ISSN 2039-1676


28 novembre 2012 |

La condanna per diffamazione nei confronti di Sallusti: un paio di spunti, oltre le polemiche

Ancora a proposito di Cass. pen., sez. V, 26 settembre 2012 (dep. 23 ottobre 2012), n. 41249, Pres. Grassi, Est. Bevere, imp. Sallusti

1. Premessa.

Proviamo a rileggere, a qualche giorno dal loro deposito, le motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a quattordici mesi di reclusione nei confronti di Alessandro Sallusti per diffamazione aggravata ex art. 13 legge stampa, per un articolo firmato da uno pseudonimo, ed ex art. 57 c.p., per aver omesso il controllo sulla pubblicazione del titolo di un altro articolo di cronaca pubblicato lo stesso giorno sul medesimo argomento.

Sarebbe certo molto faticoso e probabilmente poco interessante ripercorrere la lunga serie di inesattezze con cui la sentenza è stata presentata da molti organi di stampa che, con poche eccezioni, hanno sottolineato ora questo ora quell'aspetto, a volte distorcendone il significato, a volte veicolando vere e proprie circostanze non vere.

Diamo pure per assodato che i lettori di questa rivista siano, sul tema, tutti ipoteticamente iscrivibili nella società degli apoti di prezzoliniana memoria, cioè di coloro a cui non la si dà a bere, e proviamo a sottolineare alcuni aspetti della pronuncia di interesse per il giurista, al di là della emissione di un ordine di esecuzione di una pena detentiva per il direttore di uno dei più importanti quotidiani del Paese, per l'accusa di diffamazione.

Diamo pure "per letta" quindi la motivazione della sentenza e, di conseguenza, per conosciuto il fatto da cui essa trae origine. Si diceva che la lunga motivazione offre più di uno spunto anche perché l'autorevole relatore, non da oggi attento studioso della materia, l'ha scritta - la circostanza è di una certa evidenza - con la penna dello specialista. Il dotto magistrato, inoltre, in più di un passaggio sembra voler combinare la necessità di decidere sul caso con l'opportunità di offrire la proprio opinio su alcune questioni, forse non molto frequentate dalla giurisprudenza, ma centrali nella sistematica della diffamazione a mezzo stampa.

Anticipiamo, dunque, qui, in una sorta di sommario, due punti su cui per ragioni diverse non pare sbagliato attirare l'attenzione. In primo luogo le ragioni che hanno indotto la Corte a confermare la condanna per diffamazione in concorso del direttore, sia pure riconoscendo che egli non ne era l'autore e in secondo luogo i criteri indicati per l'attribuzione della responsabilità al direttore degli scritti anonimi o - il che è lo stesso - firmati da pseudonimi.

 

2. Il concorso nel reato di diffamazione del direttore.

La Cassazione conferma l'impostazione della Corte d'appello secondo cui al direttore va ascritto il delitto di diffamazione in concorso con l'autore dell'articolo e non quello di omesso controllo. La Suprema Corte si premura di precisare che già la sentenza di primo grado si era espressa nello stesso senso e che il ricorrente sul punto non aveva presentato un autonomo motivo d'appello, sicché la circostanza doveva ritenersi passata in giudicato. Tuttavia, forse per la rilevanza del tema e per consapevolezza della propria funzione nomofilattica, la Corte spende non poche parole per confermare la bontà dell'impianto della sentenza impugnata e, come ogni tanto accade, così facendo, disegna un quadro sintetico, preciso e ben argomentato delle regole in tema di attribuzione della responsabilità in materia.

Va anzitutto sottolineato che Sallusti non viene individuato come autore dell'articolo firmato con lo pseudonimo di Dreyfus. Al ricorrente viene rimproverato l'art. 595 c.p. aggravato dall'art. 13 legge stampa, in quanto concorrente nel reato, e ciò sulla base delle regole generali di cui all'art. 110 c.p., secondo cui «quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita», applicate alle peculiarità del caso concreto.

In altri termini, calando il principio generale nel "mondo" dei reati a mezzo stampa, il relatore precisa che, quando viene commesso un delitto doloso mediante la pubblicazione su un periodico, al direttore del medesimo l'illecito in questione può essere rimproverato in due forme. O per colpa, ex art. 57 c.p., qualora si possa ipotizzare che egli non abbia volontariamente contribuito alla realizzazione del medesimo; oppure direttamente, appunto per concorso, quando sussistano indici che, in ordine al fatto concreto, consentano di ritenere che, viceversa, egli abbia previsto e voluto la condotta o l'evento. Come è intuibile, tutto sta nella corretta individuazione di tali indici.

La Corte ricorda i contorni della figura del direttore e non sbaglia nel dipingerlo come il vero dominus et deus dei contenuti del periodico. Il direttore responsabile, infatti, per contratto oltre che per legge (professionale prima che penale), ha un potere pressoché assoluto su quanto viene pubblicato. Ne delimitano i confini e la latitudine, tanto per fare qualche esempio, il meccanismo di cui agli artt. 3 e 5 della legge stampa, che impone la presenza della figura apicale per la registrazione, senza la quale la pubblicazione integrerebbe il delitto di stampa clandestina (art. 16 della stessa legge); nonché il successivo art. 8 che affida a lui soltanto il potere di pubblicare la rettifica. Contribuisce anche l'art. 57 c.p.: l'introduzione di una responsabilità penale per omesso controllo implica un potere di veto alla pubblicazione di quanto non supera le maglie del controllo stesso. Ancora, la legge n. 633 del 1941 sul diritto d'autore stabilisce che il giornale è opera collettiva dell'ingegno di cui il direttore è autore e, ancor più precisamente, l'art. 6 del contratto nazionale di lavoro giornalistico, nell'enumerare i poteri della figura in questione, indica tra gli altri, oltre a quello di decidere insieme all'editore la linea editoriale, quello di «adottare le decisioni necessarie per garantire l'autonomia della testata, nei contenuti del giornale e di quanto può essere diffuso con il medesimo».

In sostanza, entrando nella concreta vita di redazione, va tenuto presente nel giudicare che spetta al direttore autorizzare o vietare la diffusione di un articolo e, se lo ritiene, "tagliarlo" o modificarlo (salva in questo caso la facoltà del giornalista di ritirare la firma).

Inoltre, prima di decidere sul caso specifico, l'estensore si sofferma su un indirizzo giurisprudenziale, del tutto condivisibile, secondo il quale per valutare la sussistenza, la portata e le varie responsabilità di una diffamazione a mezzo stampa, bisogna considerare l'intero contesto nel quale l'affermazione offensiva è stata diffusa. Dunque, non soltanto la frase in sé, bensì tutto l'articolo in cui essa è stata inserita, nonché la sua posizione nella pagina, e anzi tutta la pagina in questione, con il relativo corredo grafico di titolo, sottotitolo, fotografie e eventuali altri pezzi sull'argomento. Solo così, infatti, si può - come è preciso compito del giudice fare - apprezzare interamente il messaggio che riceve il lettore e con ciò valutarne gli effetti e attribuirne le conseguenze.

Prendendo le mosse da una parte dallo status del direttore e dall'altra dalla posizione giurisprudenziale di cui si è detto, la Cassazione compie un ragionamento convincente per individuare quali sono i parametri di cui si diceva all'inizio e che consentono di ascrivere la condotta illecita al direttore come fatto commissivo doloso suo proprio e non come omissione colposa.

Per fare ciò è indispensabile che sussistano indici precisi del «meditato consenso» e della «consapevole adesione» del direttore al contenuto dell'articolo. Si tratta di circostanze che possono emergere da una serie di elementi, già menzionati in parte, come «la forma, l'evidenza, la collocazione tipografica, i titoli, le illustrazioni, e la correlazione dello scritto con il contesto culturale che impegna e caratterizza il numero». Il verso di tali indicatori consente di accertare se il direttore può essere «chiamato a rispondere del reato di diffamazione [non] quale autore, coautore del testo, ma come collaboratore nell'articolata condotta tipica del reato di diffamazione a mezzo stampa, reato il cui evento si realizza per la pubblicazione di una notizia lesiva».

In altri termini, e applicando proprio i criteri di cui s'è appena detto, la Cassazione giunge ad attribuire al direttore la responsabilità per il reato di diffamazione, poiché il "pezzo" in questione riguardava un fatto di rilievo, caratterizzava il numero in questione per evidenza e importanza e infine costituiva un commento che delineava la posizione del giornale su una questione come l'interruzione della gravidanza che connotava ideologicamente il periodico.

Come anticipato, la Corte qui sembra fare buon governo delle regole in tema di concorso di persone nel reato, calandole nel corpore vili della vita di redazione. Va sottolineato che l'attribuzione di responsabilità per il delitto in questione non può che passare attraverso un'analisi severa e rigorosamente in concreto delle circostanze di fatto della singola pubblicazione, come quella contenuta nella motivazione in commento e non si può affidare, viceversa, a clausole di stile pigramente ripetute.

Cercando ora di fornire un contributo ulteriore, che arricchisca l'esemplificazione già offerta dalla Corte, si può dire che un'ipotesi di diretto coinvolgimento del direttore potrebbe aversi anche nel caso di articoli diffamatori contenuti in una campagna stampa insistita nei confronti (rectius contro) un determinato soggetto. La realizzazione di una molteplicità di "pezzi" tutti volti a criticare in un'unica direzione, può essere una circostanza rilevante per attribuire la responsabilità di un eventuale illecito al direttore, proprio perché è assai difficile che una serie di pubblicazioni, che occupano parte del periodico per più numeri, non venga decisa e pianificata con il consenso indispensabile del vertice.

Questa posizione secondo cui, a determinate condizioni, il delitto a mezzo stampa può essere attribuito al direttore secondo le regole del concorso di persone nel reato rende peraltro meno drammatica, in termini di violazione del principio di uguaglianza, la esclusione dell'applicazione dell'art. 57 c.p. al direttore del periodico telematico. In assenza di una responsabilità per omesso controllo, il vertice di un giornale on-line può essere ritenuto penalmente perseguibile per il reato di diffamazione, purché emergano circostanze concrete che lasciano intendere una sua adesione al contenuto dell'articolo e, quindi, una partecipazione attiva nella ideazione o nella diffusione del medesimo.

 

3. Responsabilità del direttore in presenza di autore ignoto o pseudonimo.

La Corte ritiene poi di affrontare, in un autonomo punto della decisione, la questione della eventuale attribuzione di responsabilità al direttore del periodico nel caso di articolo non firmato o firmato da pseudonimo.

La motivazione prende le mosse da una affermazione tranchante: la pubblicazione di un articolo del genere implica, di per sé e comunque, l'ascrivibilità diretta del reato al direttore e, con essa, una sorta di automatica responsabilità del vertice.

Una simile dichiarazione, lo si anticipa subito, sembra davvero poco condivisibile in quanto, in questo modo si supererebbe di un sol balzo il limite costituito dal principio di colpevolezza, introducendo una ipotesi di responsabilità dolosa per un soggetto esclusivamente in virtù della sua posizione nella gerarchia della redazione, ragionamento che non pare mai ammissibile in un'interpretazione costituzionalmente ben orientata delle disposizioni penali.

La sentenza si appoggia ad un paio di precedenti nello stesso senso, almeno uno dei quali è stato vigorosamente criticato in dottrina, con parole che possono essere sottoscritte anche oggi: «la sentenza non può non destare viva perplessità e forse anche sconcerto: la aperta violazione di un principio fondamentale, quale è quello di stretta personalità della responsabilità, sembra voler segnare il ritorno ai tempi della responsabilità senza colpa» (così G. Le Pera, Articolo non firmato e responsabilità del direttore: un pericoloso ritorno alla responsabilità senza colpa, in Cass. pen., 2002, pp. 2345 e ss.).

Al di là di quello che si continua a ritenere un errore di diritto commesso dalla Suprema Corte, stupiscono le motivazioni addotte per suffragare la tesi appena descritta.

In primo luogo la Cassazione afferma che diversamente opinando si consentirebbe la sussistenza di una sorta di «zona franca», ovvero la impossibilità di applicare il delitto di cui all'art. 595 c.p. alle diffamazioni contenute in articoli non firmati, adombrando una certa qual irragionevole violazione del principio di uguaglianza.

Entrambe le affermazioni però si ritiene che non colgano nel segno. In primo luogo, proprio la presenza dell'art. 57 c.p. e la sua applicabilità al direttore che per omesso controllo "consente" la commissione del reato a mezzo stampa, fa capire come anche nel caso dell'anonimo vi sia una risposta dell'ordinamento che non lascia priva di sanzione la condotta. In secondo luogo, il principio di uguaglianza non pare davvero rilevare in un simile frangente. Anzi, sembra quasi paradossale che per evitare un vulnus al principio di uguaglianza venga attribuito un delitto, senza alcun elemento di prova circa la effettiva commissione della condotta tipica né alcun indizio circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in questione.

Quella appena esaminata parrebbe quindi trattarsi di una responsabilità automatica, basata su un ragionamento meccanicistico, che rischia di originare punizioni pressoché casuali, ovvero, in altri termini, slegate dal principio di personalità della responsabilità penale.

Dopo queste poco persuasive affermazioni, la Corte sembra fare un revirement e tornare sui suoi passi. Se ne si sono bene intese le parole, infatti, la sentenza finisce per ipotizzare l'applicazione anche allo scritto anonimo dei parametri già analizzati e che consentono, in generale, di ascrivere al vertice la responsabilità diretta per il reato, declinando le regole generali in tema di concorso di persone nel reato.

I due passaggi appaiono in contrasto insanabile tra loro: da una parte l'ascrizione di una responsabilità "istantanea" per gli scritti anonimi, dall'altra la necessità che per ottenere un simile risultato si rinvengano i presupposti per una attribuzione della paternità dei contenuti. E questa seconda parte della motivazione suscita ancora maggiori perplessità se si pone mente ad una ulteriore affermazione, di poco successiva, che pare la meno convincente in assoluto di una sentenza ricca, viceversa, di spunti interessanti e di riflessioni ben ponderate.

La Corte, infatti, nel sottolineare ancora una volta la correttezza di un'impostazione che porta il direttore a rispondere del reato a mezzo stampa commesso dallo scritto anonimo, giunge a precisare che non «appare conforme alla ragionevole distribuzione tra le parti dell'onere dimostrativo pretendere che la pubblica accusa esperisca ricerche per l'identificazione dell'autore, compia "qualsivoglia accertamento in relazione alla paternità" dello scritto denunciato, in vista della formulazione della meno grave imputazione ex art. 57 c.p. [...]. Questa pretesa di identificazione e del conseguente effetto positivo sulla qualificazione del fatto da contestare al direttore responsabile, rientrano negli obiettivi difensionali e il relativo onere dimostrativo non è riferibile ad adempimenti del titolare dell'accusa».

Una simile posizione potrebbe, al limite, essere giustificata solo in presenza di una regola generale che attribuisce al direttore stesso ogni contenuto pubblicato sul periodico. In tal caso, in presenza di una responsabilità automatica del direttore per ciascun'affermazione, il PM potrebbe limitarsi ad identificare il direttore della testata e spetterebbe poi a lui la facoltà di "discolparsi" indicando un diverso autore del reato. Ma si tratterebbe di una responsabilità oggettiva che non può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento e, non a caso, una simile regola non esiste. Va dunque ribadito con chiarezza che è il rappresentante dell'accusa a dover provare, oltre alla sussistenza del reato, l'identità del responsabile e non vi sono meccanismi di imputazione automatica dei reati a mezzo stampa.

Un'affermazione come quella sottoscritta dalla sentenza in commento, invece, secondo cui spetterebbe alla difesa l'indicazione della paternità dell'articolo, pare da un lato poco comprensibile e dall'altro ancor meno commendevole. In primo luogo, infatti, introdurrebbe una anomala inversione dell'onere della prova rispetto agli ordinari canoni costituzionali. In secondo luogo, darebbe origine a un inedito onere di collaborazione "sanzionato" con la minaccia, in caso di inadempimento, della applicazione di un reato più grave: la diffamazione e non l'omesso controllo. Insomma, una sorta di moral suasion giudiziaria: in caso di reato commesso mediante la pubblicazione di un articolo non firmato o il direttore si ingegna a individuarne l'autore, oppure risponde direttamente dell'eventuale illecito commesso.

Va ribadito, comunque, che questo ultimo passaggio sembra davvero una delle poche ombre di una sentenza articolata, colta e ben argomentata.