25 febbraio 2016 |
Ai confini della critica: dal Tribunale di Rovereto una lezione sul reato di diffamazione
G.I.P. Rovereto, sent. 19 novembre 2015, Gud. Dies
1. Se qualcuno avvertisse la necessità di un breve "ripasso" del reato di diffamazione, la decisione in commento ci pare possa essere d'aiuto.
Si tratta di una sentenza del 19 novembre 2015, con la quale il Gip presso il Tribunale di Rovereto ha condannato un imputato per il reato di diffamazione aggravata alla pena di ottomila euro di multa, oltre alle spese processuali e al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile.
La questione di fatto può essere, in estrema sintesi, così descritta: il presidente di una associazione culturale ispirata ad una visione tradizionale del cattolicesimo pubblicava, sulla pagina web di detto sodalizio, un articolo dal titolo «B.: aggiorniamo il paese (con la pedofilia)». L'articolo era costituito da un collage di frasi sul tema della sessualità dei minori estrapolate da scritti e interviste di A.B., intellettuale e scrittore noto per le sue idee anticonformiste e libertarie. A corredo di ciò, all'interno dell'articolo veniva riprodotta la fotografia di uno striscione che recava la scritta «A.B. infame pedofilo».
La sentenza, emessa a seguito di giudizio abbreviato, richiesto dall'imputato in sede di opposizione a decreto penale di condanna, ripercorre, in modo molto analitico le principali questioni inerenti la diffamazione consumata attraverso internet, dando conto dei vari orientamenti giurisprudenziali, anche sovranazionali, in ordine a ciascuno dei temi affrontati.
2. Il primo passaggio riguarda l'individuazione dell'autore dell'articolo, che nelle diffamazioni on line costituisce non di rado un vero e proprio punctum dolens probatorio. Nel caso di specie, l'attribuzione di quanto pubblicato all'imputato è parsa priva di problematicità, alla luce della confessione resa da costui in sede di spontanee dichiarazioni alla polizia giudiziaria. Sul punto, come sottolineato dal giudice, egli è perfino sembrato «rivendicare con orgoglio la paternità» dell'articolo. L'argomento della confessione ha consentito peraltro al giudice di tratteggiare una digressione di natura processuale sulle differenze tra inutilizzabilità patologica e fisiologica, che ci limitiamo a segnalare.
3. Risolta la questione della paternità dell'articolo, la sentenza premette all'analisi del caso concreto un esame degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 595 c.p., accompagnata da una sia pur breve illustrazione degli approdi di matrice pretoria.
Attraverso un ragionare senza dubbio chiaro, il giudice accompagna il lettore anche in questioni che, alla luce del caso, sembravano poi non così problematiche. Vasta è, ad esempio, la panoramica sulla giurisprudenza di legittimità in ordine alla necessità che - anche nelle ipotesi aggravate dalla comunicazione «con la stampa o con altri mezzi di pubblicità» - sussista la prova, richiesta per la fattispecie semplice, della comunicazione con almeno due persone.
Il Gip ritiene di non condividere tale impostazione e ne illumina gli esiti contraddittori. Invero, quelle stesse pronunce che anche per le diffamazioni aggravate dall'utilizzo di un mezzo di pubblicità richiedono il requisito della comunicazione con più persone, da un lato mitigano l'affermazione de qua precisando che tale elemento costitutivo - con buona pace del principio di colpevolezza - sarebbe presunto; dall'altro individuano il tempus commissi delicti nel momento, peraltro ontologicamente incompatibile con tale presunzione, dell'attivazione del collegamento.
Tali ragioni, ad avviso dell'estensore, giustificano quindi l'adesione a quell'indirizzo secondo cui, nelle ipotesi aggravate dall'uso di internet, è la libera fruibilità della comunicazione ad integrare ex se il reato (il Gip cita in particolare la sentenza emessa da Cass. Pen., sez. I, 22.01.2014, n. 16712, che in tema di diffamazione a mezzo Facebook fa riferimento alla «natura di mezzo di pubblicità del social network cui ha accesso con la sola registrazione una molteplicità di soggetti indeterminati»). Invero, il fatto tipico della diffamazione in ipotesi siffatte si sostanzierebbe nel porre, e mantenere, a disposizione dei lettori i messaggi offensivi o illeciti.
La decisione in commento appare poi rilevante e coraggiosa laddove critica gli effetti - di dubbia costituzionalità - che potrebbero prodursi dalla applicazione della disciplina prevista per gli stampati alle testate online, secondo la via tracciata da Cass. Pen., Sez. Un., 29.01.2015, n. 31022. In questo senso, appare del tutto condivisibile l'opzione di politica del diritto, suggerita in sentenza, di superare la disparità di trattamento tra stampa e altri media facendo venir meno la disciplina più severa riservata appunto alla stampa (art. 13 l. 47/48) e non, viceversa, estendendo tali norme ai nuovi mezzi di comunicazione di massa.
5. Al termine della parentesi dottrinale ed entrando nel merito, per affrontare il tema inerente alla natura diffamatoria del collage in cui si sostanzia il "pezzo" incriminato, il Gip ripercorre i principi interpretativi generalmente condivisi sul concetto di offesa alla reputazione e sul bilanciamento tra i valori costituzionali della reputazione e della dignità delle persone (la cui tutela risiede negli artt. 2 e 3 Cost.) ed il diritto alla libera manifestazione del pensiero, garantito a tutti dall'art. 21 Cost., alla cui previsione deve essere collegata la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca e/o critica ex art. 51 c.p.
Su tale punto, la sentenza offre in primo luogo un elenco non breve di pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo, relative all'affermazione dell'attività giornalistica quale "watch-dog" della democrazia.
In questa prospettiva, offre una considerazione di portata in realtà più generale sull'estensione della libertà di pensiero, affermando che «se un personaggio pubblico [...] rilascia pubblicamente sferzanti dichiarazioni su temi sensibili come la sessualità in genere e quella dei minori in particolare, particolarmente provocatorie ed aggressive nei confronti di una ben individuata parte dell'opinione pubblica, non può poi lamentarsi se rappresentanti di quella stessa parte reagiscono in modo altrettanto sferzante e ciò per l'ovvia considerazione che la libertà di manifestazione del pensiero vale per lui come per i suoi contraddittori. Fino a quando il confronto si mantiene sul piano del dibattito di idee non si può dubitare della piena liceità del dibattito, a prescindere dai toni utilizzati, ma quando dalle idee si passa all'attacco alle persone, la liceità o meno delle opinioni espresse dipende dalle concrete modalità e dai contenuti espressi».
6. Appare evidente che alla base delle affermazioni di B. riportate nell'articolo vi fosse l'intenzione di suscitare clamore e forse anche provocare l'opinione pubblica, su un tema - la sessualità e il suo rapporto con la religione - di innegabile attualità e interesse collettivo. Proprio la radicalità delle frasi di B. - il quale non giustificava la pedofilia, ma talora mostrava qualche ambiguità e comunque certo era ben lontano dalla morale corrente - poteva indurre a ritenere entro i confini del lecito una reazione anche particolarmente dura e persino un attacco alla persona. Il giudice, però, ragiona in maniera parzialmente differente. Infatti, pur se pare voler allargare le maglie del diritto di critica, giunge poi a porre un ultimo baluardo, ritenendo che, in ogni caso, non sia consentito l'insulto alla dignità stessa dell'interlocutore; e l'espressione «infame pedofilo» non può, invero, essere considerata altrimenti.
In relazione a ciò, la sentenza si sofferma in particolare sulla verifica della sussistenza del requisito della verità del fatto narrato, intesa nel caso concreto come effettiva pronuncia da parte della persona offesa delle frasi confluite nel collage pubblicato dall'imputato. Nel fare applicazione dei consolidati principi in tema di esercizio del diritto di cronaca, il Gip chiarisce che il riportare affermazioni espresse da B. in contesti pubblici (interviste giornalistiche e televisive) realizza comunque un fatto sussumibile nella previsione di cui all'art. 595, comma 3, c.p., in quanto l'imputato disancora tali opinioni dal contesto originario e le pone in modo tale da poter bollare chi le ha pronunciate «senz'altro come un pedofilo».
Tali considerazioni appaiono ulteriormente provate dalla riproduzione, in calce all'articolo, di una fotografia che mostrava uno striscione ove B. era definito come «infame pedofilo», la cui carica offensiva, secondo il giudice, non può in alcun modo essere mitigata dalla circostanza che lo striscione fosse opera altrui, perché pubblicandone la foto all'interno del proprio articolo, l'imputato «lo fa necessariamente proprio amplificando l'offesa col potente mezzo utilizzato».
7. Proprio la straordinaria capacità diffusiva di internet è uno dei temi affrontati dal giudice di Rovereto. Egli da un lato sottolinea la gravità del fatto connessa all'idoneità di tale mezzo a rendere «visibile quello striscione non solo dal luogo in cui fisicamente è collocato ma da ogni angolo del pianeta dotato di postazione informatica» con la conseguenza di un potenziale coinvolgimento, nell'offesa all'altrui reputazione, di milioni di persone; dall'altro giustifica l'individuazione di una pena-base non mite proprio in considerazione della «particolare diffusività del mezzo di pubblicità utilizzato». Tale considerazione, in astratto ovvia, trova tuttavia scarso riscontro nella realtà: la gran parte delle pagine web ha, infatti, un numero di accessi assai modesto e questo dato sembra trascurato dalla giurisprudenza in generale e forse anche dal per altri aspetti attento Gip del caso in esame.
8. La tendenza alla analiticità si ritrova anche nella parte della pronuncia relativa all'irrogazione della pena. Il giudice, contrariamente a ciò che si osserva in moltissime pronunce di merito, ove le ragioni del quantum di pena sono solo apparenti e relegate in mere clausole di stile che richiamano l'art. 133 c.p., si sofferma diffusamente nella spiegazione dei criteri concretamente applicati per la commisurazione della sanzione.
In tema, non rinuncia nemmeno a una riflessione sulla possibilità stessa - alla luce della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo - di irrogare una sanzione detentiva per la diffamazione. Ripercorre così la nota giurisprudenza di Strasburgo secondo la quale la pena detentiva per i reati commessi con l'uso della stampa deve essere relegata alle ipotesi di eccezionale gravità, per giungere a una considerazione certo non banale e, forse, nemmeno priva di fondamento: «si può fondatamente dubitare della legittimità costituzionale dell'art. 13 legge n. 47 del 1948 che impone l'applicazione della pena detentiva, in via congiunta con quella pecuniaria, sempre, in linea di principio anche nei casi meno gravi, sia pure al netto del riconoscimento di attenuanti equivalenti o prevalenti, che impone l'applicazione della pena alternativa di cui all'art. 595, comma 1 c.p., come autorevole dottrina non ha mancato di osservare».
L'importanza che al tema della pena viene riservata nella sentenza in esame emerge altresì dal passaggio nel quale il giudice evidenzia - in maniera del tutto condivisibile - come gli approdi garantisti affermati con riguardo ai reati commessi dai giornalisti di professione debbano essere ritenuti validi e applicabili a qualsiasi autore dei reati di diffamazione con mezzi di pubblicità, per evitare da un lato «il rischio di ingiustificate disparità di trattamento in favore dei giornalisti diffamatori rispetto ai comuni diffamatori e, dall'altro, perché nell'era moderna che consente la libera fruizione di un eccezionale mezzo di comunicazione di massa, quale Internet, a ben vedere il ruolo di "cane da guardia della democrazia", ben può essere riconosciuto a qualsiasi cittadino. Questo ruolo, infatti, risponde ad un interesse di carattere generale e non può essere svilito in privilegio di categoria».
9. Quanto poi al risarcimento del danno conseguente all'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, il giudice ha riconosciuto una provvisionale di entità contenuta, rimettendo la liquidazione del quantum complessivo all'eventuale giudizio civile.
La motivazione non si dilunga eccessivamente sul punto; appare tuttavia evidente come tale scelta sia dovuta alla ponderazione tra la asserita gravità del fatto illecito (data dalla diffusione potenzialmente esponenziale dello scritto e dalle espressioni particolarmente offensive riportate nel testo) ed il mancato accertamento dell'effettività del pregiudizio subito dalla persona offesa (la cui prova, soprattutto nei casi come quello in esame, nei quali il danno è di natura non patrimoniale ed il suo accertamento non può essere effettuato per tabulas, trova la propria sede naturale nel dibattimento o nel giudizio civile). Interessante è però la previsione del pagamento della provvisionale come condizione necessaria per la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, circostanza che denota una volta di più la particolare attenzione del giudice rispetto al caso e, più in generale, l'approccio rigoroso e analitico.
Tale "atteggiamento" emerge, per la verità, con evidenza nell'arco di tutto il provvedimento; si percepisce, infatti, la volontà di non trascurare nessun aspetto. In tal modo, il giudice predispone una sorta di breve saggio in tema di diffamazione a mezzo internet e, grazie anche a un argomentare sempre limpido, suggerisce ai lettori alcune riflessioni anche di politica del diritto, particolarmente utili in tempi di profondo ripensamento delle fattispecie criminose a tutela dell'onore e del loro apparato sanzionatorio.