Sommario: 1. L’(ab)uso della custodia cautelare in carcere: una forma “mascherata” di anticipazione della pena. - 2. Il binomio “legalità-tassatività” nella disciplina delle misure personali. - 3. Verso un modello “sostenibile”: suggestioni comparatistiche e prospettive di riforma.
1. L’(ab)uso della custodia cautelare in carcere: una forma “mascherata” di anticipazione della pena.
L'invito a partecipare a questo convegno ha suscitato, fin dall'inizio, sentimenti contrastanti: al privilegio ed all'emozione di poter svolgere un intervento in occasione del cinquantenario della Camera Penale di Roma si è contrapposto il parziale scetticismo che nutro nei confronti di quello che potrebbe definirsi un “approccio piattamente normativistico”. Appare dubbio, infatti, che una modifica legislativa pura e semplice possa rivelarsi rimedio salvifico per risolvere gli attuali problemi del sistema penale italiano: primo fra tutti, quello del sovraffollamento delle carceri.
Mi spiego meglio. La Camera Penale di Roma ha richiesto alla Cattedra di Diritto Processuale Penale dell’Università “Roma Tre” di confezionare una proposta di parziale modifica della disciplina contenuta nel codice di rito in punto di misure cautelari personali.
L’obiettivo, senz’altro ambizioso, è duplice: da una parte, scongiurare quelle “prassi devianti” inclini ad un (ab)uso dello strumento della custodia cautelare in carcere; dall’altra parte, contenere la drammatica, quanto ormai conclamata, situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, anche “rinforzando”, sul piano della capacità dimostrativa, le esigenze cautelari che ne presuppongono l’applicazione.
Se si pone attenzione ai dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e, segnatamente, dall’Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo, in quasi tutti gli istituti di pena presenti in Italia si registra un numero di detenuti superiore alla capienza prevista: complessivamente, su 43.000 posti disponibili, i detenuti sono, infatti, 67.501
[1].
Il dato più allarmante – anche nella prospettiva che più interessa in questa sede – è, però, un altro: 29.607 di questi detenuti sono in attesa di una condanna definitiva e 14.784 attendono, addirittura, la conclusione del primo grado di giudizio.
Il che sembra confermare lo stretto legame tra il problema del congestionamento degli istituti di detenzione e l’uso della custodia cautelare in carcere come forma “mascherata” di anticipazione della pena.
Si assiste, in altri termini, ad un’inversione della logica impressa dal sistema complessivo, che, in omaggio alla presunzione di innocenza dell’imputato fino alla condanna definitiva, sancita dall’art. 27 comma 2 Cost., assegna alla privazione anticipata della libertà personale il ruolo di
extrema ratio, così come impone l’art. 13 Cost.
[2].
Inutile nascondere la complessità e la delicatezza della materia in questione, dovendosi fare i conti con canoni indiscussi del nostro ordinamento: da un lato, appunto, la presunzione di non colpevolezza, la quale impone che le misure cautelari non possano avere la funzione di anticipare la pena, né quella di costringere l'imputato a dichiararsi colpevole
[3]; dall'altro, l'inviolabilità della libertà personale.
Quest'ultima, però, dovrebbe essere considerata la regola e la custodia cautelare l'eccezione; come, in effetti, è ben stato messo in evidenza di recente anche dalla Corte costituzionale, la quale ha avuto modo di affermare che «l'antinomia tra tale presunzione [di non colpevolezza] e l'espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione
ante iudicium (art. 13, quinto comma) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda»
[4]. La Corte chiarisce la portata dell’assunto: «affinché le restrizioni della libertà personale dell'indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti di misure - nella loro specie più gravi - ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo». Sicché, «l'applicazione delle misure cautelari non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere - direttamente o indirettamente - a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto "vuoto dei fini")»
[5].
Insomma, la compressione della libertà personale dell'indagato o dell'imputato va contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto. Ciò perché l'unica forma di limitazione di libertà concessa e compatibile con la Costituzione – soprattutto ove si tratti di quella più intensa della custodia cautelare in carcere – è quella funzionale al procedimento penale, cui il trattamento cautelare è servente; soprattutto laddove si ricorra alla modalità di restrizione più intensa, “in nome” di esigenze processuali che non possono essere soddisfatte tramite misure di minore incisività.
In quest’ottica, la comminatoria di una pena prima della condanna definitiva è finalizzata, più esattamente, a garantire il processo e la prova; nel senso che la restrizione della libertà personale, ed il relativo trattamento penitenziario, devono “puntare” esclusivamente ad evitare l'inquinamento probatorio oppure il pericolo di fuga o, infine, la commissione di eventuali altri reati della stessa specie.
Non può nemmeno trascurarsi come i princìpi fin qui ricordati siano stati ribaditi, con la massima incisività, anche dalla giurisprudenza comunitaria.
Basti pensare, a tacer d’altro, a due fondamentali decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, stando alle quali – nel pieno rispetto di quanto sancito nell'art. 5, par. 3, della Convenzione – la carcerazione preventiva deve risultare la “soluzione estrema”, che si giustifica solamente allorché tutte le altre opzioni disponibili risultino insufficienti
[6].
Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, una violazione da parte dell’Italia della CEDU accertata dalla Corte Europea, lungi ormai dal rimanere una mera affermazione “di principio”, implicherebbe, al contrario, una restituito in integrum della garanzia violata all’interno del sistema interno. Come, del resto, ha avuto modo di precisare la stessa Corte di Cassazione nel noto “caso Drassich”, affermando perentoriamente: «non è più oramai da revocare in dubbio che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la “forza vincolante” delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell'uomo»[7].
2. Il binomio “legalità-tassatività” nella disciplina delle misure personali.
Secondo i dati positivi ricavabili dal codice di rito, il riscontro della sussistenza di (almeno) una delle esigenza cautelari personali va ricercato in un puntuale impegno dimostrativo da parte del giudice procedente nella stesura della relativa ordinanza; in omaggio al principio di legalità, nella specie sotto forma di tassatività, consacrato nella Costituzione e all’interno di specifiche norme processuali.
Sotto quest’ultimo profilo, del massimo rilievo è la struttura
analitica della motivazione dell’ordinanza cautelare delineata dall’art. 292 c.p.p., che detta all’estensore vincoli dettagliati a cui attenersi nella stesura del provvedimento, altrimenti incontrando censure di nullità
[8].
In particolare, l’art. 292 comma 1 lett. c) c.p.p. impone al giudice, nella redazione della motivazione, «l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari […]» e, prosegue la lett. c) bis del medesimo articolo, «l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenza di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure».
Eppure, del tutto diversa si presenta la realtà esibita da alcuni indirizzi meno attenti al concreto rispetto dei canoni in materia da parte della giurisprudenza, dove la motivazione utilizzata per giustificare in concreto la sussistenza delle esigenza cautelari tende a ridursi nell’enunciazione di mere “clausole di stile”.
Si tratta di un “certo modo” di confezionare la motivazione dei provvedimenti cautelari che assume contorni ancora più netti, riprodotti in affermazioni assai recise, nel momento in cui il discorso giustificativo coinvolge l’esigenza di cui alla lett. c) dell’art. 274. Qui la motivazione subisce un brusco arresto nel suo sviluppo argomentativo, esaurendosi, non di rado, nell’enunciazione pura e semplice dell’asserita “pericolosità sociale” del destinatario della misura; senza chiarire, però, le reali ragioni che militano nel senso di ritenere, nella singola situazione, concreto il pericolo di reiterazione di uno specifico reato [tra quelli indicati dalla lett. c) dell’art. 274 c.p.p.].
In alcuni casi, addirittura, l’esigenza cautelare in discorso viene ravvisata nel contegno processuale serbato dall'interessato
[9], oppure desunta dall’esistenza di altri procedimenti penali in corso, coincidendo quindi con l’esistenza di una soltanto potenziale recidiva
[10], o, ancora, da comportamenti dell'indagato risalenti nel tempo e, comunque, sguarniti di ogni profilo di attualità.
Al fondo di questa impostazione praticata da una parte della giurisprudenza si coglie una sovrapposizione e, pertanto, una pericolosa confusione tra diritto penale sostanziale e regole processuali; più esattamente fra esigenze di prevenzione e istanze garantistiche
[11].
Non a caso, da uno
screening della motivazione a corredo di alcuni provvedimenti cautelari si registrano frequenti richiami ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. per stabilire se sussista, o meno, l’esigenza cautelare di cui all'art. 274, comma 1, lett. c) c.p.p.
[12]. Cosicché, inevitabilmente, il giudizio sulla pericolosità è il frutto di un giudizio anche e soprattutto ancorato al fatto descritto nella fattispecie cautelare
[13] o, addirittura, ha ad oggetto non solo e non tanto le modalità del fatto
[14], quanto la condotta tenuta dall’indagato tra il reato ipotizzato e il momento di emissione del provvedimento, giudizi operati inevitabilmente alla stregua dell’art. 133 c.p .
[15].
L’operazione nasconde, a meglio vedere, il pericolo che la misura cautelare subisca una “metamorfosi”, assumendo le sembianze di una vera e propria “misura di sicurezza”
[16].
Per tale via emerge, con la massima chiarezza, un paradosso. Il giudizio cautelare finisce per ruotare attorno (anche) a una norma di diritto penale sostanziale, quale appunto l’art. 133 c.p. Tale disposizione, come noto, orienta il potere discrezionale del giudice di merito in sede di commisurazione della pena al momento della pronuncia della sentenza di condanna, ma finisce per fungere anche da parametro nella prognosi di pericolosità dell’imputato/indagato in ambito cautelare.
Il che conferma, in una certa misura, il postulato di partenza del nostro ragionamento; vale a dire, la percezione avvertita secondo cui, in sede cautelare-preventiva, si realizzino talvolta accertamenti che dovrebbero radicarsi quantomeno all’esito del giudizio di primo grado, nel pieno rispetto delle garanzie e dei diritti riconosciuti all'imputato.
Cosicché, sarebbe possibile far leva su una sorta di “elogio della contraddizione”, parafrasando le parole di chi, pur ad altro proposito, ricordava che “è esattamente quel luogo in cui le cose sono così e non sono così, in cui esistono mondi in cui crediamo profondamente pur sapendo che non esistono, non sono mai esistiti e mai esisteranno”
[17].
In effetti, la dottrina dei fondamenti della custodia cautelare deve muovere dalla presa d’atto che la materia soffre di un inevitabile anche se pericoloso ibridismo tra profili di diritto processuale e di diritto sostanziale. Anzi, è possibile affermare che essa delinea un percorso ad ostacoli, nel tentativo di affrancare e depurare la materia processuale dalle sue componenti di natura sostanziale e preventiva e di assumere connotati tipicamente e costituzionalmente orientati di natura meramente processuale. Seppur vero che l’unico fondamento della custodia cautelare davvero compatibile con la Costituzione e capace di far accettare il male di una limitazione della libertà prima della condanna appare l’esigenza di garantire il processo e la prova, ogni altra finalità dovrebbe ritenersi illegittima.
Ora, va detto che le vicende di simile dottrina processualistica della custodia cautelare testimoniano di un fallimento, giacché i nobili propositi si impantanano dinanzi alla realtà. Basti pensare a quel che accade nella prassi a proposito del pericolo di fuga, se si pensa al quotidiano uso di criteri aprioristici nell’applicazione dei criteri presuntivi in materia. E il rilievo si fa ancora più evidente se si osserva la sostanziale disapplicazione di una norma quale quella contenuta nell’art. 275 comma 2-bis c.p.p., in forza della quale la custodia cautelare sarebbe ingiustificata tutte le volte in cui appare prevedibile che il procedimento possa concludersi con la sospensione della pena.
Ma il discorso è destinato a valere ancora di più per quanto riguarda il pericolo di reiterazione dei reati di cui all’art. 274 lett. c) c.p.p. Tutte le volte in cui viene genericamente giustificata sulla base di tale esigenza, la custodia cautelare finisce per risolversi, sia per i reati più gravi ma altrettanto per quelli, per così dire, intermedi, in una pena di fatto anticipata per la recidiva. Si osservi: si tratta, pur sempre, di un supplemento di “pena” comminata anticipatamente per un reato non ancora accertato e nei confronti di qualcuno che non è stato condannato.
Ora, sono note le difficoltà incontrate nel trovare un adeguato fondamento dogmatico all’istituto della recidiva, tornato in voga in questi anni di inasprimento delle pene. A partire dall’esperienza statunitense ispirata alla logica del “
three strikes and you’re out”
[18] per arrivare ai vari provvedimenti che stigmatizzano e drammatizzano la posizione del recidivo in chiave sanzionatoria, magari immettendolo in un circuito orientato dalla finalità di neutralizzare la potenziale pericolosità del soggetto
[19].
Ma tali difficoltà nella ricerca di una base razionale riguardano da sempre l’istituto della recidiva
[20]. In altri termini, la correlativa sostanziale impossibilità di considerare “più grave” la vicenda penale solo in ragione della reiterazione del reato non è solo odierna. Già, sulla scorta di dottrina assai risalente, ci si premurava di precisare che l’inasprimento della pena dipendeva dal fatto che “la pena, inflitta per il primo reato, si era mostrata inadeguata nei confronti del condannato”
[21]. In quest’ottica, si provava a spiegare il tutto in questi termini: “col punire di più il recidivo non gli si rinfaccia di nuovo il delitto precedente, non si tiene a calcolo la malvagità dell’uomo; non si mortifica perché non siasi corretto. Nulla di tutto questo. La imputazione rimane l’istessa”
[22]. Ecco aperta l’unica strada: ritenere la recidiva incentrata su un giudizio di pericolosità formulabile in base alla ricaduta nel reato.
Cosicché, appare ancora più arduo giustificare questa sanzione per la ricaduta qualora essa venga anticipata in sede cautelare, senza cioè che alcuna prova della ricaduta stessa sia stata ancora definitivamente raggiunta. Nel che finisce per condensarsi il paradosso dell’art. 274 lett. c) c.p.p. E le perplessità che un uso di routine di tale ragione cautelare quale presupposto per la custodia, correlativamente, aumentano.
3. Verso un modello “sostenibile”: suggestioni comparatistiche e prospettive di riforma.
A questo punto, alcune, brevi, escursioni di diritto comparato sembrano opportune.
L'art. 144 del code de procédure pénale francese prevede espressamente, quale presupposto ai fini dell’applicazione della misura cautelare, la necessità di porre fine ad “un pericolo eccezionale persistente per l'ordine pubblico”, provocato dalla gravità dell'infrazione, dalla circostanza della sua commissione o dall'importanza del pregiudizio che essa ha causato.
Si tratta di una formula senz’altro poco felice, perché affetta da un margine non trascurabile di astrazione: formula, addirittura, forse eccepibile sul piano costituzionale per mancanza di tassatività della relativa previsione.
Si osserva, però, che in concreto “
les nécessités de l’ordre public ne peuvent servir à fonder une détention qu’en cas de crime ou délit grave consommé”
[23]. Il che, secondo la giurisprudenza, esige che il giudice debba apprezzare l’attualità del
trouble, vale a dire nel momento in cui il provvedimento cautelare viene assunto e non tanto al momento del fatto di reato
[24]. Di qui un controllo in sede di cassazione circa l’uso di formule di stile o di motivazioni in materia che si limitino a giustapporre una presunta ricognizione dei fatti alla fattispecie astratta contenuta nell’art. 144
cod. proc. pén, senza esplicitare la relazione tra i due termini del confronto
[25].
Nell'ordinamento tedesco, da un lato, i § 112 Abs. 3 e 112 Abs. 1 Nr. 1
StPO, prevedono una sorta di cattura tendenzialmente obbligatoria in relazione ai reati considerati più gravi, come l’omicidio o la violenza sessuale, mediante una sorta di presunzione in ordine al pericolo di fuga (
Fluchtgefahr) o di inquinamento probatorio (
Verdunkelungsgefahr). Dall’altro lato, in relazione ai titoli di reato elencati nel § 112°
StPO, si contempla una custodia cautelare giustificata dal pericolo che l’imputato, prima del passaggio in giudicato, commetta reati “dello stesso tipo” o prosegua nella condotta criminosa
[26]. In questi casi, il
Wiederholungsgefahr, vale a dire il pericolo di reiterazione dei reati, si affianca a pieno titolo agli altri
pericula libertatis fungendo anch’esso da presupposto e/o da ragione cautelare (
Haftgrund).
Va segnalato, comunque, che, sin dal 1973, il
Bundesverfassungsgericht ha sancito – a chiare lettere – la piena consonanza costituzionale di siffatte fattispecie cautelari
[27].
Il dibattito in materia cautelare ha coinvolto da tempo anche gli Stati Uniti.
A partire dal famoso
case United States v. Salerno del 1987
[28], era stata, infatti, sancita la legittimità costituzionale del
Bail Reform Act 1984 e, in tal modo, di una
preventive detention giustificata nel caso in cui il soggetto potesse essere pericoloso “
to other people in the community”
[29]. Si tratta di una compatibilità costituzionale che già con il caso
Bell v. Wolfish era stata affermata
[30]. Di talché, in quell’ordinamento si finisce per asserire che la presunzione d’innocenza è da ritenersi limitata alla fase del giudizio e finalizzata prevalentemente a controbilanciare i “preconcetti” dell’accusa, anziché rappresentare una vera e propria regola di trattamento idonea a precludere forme di detenzione preventiva prima della condanna
[31]. Di qui si è progressivamente giunti a forme di carcerazione preventiva coltivate anche in assenza del mero sospetto della commissione del reato, semplicemente per ragioni di pericolosità sociale
[32].
Non a caso, a tale proposito, la letteratura statunitense ha parlato, provocatoriamente, ma non troppo, di “
danger of dangerousness”
[33], ovvero “pericolo della pericolosità”. Se è vero che la spinta a forme di massiccia tutela cautelare
ante delictum ha indotto a considerare “normale” l’incarcerazione di circa due milioni di persone, con un incremento del 500% nel corso di tre decenni
[34].
Insomma, anche da una rapida panoramica di altri ordinamenti, siano essi di civil law ovvero di common law, emerge un quadro complessivo tutt’altro che rassicurante. Il che stenta a tradursi in una lezione foriera di proposte degne di un apprezzabile grado di operatività in prospettiva de iure condendo.
In realtà, l’antidoto al radicarsi di motivazioni inappaganti in punto di esigenze cautelari personali sarebbe già “nelle cose” del nostro ordinamento giuridico.
Nulla è rintracciabile, infatti, nelle specifiche norme processuali o nel sistema complessivo che autorizzi a “deviare” in una materia così delicata dai princìpi generali che governano la struttura della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, autorizzando motivazioni carenti o, peggio, “apparenti”
[35].
Anzi, guardando alle specifiche norme processuali, prime fra tutte quelle contenute negli artt. 272 ss. c.p.p., se correttamente interpretate, l’elevata capacità dimostrativa dei presupposti applicativi previsti esprime chiaramente la volontà del legislatore di riservare allo strumento “invasivo” cautelare un carattere residuale, ovvero, come pure stereotipatamente spesso si ribadisce, di extrema ratio.
Del resto, soltanto qualora l’ordinanza cautelare abbia effettivamente rispettato il canone della specificità della motivazione su ciascun elemento costitutivo della fattispecie cautelare, le parti potranno operare un controllo pieno e consapevole sulla ragioni che giustificano l’adozione della misura; sottoponendole eventualmente a successiva verifica, mediante i rimedi offerti in sede d’impugnazione dall’ordinamento.
Rispetto alle “prassi devianti” ricordate, rassicura, almeno in parte, l’emersione di alcune, avvertite, applicazioni della giurisprudenza di legittimità, che censurano le motivazioni “apparenti” dei provvedimenti cautelari.
In questo senso, ad esempio, la Corte di Cassazione ha perentoriamente affermato «la nullità per
mancanza assoluta di motivazione dell’ordinanza applicativa di misura cautelare che
si limiti all’enunciazione di mere formule di stile, senza alcun riferimento, sotto il profilo della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, alle deduzioni difensive,
né all’attualità ed alla concretezza delle esigenze cautelari»
[36].
In ogni caso, per tentare di superare l’attuale impasse interpretativa la “strada maestra” è quella di un intervento del legislatore, improcrastinabile se davvero si vogliono risolvere alcuni problemi di fondo della materia cautelare.
In questa prospettiva de lege ferenda, si propone di procedere lungo due linee direttrici.
La prima. Sembra opportuno, anzitutto, introdurre il termine
attuale nel corpo dell’art. 274, comma 1, lett. c) c.p.p., in modo che la formula normativa diventi «
concreto ed attuale pericolo che questo commetta...»
[37]. L’esplicita previsione dell’attualità all’interno della “base” del giudizio cautelare è destinata a rinforzare le componenti dimostrative della formula di cui all’art. 274 comma 1 lett. c) c.p.p., ormai smarrite nella
routine della quotidiana applicazione del diritto.
Naturalmente simile nuova regola di giudizio reclamerà un maggiore sforzo argomentativo nella stesura della motivazione dell’ordinanza cautelare da parte del giudice de libertate. Quest’ultimo, nel motivare in punto di attualità dell’esigenza cautelare, sarà senz’altro incoraggiato, ad esempio, nell’estromettere precedenti dell'indagato, magari anche risalenti, ai fini della valutazione della sua pericolosità.
Complessivamente, con la nuova formulazione, il pericolo di reiterazione del reato dovrà essere valutato alla stregua di due parametri distinti e complementari: in primis, il canone della concretezza, che impedisce l’applicazione di misure restrittive della libertà personale in base ad una semplice valutazione di “generica propensione” a commettere reati; in secondo luogo,il criterio della attualità, secondo il quale le specifiche condotte dell’indagato sintomatiche di una personalità proclive al reato debbono essere recenti, così da ingenerare un effettivo ed immediato timore che il soggetto possa commettere nuovi delitti.
Per quel che concerne la seconda direttrice dell’intervento riformatore, si propone l'introduzione di un nuovo comma, il 3 bis, nell'art. 275 c.p.p. e, nel contempo, la soppressione del secondo periodo della lett. c), comma 1, art. 274 c.p.p.
Secondo il “nascituro” comma, ove l’esigenza cautelare riguardi esclusivamente il pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello per il quale si procede, la custodia cautelare in carcere potrà essere disposta soltanto nei confronti dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
Resterebbe fermo, invece, il limite oggettivo che circoscrive l’esigenza cautelare in questione soltanto per i delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. Mentre, la disciplina delle deroghe alla regola del carcere quale
extrema ratio individuate dall’articolo 275, comma 3, c.p.p. – e concernenti reati di grave allarme sociale [art. 51, commi 3
bis e 3
quater, c.p.p., artt. 575, 600
bis comma 1, 600
ter (escluso il quarto comma), 600
quinquies, 609
bis, 609
quater e 609
octies c.p.] – andrebbe senz’altro rivisita, alla luce della recente sentenza della Corte Costituzionale che ha avuto modo di censurarne i contenuti
[38].
Quanto al nuovo comma 3 bis dell’art. 275 c.p.p., l’interpolazione immaginata si propone di cementare nella più “afferrabile” dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza quella soglia minima di pericolosità sociale che giustifica l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Il che sembra fissare un ragionevole punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela della collettività e quella di apporre ragionevoli limiti al libero convincimento del giudice.
In ogni caso, occorre prevedere che la custodia cautelare in carcere sia sempre applicabile qualora il giudice non possa concedere gli arresti domiciliari per l’assenza di una abitazione o di altro luogo di privata dimora idonei all’esecuzione della misura.
Parimenti, la misura custodiale troverà applicazione ove ricorra uno dei divieti di applicazione degli arresti domiciliari di cui all’art. 284 comma 5-bis c.p.p.; nella specie, qualora l’imputato sia stato condannato per evasione nei cinque anni precedenti, ovvero coabiti con la persona offesa.
A voler tirare le fila del discorso, insomma, forse la proposta elaborata dalla Camera Penale di Roma non autorizza a considerare i suoi promotori affetti da ingenuo e rudimentale “normativismo”. Si confida, però, anche se con una punta d’orgoglio che ci si augura non sconfini in presunzione, che questa proposta si inserisca in quel solco illuminista che consentiva a Pietro Verri, nel 1770, di affermare: «sono già più anni a che il ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali mi portò ad esaminare la materia nei suoi autori, la crudeltà e assurdità dei quali sempre più mi confermò nell’opinione di riguardare come una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere
[39]».
[1] Cfr. Ministero della Giustizia – Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo del D.A.P.
[2] Sicché, in questa prospettiva patologica, la custodia cautelare in carcere può senz'altro definirsi quale «strumento dello strumento», P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, p. 21 s., finalizzato ad assicurare una «tutela mediata», G. De Luca, Lineamenti della tutela cautelare penale: la carcerazione preventiva, Padova, 1953, p. 7.
[3] Sul punto, per un recente approfondimento dei termini del problema, v. A. Giarda, La custodia cautelare in carcere e un regime penitenziario scadente, in Corriere mer., 2010, p. 1018; A. Nappi, Il regime delle misure cautelari personali a vent'anni dal codice di procedura penale, in Cass. pen., 2009, p. 4095 ss.
[4] V. Corte Cost., 21 luglio 2010, n. 265, in
Arch.
nuova proc.
pen. 2010, 5, p. 513.
[5] Così Corte Cost., 21 luglio 2010, n. 265, cit.
[6] Corte Europea dei diritti dell’uomo, sent. 2 luglio 2009, Vafiadis c. Grecia; sent. 8 novembre 2007, Lelièvre c. Belgio.
[7] Così, testualmente, Cass., Sez. VI, 12 novembre 2008, Drassich, in Cass. pen., 2009, p. 1457, con note di M. CAIANIELLO, La riapertura del processo ex art. 625-bis c.p.p. a seguito di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e di L. DE MATTEIS, Condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo e revoca del giudicato.
[8] Sulla struttura del provvedimento cautelare delineata dall’art. 292 c.p.p., v. Carcano, Funzioni di legittimità e sindacato sulla motivazione, in Cass. pen., 1992, pp. 3013 ss.
[9] Cfr. Cass., Sez. VI, 18 gennaio 2007, Piromalli, in Mass. Uff., 236377.
[10] Così, esemplificando, Cass., Sez. II, 3 febbraio 2005, Sciano, in Ced Cass., rv. 230912, stabilisce che «in tema di esigenze cautelari, la pericolosità sociale (art. 274, 1º comma, lett. c), c.p.p.) può essere desunta anche dalla pluralità di reati contestati col provvedimento coercitivo, valutati non singolarmente ma nella loro globalità in quanto espressione di reiterazione criminosa, giacché in tal modo si evita la disparità di trattamento tra un indagato già gravato da precedenti ed uno incensurato che ha commesso una pluralità di reati».
[11] In tal senso, con chiarezza, G. Petrachi, Alcune considerazioni sulla valenza da attribuire all'elemento oggettivo indicato dall'art. 274 lett. c) c.p.p. ai fini della configurabilità del periculum libertatis, in Cass. pen., 1998, 1694; D. Potetti, Aspetti rilevanti del «fattore tempo» nell'ambito delle misure cautelari personali, in
Cass.
pen., 1999, pp. 587 ss.
[12] In quest’ottica, ad esempio, Cass., Sez. IV, 3 luglio 2007, Cavallari, in Cass. pen., 2008, p. 3381; Cass., Sez. IV, 19 gennaio 2005, Miranda ed altri, in Ced Cass., rv. 231583; Cass., Sez. III, 29 marzo 2000, P.C., in Ced Cass., rv. 216304.
[13] V. Cass., Sez. VI, 17 febbraio 2005, Genna, in Cass. pen., 2006, p. 3289 e, già, Cass., Sez. VI, 21 novembre 2001, Russo, ivi, 2002, p. 3507.
[14] Cfr. Cass., Sez. VI, 17 febbraio 2005, Genna, cit.
[15] V. Cass., Sez. II, 26 maggio 1994, D’Iero, in Giust. pen., 1995, III, p. 440.
[16] Su tale metamorfosi, v., più ampiamente, V. Grevi, Misure cautelari e diritto di difesa, Milano, 1996, p. 831.
[17] Cfr. S. RUSHDIE, L’incoerenza e il paradosso, ecco il sale della vita, in La Repubblica, 5 luglio 2010, ancorché a proposito della narrativa.
[18] In ottica comparatistica del modello penitenziario e della correlativa esplosione carceraria, v. E. GRANDE, I
l terzo strike. La prigione in America, Palermo, 2007,
passim.
[19] Cfr. P. MARCHETTI,
L’armata del crimine. Teoria e repressione della recidiva in Italia. Una genealogia, Ancona, 2008, p. 12.
[20] In chiave storica, cfr. P. MARCHETTI,
L’armata del crimine, cit.,
passim. Nell’ottica del diritto positivo, E.M. AMBROSETTI,
Recidiva e recidivismo, Padova, 1997; F. DASSANO, R
ecidiva e potere discrezionale del giudice, rist. 1999, Torino; in precedenza, R. DELL’ANDRO,
La recidiva nella teoria e nella norma penale, Palermo, 1950; A.R. LATAGLIATA,
Contributo allo studio della recidiva, Napoli, 1958.
[21] Così, P. MARCHETTI,
L’armata del crimine, cit., p. 49.
[22] Cfr. F. CARRARA,
Stato della dottrina della recidiva, in
Opuscoli di diritto criminale, 2° ed., Lucca, vol. II, 133, cit. in P. MARCHETTI,
L’armata del crimine, cit., p. 49.
[23] Cfr. J. PRADEL,
Procédure pénale, 13e éd., Paris, 2006, p. 678.
[24] V. Crim., 6 mars 1986, 1ere espèce, B.C., n° 94.
[25] J. PRADEL,
Procédure pénale, cit., p. 684.
[26] Sono contemplate ipotesi di violenza sessuale, minaccia grave, lesioni, furto, rapina e reati contro il patrimonio mediante violenza, truffa, infedeltà patrimoniale o in materia di stupefacenti.
[27] Cfr. BverfGG vom 30. Mai 1973, 2 Bvl. 4/73.
[28] V. United States v. Salerno, 481 U.S. 739 (1987).
[29] In argomento, tra gli altri, M. EASON,
Eight Amendment: Pretrial Detention: What will Become of the Innocent?, 78
Journ. Crim. L. & Criminology, 1048 ss. (1988); J. HOWARD,
The Trial of Pretrial Dangerousness: Preventive Detention after United States v. Salerno, 75 Va L. Rev., pp. 639 ss. (1989); L. NATALI-E. OHLBAUM,
Redrafting the Due Process Model: the Preventive Detention Blueprint, 62 Temp. L. Rev., pp. 1225 ss. (1989).
[30] V. Bell. v. Wolfish, 441 U.S. 520 (1979).
[31] Cfr. Bell. v. Wolfish, cit.
[32] Per il dibattito in materia, cfr. C. SLOBOGIN
, Defending Preventive Detention, in
AA.VV., Criminal Law Conversations, P. Robinson-S. Garvey-K. Kessler Ferzan eds., Oxford-New York, 2009, 67 ss.;
ID.,
A Jurisprudence of Dangerousness, 98 Nw. Un. L. Rev., 1 (2003).
[33] Cfr. J. KENNEDY,
The Danger of Dangerousness as a Basis for Incarceration, in AA. VV., Criminal Law Conversations, cit., pp. 83 s.
[34] In questo senso, J. KENNEDY,
The Danger of Dangerousness as a Basis for Incarceration, cit., p. 83
.
[35] Al riguardo, le Sezioni Unite della Cassazione hanno avuto modo di censurare – a chiare lettere – la motivazione “apparente” dei provvedimenti giurisdizionali, equiparandola alla motivazione del tutto mancante. In questo senso, hanno sancito che «si ha mancanza della motivazione non solo quando l’apparato giustificativo manchi in senso fisico-testuale, ma anche quando la motivazione sia “apparente”, semplicemente ripetitiva della formula normativa, del tutto incongrua rispetto al provvedimento che dovrebbe giustificare», Cass., Sez. Un., 21 giugno 2000, Primavera e altri, in
Cass. pen., 2001, p. 69. Più in generale, l’equiparazione tra motivazione “apparente” e motivazione del tutto mancante è ben messa in evidenza anche da Cass., Sez. Un., 28 maggio 2003, Pellegrino, in
Cass. pen., 2003, p. 3002.
[36] Cass., Sez. II, 22 ottobre 2004, Nero ed altri, in
Cass. pen., 2006, p. 553, con nota di V. Spagnoletti,
Brevi riflessioni sulla c.d. motivazione «apparente» in tema di provvedimenti de libertate.
[37] Il requisito dell’attualità, in effetti, non risulta ancora valorizzato dalla giurisprudenza. Così, ad esempio, Cass., Sez. I, 22 settembre 2006, La Bianca, in
Guida dir., 2006, f. 47, p. 78, con riferimento alla esigenza cautelare di cui all’art. 274, comma1, lett. c), sancisce che «il parametro della concretezza non si identifica con quello della attualità del pericolo, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo al contrario, il predetto requisito essere riconosciuto alla sola condizione necessaria e sufficiente che esistano elementi concreti (cioè non solo meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che il soggetto inquisito possa facilmente, verificandosene l'occasione, commettere reati rientranti tra quelli contemplati dalla suddetta norma processuale». In senso conforme, ad esempio, Cass., Sez. VI, 23 aprile 2009, Falcone, in
Guida dir., 2009, f. 23, p. 82.
[38] Corte Cost., 21 luglio 2010, sent. n. 265, in
Giur. cost., 2010, p. 3169, la quale ha dichiarato la illegittimità «in riferimento agli art. 3, 13 comma 1 e 27 comma 2 cost., l'art. 275, comma 3 secondo e terzo periodo c.p.p., come modificato dall'art. 2 d.l. 23 febbraio 2009 n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), conv., con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009 n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli art. 600
bis comma 1, 609
bis e 609
quater c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
[39] P. Verri,
Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 [1804], Torino, 2003.