorevole disciplina introdotta dalla legge di conversione, in luogo della più favorevole disciplina originariamente introdotta dal decreto legge.
Nel rigettare il reclamo, il Tribunale di sorveglianza afferma che: le disposizioni dell'originario art. 4 del d. l. n. 146 non potevano trovare applicazione alla data della pronuncia del provvedimento impugnato, essendo in quel momento in vigore il testo del decreto risultante dalle modifiche introdotte in sede di conversione; soprattutto, non può invocarsi l'art. 25 Cost., «perché codesta disposizione va posta in connessione con il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo, mentre "la norma contenuta in un 'decreto legge non convertito' non ha attitudine, alla stregua del terzo ed ultimo comma dell'art. 77 Cost. ad inserirsi in un fenomeno 'successorio'" (Corte cost., sentenza 22 febbraio 1985, n. 51)».
3. È proprio quest'ultimo, succinto passaggio che potrebbe sollevare alcune perplessità. Probabilmente motivato dalla necessità di ribadire brevemente un principio che si ritiene, giustamente, ormai pacifico - tanto che non manca di stupire il tentativo della difesa di rimettere in discussione un approdo giurisprudenziale che si accinge a compiere trent'anni, privi di smentite - esso potrebbe tuttavia, nella sua apparente onnicomprensività, dar adito ad equivoci.
Sembra cioè di potersi riproporre, nei confronti dell'ordinanza del giudice torinese, la medesima critica già mossa alla sentenza n. 51 del 1985 della Consulta. A fronte della chiara ed incontrovertibile esigenza di tenere distinti i fatti "pregressi" dai fatti "concomitanti", «stup(ì) un poco» il fatto che il dispositivo della sentenza fosse steso in termini generici ed onnicomprensivi; solo nella motivazione, all'opposto, si tracciava opportunamente quella distinzione[4].
Allo stesso modo, l'affermazione contenuta nell'ordinanza de qua, secondo la quale, nell'ipotesi di decreto legge non convertito o convertito con emendamenti, che importino mancata conversione parziale, non potrebbe invocarsi l'art. 25, secondo comma Cost., essendo quest'ultima disposizione relativa ad un fenomeno di successione di leggi nel tempo, fenomeno escluso ex art. 77, terzo comma Cost., sembrerebbe potersi prestare ad indebite generalizzazioni. Certo, il fatto che le conclusioni del giudice siano precedute dalla riproduzione dei passaggi della pronuncia costituzionale, nei quali le necessarie ed irrinunciabili distinzioni sono opportunamente tracciate, attenua di molto quel rischio. Vero è poi che anche il caso oggetto dell'ordinanza, come quello su cui si è pronunciata la Corte costituzionale, riguarda un fatto "pregresso", limitatamente al quale la suddetta affermazione del giudice torinese non pone problemi. Alcune precisazioni, tuttavia, non paiono del tutto inopportune.
Se si ritiene che l'art. 25, secondo comma Cost. non possa venire in considerazione perché si riferisce ad una vicenda di successione di leggi nel tempo, esclusa nella fattispecie, il rischio è di pervenire alla rinuncia della garanzia offerta dalla norma stessa anche in casi nei quali, al contrario, una tale rinuncia sarebbe del tutto inammissibile. Che la mancata conversione del decreto legge dia luogo ad un fenomeno che nulla ha a che vedere con la successione di leggi penali, è affermazione tanto vera da valere indipendentemente dal contenuto del decreto legge, e dal tempus commissi delicti. Mentre se il decreto reca norma penale più mite, si impone la distinzione fra fatti "pregressi" e fatti "concomitanti".
4. Come la Corte costituzionale ha avuto modo di precisare in relazione alla vicenda, analoga a quella del decreto legge recante lex mitior non convertito, della dichiarazione di incostituzionalità delle cosiddette norme penali di favore[5], quando si tratti di fatti "concomitanti" al decreto legge non convertito, ovvero alla norma di favore dichiarata costituzionalmente illegittima, viene in rilievo il principio di irretroattività della lex gravior di cui all'art. 25, secondo comma Cost. Principio il quale prevale, necessariamente ed irrinunciabilmente, sulla regola di cui all'art. 77, terzo comma, ovvero 136 Cost. Se sotto un profilo strettamente formale, venuta meno con effetto ex tunc la norma contenuta nel decreto decaduto, ovvero dichiarata illegittima, con conseguente ritorno in vigore della disciplina precedente, ugualmente ex tunc, quest'ultima può dirsi legge vigente al momento del fatto "concomitante" al decreto legge o alla norma incostituzionale; sotto un profilo sostanziale, qualora il decreto o la legge illegittima siano più favorevoli, applicare la normativa più severa a quel fatto significherebbe applicare retroattivamente la lex peior, con inammissibile rinuncia ad ogni garanzia per il singolo. Di qui il necessario coordinamento fra l'art. 25 da un lato, e gli artt. 77 e 136 dall'altro, con prevalenza del primo[6].
La rilevanza dell'art. 25, secondo comma Cost., non può dunque escludersi tout court, sempre ed in ogni caso di decreto non convertito o convertito con emendamenti implicanti mancata conversione parziale. Qualora nel caso di specie il soggetto autore del reclamo fosse stato condannato per un fatto commesso vigente il decreto nella sua formulazione originaria, proprio in base a quella norma costituzionale gli si sarebbe dovuta applicare la disciplina più favorevole introdotta dal decreto.
Pare inoltre opportuno precisare che, qualora la legge di conversione avesse introdotto una disciplina più severa non solo di quella prevista dal decreto, ma anche di quella vigente al momento del fatto - ipotizzando, s'intende, che si tratti di fatto "pregresso", come nel caso di specie - di nuovo l'art. 25, secondo comma Cost. avrebbe impedito di applicare la normativa dettata dal Parlamento in sede di conversione.
Che si tratti di questione quanto mai attuale, è testimoniato dal sempre più frequente ricorso in materia penale alla decretazione d'urgenza: ricorso che, lungi dal rimanere confinato entro i limiti di un intervento eccezionale, tende ad assumere sempre più i caratteri di uno strumento "ordinario", come dimostrano i recenti casi del decreto contro la violenza di genere (d. l. n. 93 del 2013) e del decreto adottato per fronteggiare la situazione ambientale e sanitaria nella ormai, tristemente, nota "Terra dei fuochi" (d. l. n. 136 del 2013, che ha introdotto il nuovo reato di "illecita combustione di rifiuti"). Poiché è tutt'altro che infrequente il mutamento della normativa nel corso dell'iter parlamentare di conversione dei decreti legge, in una materia così delicata quale quella penale, pare opportuno ribadire, in modo più esplicito, la necessità di tenere ferma la distinzione fra fatti "pregressi" e fatti "concomitanti", e per questi ultimi la garanzia del divieto di retroattività in peius, andando oltre la affermazione, esatta nel caso di specie, ma suscettibile di fraintendimenti, dell'esclusione della rilevanza dell'art. 25, secondo comma Cost., perché relativo ad una vicenda di successione di leggi penali nel tempo, vicenda che manca nel caso del decreto non convertito.
[1] Corte cost. 22 febbraio 1985, n. 51, in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, pp. 819 e ss., con nota di T. Padovani, Decreto-legge non convertito e norme penali di favore, in bilico tra opposte esigenze costituzionali.
[2] La pronuncia n. 51 del 1985 limita la declaratoria di incostituzionalità alla sola ipotesi riguardante i fatti "pregressi", in ragione del contenuto delle ordinanze di rimessione. Dalla motivazione emerge tuttavia l'esigenza del differente trattamento da riservare ai fatti "concomitanti", rispetto ai quali soli viene appunto in considerazione il principio di irretroattività in peius, «superiore principio di civiltà» che «identificandosi o collegandosi con quello della tendenziale libertà della persona dalla riprovazione e dalla repressione penali [...] appresta alla persona stessa una garanzia di copertura dalle (mediante l'attribuzione ad essa di una posizione di indifferenza alle) vicende di inasprimento della legislazione penale considerate nei loro effetti generali» (così Corte cost. 22 febbraio 1985, cit., p. 833). Cfr. al riguardo G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2001, p. 88.
[3] Sulla possibilità per i condannati per i delitti di cui all'art. 4 bis di accedere alla liberazione anticipata, cfr. Corte cost. 7 agosto 1993, n. 306, in Giur. cost., 1993, pp. 2461 e ss.
[4] Cfr. T. Padovani, Decreto-legge non convertito, cit., p. 823: «Dichiarando "l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 comma 5º, c. p. nella parte in cui rende applicabile alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nei commi 2º e 3º dello stesso art. 2 c. p.", si ricorre in effetti ad una formula che non consente di distinguere e di discriminare in alcun modo tra fatti pregressi e fatti concomitanti al decreto. I commi 2º e 3º dell'art. 2 [...] sono suscettibili di applicarsi sia all'uno che all'altro gruppo di situazioni [...]. Leggendo il solo dispositivo della sentenza non si potrebbe non ritenere che l'una e l'altra delle due eventualità siano state giudicate incostituzionali, e che, in definitiva, la legge sfavorevole ristabilita ex tunc, si applichi indifferentemente sia ai fatti pregressi che a quelli concomitanti al decreto. Solo la motivazione [...] consente di tenere ben distinte le due ipotesi, e di considerare risolto solo il primo corno del dilemma; ma ad evitare equivoci in una materia tanto delicata, non sarebbe stato forse inopportuno che il dispositivo si uniformasse letteralmente alla motivazione, circoscrivendo l'illegittimità dell'art. 2, ult. comma c. p. alla parte in cui esso rende applicabile il decreto-legge non convertito ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore: un modo semplice e chiaro di dire esattamente quel che la Corte ha inteso dire».
[5] Cfr. Corte cost. 23 novembre 2006, n. 394, in Giur. cost., 2006, pp. 4127 e ss. L'analogia tra le due ipotesi deriva dal fatto che, tanto nell'una quanto nell'altra, verificandosi una perdita di efficacia ex tunc, non può ravvisarsi successione di leggi penali nel tempo, con conseguente inapplicabilità della relativa disciplina. Sull'argomento, cfr. ex multis G. Marinucci, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non abbastanza) le "zone franche", in Giur. cost., 2006, pp. 4160 e ss.; M. Gambardella, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cass. pen., 2007, pp. 467 e ss.
[6] Come ampiamente ed efficacemente dimostrato da M. Gallo, La "disapplicazione" per invalidità costituzionale della legge penale incriminatrice, in Studi in onore di Emilio Crosa, II, Milano, Giuffrè, 1960, pp. 913 e ss.; Id., Appunti di diritto penale, I, La legge penale, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 150 e ss. Per i fatti "pregressi", invece, non viene in rilievo il principio di irretroattività sfavorevole, bensì il principio di retroattività favorevole: il problema, cioè, della possibilità di dare o meno applicazione retroattiva alla norma più mite contenuta nel decreto decaduto ovvero dichiarata incostituzionale. Questione cui la Corte costituzionale dà risposta negativa.