5 dicembre 2012 |
Il caso Sallusti: la discussa applicazione della legge 'svuota-carceri' al condannato che abbia già beneficiato della sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva
Riflessioni su Proc. Rep. Milano, decr. 26 novembre 2012, Sallusti
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La decisione del magistrato di sorveglianza di Milano, con la quale Antonio Sallusti è stato ammesso, su richiesta della Procura, all'esecuzione della pena detentiva presso il domicilio, ai sensi dell'art. 1 co. 3 l. 26 novembre 2010, n. 199 sta facendo discutere: l'impressione diffusa è che, per impedire l'ingresso in carcere di un condannato 'eccellente', sia stata adottata un'interpretazione normativa se non contra legem, quanto meno inusuale e inopportuna.
La vicenda è interessante, perché dà modo di sviluppare qualche riflessione su di una questione interpretativa di indubbio rilievo, che ha a che fare con le potenzialità espansive di una misura, quella appunto contenuta nella legge 'svuota-carceri' che, al di là della sua applicazione nel 'caso Sallusti', risulta quanto mai preziosa in una fase, come quella attuale, di drammatico sovraffollamento degli istituti penitenziari.
1. I termini della questione
La vicenda riguarda, come tutti sanno, il direttore di Libero, condannato, con sentenza definitiva, ad una pena di 14 mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 57 e 595 c.p.
A seguito del passaggio in giudicato della sentenza, la Procura, ai sensi dell'art. 656 co. 5 c.p.p., in data 16 ottobre 2012, aveva sospeso l'ordine di esecuzione della pena detentiva, notificando al condannato e al suo difensore l'avviso che, entro 30 giorni, avrebbero potuto presentare un'istanza per la concessione di una misura alternativa alla detenzione e che, qualora l'istanza non fosse stata tempestivamente presentata, l'esecuzione della pena avrebbe avuto corso.
Tuttavia, come anche pubblicamente dichiarato, il giornalista non ha ritenuto di avvalersi della facoltà concessagli ed ha pertanto lasciato decorrere il termine di 30 giorni, senza presentare alcuna istanza. A questo punto la Procura, anziché procedere, come ci si aspettava, all'esecuzione dell'ordine di carcerazione, in data 26 novembre 2012 ha nuovamente sospeso la pena detentiva, questa volta ai sensi dell'art. 1 co. 3 l. 26 novembre 2010, n. 199 (legge 'svuota-carceri').
Tale norma prevede l'obbligo del pubblico ministero di sospendere l'ordine di carcerazione quando, in assenza di determinate condizioni ostative, il condannato debba scontare una pena detentiva non superiore a diciotto mesi e prevede altresì l'obbligo di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza, affinché questi - accertata l'assenza del pericolo di fuga e di reiterazione dei reati - disponga, nel termine di cinque giorni, l'esecuzione della pena detentiva presso il domicilio del condannato.
Sospeso, dunque, l'ordine di esecuzione, la Procura ha quindi trasmesso gli atti al magistrato di sorveglianza che, aderendo alla richiesta del pubblico ministero, ha applicato al direttore del quotidiano la misura dell'esecuzione della pena detentiva presso il suo domicilio. Il seguito della vicenda, cioè il rifiuto del condannato di rimanere nel domicilio, e la conseguente imputazione per il delitto di evasione, è cronaca di questi giorni.
Ora, la questione di nostro interesse riguarda il problema del coordinamento tra la sospensione dell'ordine di esecuzione ex art. 656 co. 5 c.p.p. e la sospensione dell'ordine di esecuzione, disciplinata nell'art. 1 della legge 199/2010: l'interrogativo a cui occorre rispondere è se si tratti di due strumenti da utilizzarsi in via alternativa o se, invece, essi possano essere utilizzati 'cumulativamente', uno dopo l'altro, come è avvenuto nel caso di specie.
L' art. 1 co. 3 della l. 199/2010 sembrerebbe risolvere il problema, prevedendo che "...quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a diciotto mesi, il pubblico ministero, salvo che debba emettere il decreto di sospensione di cui al comma 5 del citato articolo 656 del codice di procedura penale e salvo che ricorrano i casi previsti nel comma 9, lettera a), del medesimo articolo, sospende l'esecuzione dell'ordine di carcerazione....".
Come è stato osservato, la norma prevede una "clausola di priorità"[1], che vale a rendere inoperante il meccanismo sospensivo della nuova legge, laddove il pubblico ministero possa sospendere la pena ex art. 656 co.5: la preferenza accordata a questa ultima disposizione è del tutto ragionevole, posto che essa consente al condannato l'accesso a misure più favorevoli rispetto all'esecuzione presso il domicilio, come l'affidamento in prova ai servizi sociali, che garantisce certamente maggiori spazi di libertà al condannato[2].
Ad una lettura più meditata, ci si rende conto però del fatto che la clausola di riserva contenuta nell'art. 1 co. 3 l. 199/2010 ("salvo che debba emettere il decreto di sospensione...") è ambigua. Essa infatti non chiarisce se la sospensione ex l. 199/2010 possa operare solo laddove vi siano delle condizioni ostative che precludano, in astratto, l'applicabilità dell'art. 656 co. 5 c.p.p., ovvero se essa possa operare anche 'invadendo' l'ambito applicativo dell'art. 656 co. 5, nei casi nei quali, pur essendo astrattamente applicabile la norma del codice di procedura, essa non possa, in concreto, operare.
E' chiaro che la prima delle due letture costringe la misura dell'esecuzione presso il domicilio prevista dalla 'svuota-carceri' in spazi molto ristretti, poiché la rende utilizzabile solo in presenza delle condizioni ostative all'operatività dell'art. 656 co. 5, ossia nei casi di cui all'art. 656 co. 9 lett.a (soggetti condannati per i reati di cui all'art. 4 bis o.p.); co. 9 lett. b (condannati che si trovano in carcere nel momento in cui la sentenza è divenuta definitiva); co. 9 lett. c (condannati ai quali è stata applicata la recidiva reiterata, di cui all'art. 99 co. 4 c.p.). Poiché però la stessa legge 199/2010 espressamente esclude l'operatività della sospensione per i condannati che si trovano nelle condizioni previste dall'art. 656 co. 9 lett. a e b (ciò è previsto, rispettivamente, nei co. 2 e 4 dell'art. 1 della legge), la misura resterebbe destinata ad operare solamente per i condannati di cui alla lett. c, ossia per i condannati a pene detentive non superiori a 18 mesi che, per essere plurirecidivi, sono esclusi dal meccanismo sospensivo ex art. 656 co. 5.
La seconda delle interpretazioni proposte consente, invece, di attribuire alla misura deflattiva prevista dalla svuota-carceri uno spazio applicativo più ampio, risultando applicabile a tutti i condannati a pene detentive non superiori a 18 mesi (esclusi sempre quelli di cui all'art. 656 co. 9 lett. a e b), per i quali il meccanismo ex art. 656 co. 5 c.p.p. sia stato già infruttuosamente esperito. Le ipotesi in questione, in cui risulta possibile utilizzare la sospensione ex art. 1 l. 199/2010 in aggiunta, e non solo in alternativa, all'altro meccanismo sospensivo sono quelle, non infrequenti nella prassi, in cui il termine dei 30 giorni sia 'scaduto' per negligenza o per un errore del condannato o del suo difensore, o, ancora, quelle in cui l'istanza risulti inammissibile, perché non è stata presentata nei termini la documentazione prescritta[3].
A questa interpretazione ha aderito, nel caso in esame, la Procura di Milano, che ha infatti sospeso per due volte l'esecuzione della pena detentiva nei confronti del condannato: una prima volta ex art. 656 co. 5 c.p.p. ed una seconda volta ex art. 1 co. 3 l. 199/2010.
Due precisazioni, prima di proseguire. La prima, che ci pare necessaria per consentire una valutazione più serena della vicenda, è che questa seconda interpretazione non è stata creata ad hoc, per consentire l'applicazione della 'svuota-carceri' al caso Sallusti: si consideri, infatti, che già i primi commentatori della nuova normativa avevano 'letto' in questa nuova forma di sospensione dell'ordine di esecuzione la volontà del legislatore di fornire al condannato una "chance ulteriore", rispetto al meccanismo previsto dall'art. 656 co. 5, "per il caso in cui fosse rimasto inattivo"[4]. Si consideri poi anche che questa è, da tempo, l'interpretazione della norma adottata da alcune Procure, diverse da quella milanese[5].
La seconda precisazione è che non esiste un dato normativo che vieti di utilizzare cumulativamente i due meccanismi sospensivi. E' vero che l'art. 656 c.p.p., nel co. 7, dispone che "la sospensione dell'esecuzione per la stessa condanna non può essere disposta più di una volta", ma tale divieto si riferisce soltanto alla sospensione ex art. 656 co. 5 e non preclude certo - questa del resto è la tesi della dottrina assolutamente maggioritaria - l'operatività di meccanismi sospensivi fondati su elementi diversi[6].
2. La doppia sospensione dell'ordine di esecuzione: qualche argomento a favore.
A prescindere, lo ribadiamo, dalla vicenda in esame, ci pare che l'interpretazione della norma fatta propria dalla Procura milanese sia quella preferibile.
Qualche dubbio nutriamo, ma sia detto per inciso, sulla plausibilità della prognosi operata dal magistrato di sorveglianza, circa l'insussistenza del pericolo di fuga e di reiterazione del reato, in considerazione dell'atteggiamento provocatorio mantenuto dal condannato, che ha pubblicamente dichiarato, in più occasioni, di volere scontare in carcere la pena detentiva.
Tornando però al problema che ci interessa, un primo argomento a sostegno della tesi che ritiene utilizzabile l'art. 1 l. 199/2010 in aggiunta, e non solo in alternativa, alla sospensione ex art. 656 co. 5 c.p.p. si ricava dalla diversità dei fini perseguiti dalle due norme. L'art. 656 co. 5 c.p.p., introdotto con la legge 27 maggio 1998, n. 165 (legge Simeone), è stato introdotto al fine di potenziare l'utilizzo delle misure alternative al carcere ab initio della vicenda esecutiva, evitando l'inutile, ed anzi dannosa, permanenza in carcere di condannati dotati dei requisiti per l'ammissione alle stesse misure. Ora, se il meccanismo sospensivo delineato nella norma è sostanzialmente automatico (il pubblico ministero, infatti, si limita ad accertare il quantum di pena e l'insussistenza delle condizione ostative di cui al co. 9 dell'art. 656 c.p.p.), l'attivazione del procedimento per l'applicazione di una misura alternativa è rimessa all'istanza di parte. E non potrebbe essere che così, posto che le misure alternative hanno a che fare con il percorso rieducativo del condannato ed implicano, necessariamente, una sua personale adesione.
Per contro, la misura dell'esecuzione della pena detentiva presso il domicilio non necessita di un'istanza di parte, potendo essere applicata d'ufficio. La differenza tra le due ipotesi si spiega considerando il diverso scopo di questa misura che è, unicamente, quello della deflazione carceraria (ce lo dice, in modo molto diretto, l'appellativo con la quale si indica la legge che la contiene, oggi nota, appunto, come 'svuota-carceri'). La misura prevista dalla l. 199/2010 mira cioè ad evitare l'ingresso in carcere di soggetti che, secondo la valutazione del legislatore, non presentino una particolare pericolosità: ciò in considerazione della modesta entità della pena; della non appartenenza del reato per cui c'è condanna alla categoria di quelli considerati di maggior allarme sociale; dello stato di libertà del soggetto prima del passaggio in giudicato della sentenza.
Ma sarebbe assurdo che la diversità della disciplina si traducesse, paradossalmente, in un trattamento più favorevole per i condannati meno meritevoli (supponendo che tali siano i soggetti cui sia stata applicata la recidiva reiterata): questi ultimi, infatti - ferma la successiva valutazione giudiziale circa l'assenza del pericolo di fuga o di reiterazione dei reati - possono godere di una forma extra-muraria di esecuzione della pena detentiva ex officio, a prescindere cioè dalla loro capacità di attivarsi o dalla solerzia del loro difensore. Il medesimo trattamento dovrà allora essere riservato ai condannati non recidivi, che non abbiano potuto beneficiare di una misura alternativa, perché - per qualsiasi ragione - hanno lasciato scadere il termine dei 30 giorni o perché hanno presentato una domanda per qualche aspetto inammissibile. Le esigenze deflattive che hanno portato il legislatore ad ammettere d'ufficio ai domiciliari i plurirecidivi condannati a pene non superiori ai 18 mesi dovranno insomma valere, a maggior ragione, per i condannati che potevano aspirare ad una misura alternativa, ma che non vi siano stati ammessi per ragioni diverse dal rigetto, nel merito, della loro istanza.
E' chiara, a questo punto, la ragione di fondo che ci convince a sostenere la tesi della 'doppia sospensione': ed è la situazione di disperato sovraffollamento che grava sulle nostre carceri, che fa della pena detentiva uno strumento brutale di negazione della dignità umana e che deve indurre a dare quanto più spazio possibile alle misure deflattive, che impediscono l'ingresso in carcere di soggetti per i quali il legislatore abbia operato una prognosi di non pericolosità.
3. Oltre il caso Sallusti.
La ragione delle critiche generate dalla decisione della Procura di applicare la svuota-carceri ad un soggetto che ha già beneficiato della sospensione ex art. 656 co. 5 c.p.p. sta evidentemente nel sospetto che a tale interpretazione la Procura sia pervenuta in occasione del caso Sallusti, al fine di garantire un trattamento di favore ad un condannato 'scomodo', in un caso mediaticamente esposto.
Ci sembra però che, della vicenda, possa darsi una lettura diversa: se infatti l'orientamento espresso ora dalla Procura milanese avrà carattere definitivo, la soluzione del 'caso Sallusti' potrà assumere una valenza positiva, non traducendosi nel privilegio di uno solo, ma nel primo caso di un trattamento più favorevole per tanti. Una più ampia applicazione della legge svuota-carceri comporta un minor numero di ingressi in carcere, e non è poco in un momento in cui l'obiettivo della deflazione carceraria si pone nel nostro ordinamento, per usare le parole del presidente Napolitano, con "prepotente urgenza".
[1] F. Della Casa, Art. 656 c.p.p., in V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario commentato, IV ed., 2011, Tomo II, p. 1056.
[2] F. Fiorentin, Scarcerazioni filtrate da un regime di preclusioni, in Guida dir. 2011, 1, p. 60.
[3] Non può invece farsi ricorso, così ci sembra, alla doppia sospensione, allorquando la mancata applicazione della misura alternativa sia dovuta al rigetto nel merito dell'istanza da parte del tribunale di sorveglianza. In questo caso, infatti, l'applicazione della l. 199/2010 si tradurrebbe in un 'bis in idem', comportando una nuova valutazione del magistrato di sorveglianza sulla 'meritevolezza' del condannato.
[4] In questi termini S. Turchetti, Legge 'svuota-carceri' e esecuzione della pena presso il domicilio: ancora una variazione sul tema della detenzione domiciliare?, in questa rivista. Nello stesso senso cfr. anche F. Fiorentin, Scarcerazioni filtrate da un regime di preclusioni, in Guida dir. 2011, n. 1, p. 61 secondo cui la legge 199/2010 amplia il meccanismo di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva, "estendendone l'ambito applicativo alle condanne già precedentemente sospese (superando il divieto di cui all'articolo 656 co. 7 c.p.p.); e a quelle concernenti condannati cui sia stata applicata la recidiva di cui all'articolo 99 co. 4 c.p.".
[5]Così, ad esempio, la Procura di Venezia e quella di Brescia.
[6] Cfr, F. Della Casa, cit., p. 1028.