24 ottobre 2012 |
Sulle motivazioni della Cassazione nel caso Sallusti
Cass.,pen., sez. V, 26 settembre 2012 (dep. 23 ottobre 2012), n. 41249, Pres. Grassi, Est. Bevere, imp. Sallusti e Monticone
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1. Pubblichiamo immediatamente l'articolatissima motivazione della sentenza della V sezione penale della Cassazione depositata ieri, 23 ottobre 2012, che chiude almeno per ora il caso Sallusti, confermando integralmente le statuizioni della corte territoriale con riferimento alla posizione dello stesso Sallusti, e annullando invece la sentenza d'appello con riferimento alla posizione di Andrea Monticone, autore di uno dei due articoli oggetto delle imputazioni della pubblica accusa
2. In estrema sintesi, il S.C. afferma:
- che la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta a livello interno dall'art. 21 Cost. e a livello internazionale dall'art. 10 CEDU, incontra un limite legittimo nella tutela dell'onore e della reputazione individuale (anch'essi beni aventi copertura costituzionale, ex art. 2 e 3 Cost. e 8 CEDU), alle condizioni che devono essere ricostruite sulla base dei criteri elaborati parallelamente dalla giurisprudenza interna ed europea;
- che, nel caso di specie, i due articoli oggetto di imputazione, pubblicati su Libero il 18 febbraio 2012, offendevano gravemente la reputazione di un giudice tutelare (agevolmente identificabile nel dott. Cocilovo), il quale veniva falsamente accusato di avere costretto una minore ad abortire, e dunque di un fatto costitutivo di reato ai sensi dell'art. 18 l. 194/1978;
- che il giorno precedente la pubblicazione dei due articoli l'ANSA e numerose testate giornalistiche nazionali avevano già provveduto a ricostruire fedelmente la vicenda, smentendo così la falsa notizia della costrizione della minore ad abortire pubblicata in precedenza dalla Stampa di Torino;
- che la consapevole falsità della notizia contenuta nei due articoli in questione esclude che possa venire in rilievo, nel caso di specie, la scriminante del diritto di manifestazione del pensiero, nemmeno nella forma putativa;
- che il direttore di Libero Alessandro Sallusti deve ritenersi responsabile non già per omesso impedimento della pubblicazione diffamatoria, bensì come concorrente, ex art. 110 e 595 c.p., nel delitto di diffamazione commesso dall'ignoto autore dell'articolo "La vita cancellata in nome della legge", pubblicato all'interno del quotidiano e firmato con lo pseudonimo Dreyfus in una pagina nella quale compariva, altresì l'immagine di "sei splendidi neonati"; e ciò sulla base del consolidato e condivisibile orientamento interpretativo secondo cui la pubblicazione di un articolo diffamatorio anonimo (o comunque scritto sotto pseudonimo) è attribuibile, a titolo di concorso, a chi con consapevolezza e volontà ha deciso di pubblicare l'articolo;
- che deve per contro essere annullata con rinvio al giudice di merito per nuovo esame la condanna pronunciata a carico di Andrea Monticone, autore dell'altro articolo pubblicato in prima pagina in quella medesima edizione, nel cui testo la responsabilità dell'aborto coatto veniva falsamente attribuita ai genitori della ragazza, i quali non avevano presentato querela, e non al magistrato che aveva autorizzato l'interruzione della gravidanza;
- che anche in relazione a tale articolo deve tuttavia essere affermata la responsabilità di Antonio Sallusti - questa volta per avere omesso nella propria qualità di direttore, ex art. 57 c.p., il controllo necessario ad impedire che per mezzo della pubblicazione venissero commessi reati -, in ragione dell'evidente carica diffamatoria concernente direttamente anche il magistrato contenuta nel titolo dell'articolo ("Costretta ad abortire da genitori e giudice"), dal momento che la formulazione del titolo non è normalmente opera del giornalista autore dell'articolo, ma è frutto di una precisa scelta redazionale, alla quale il direttore non può ritenersi estraneo, quanto meno nella forma di un omesso controllo;
- che il trattamento sanzionatorio applicato ad Antonio Sallusti dalla Corte d'Appello appare congruamente motivato, e ciò anche ladove si tenga conto dell'orientamento della Corte EDU che - pur insistendo sulla necessità che le pene applicate ai giornalisti i quali abbiano travalicato i limiti del legittimo esercizio della libertà di espressione siano calibrate in modo da non dissuadere i mezzi di informazione dal loro ruolo di allertare il pubblico in caso di abusi della pubblica autorità - afferma purtuttavia la legittimità della pena detentiva in "ipotesi eccezionali", intese come condotte lesive di altri diritti fondamentali;
- che il caso di specie configura per l'appunto una di queste "ipotesi eccezionali", in relazione alla gravità del pregiudizio alla reputazione arrecato non solo al giudice ma anche ai genitori e ai medici della ragazza, consistito nell'attribuzione di un fatto costitutivo di reato e attinente alla sfera più intima della vita privata di una minorenne, nonché in relazione all'interesse - del quale la giurisprudenza di Strasburgo si fa ampiamente carico nei propri bilanciamenti - alla salvaguardia della fiducia del pubblico nel corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie;
- che nemmeno la decisione di non concedere la sospensione condizionale della pena può essere censurata, stante l'impossibilità di formulare una prognosi positiva circa la futura astensione del condannato dalla commissione di nuovi reati (art. 164 co. 1 c.p.) in ragione delle sue sette pregresse condanne per diffamazione (di cui sei ex art. 57 c.p. e una in qualità di autore) in un arco di tempo di soli due anni.
3. Non è questa ovviamente la sede per una approfondita valutazione della sentenza, i cui passaggi argomentativi essenziali ci sembrano comunque ineccepibili, e che presenta peraltro molteplici profili di interesse anche sotto il profilo delle affermazioni di principio relative al ruolo della giurisprudenza di Strasburgo, nell'ottica di una interpretazione conforme che tenga conto del principio di sussidiarietà della tutela dei diritti fondamentali da parte della Corte EDU (pag. 8 in fine): principio che attribuisce proprio al giudice interno, anche nella materia penale, il ruolo di primo giudice dei diritti fondamentali[1]
Ci sia qui però consentita una cursoria osservazione 'a caldo' relativa a quello che, a nostro avviso, rappresenta il punto più delicato dell'intera vicenda, relativo al trattamento sanzionatorio.
In discussione non era qui la liceità dell'inflizione di una pena detentiva: l'art. 13 della l. 47/1948, integrato nell'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa che consista nell'attribuzione di un fatto determinato, prevede la pena minima di un anno di reclusione, accanto - e non in alternativa - alla pena pecuniaria; e l'applicazione di tale disposizione, considerata dalla giurisprudenza quale circostanza aggavante, è inevitabile quando - come nella specie - non vi siano attenuanti prevalenti o almeno equivalenti. Sulla congruità di questa norma, e sulla sua (dubbia) compatibilità con la Convenzione europea si potrà certo discutere. Ma, ripetiamo, non è questo il punto: la decisione dei giudici di appello era sotto questo profilo obbligata, a meno di non sollevare una (probabilmente fondata) questione di legittimità costituzionale della norma in questione per violazione dell'art. 117 co. 1 Cost., in relazione appunto all'art. 10 CEDU così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Il reale nodo problematico concerne, invece, la decisione di non sospendere condizionalmente la pena. Qui ci pare sommessamente che la mera presenza dei numerosi e ravvicinati precedenti specifici dell'imputato ancora non fosse decisiva per formulare una prognosi, ai sensi dell'art. 164 co. 1 c.p., di commissione di altri reati da parte dell'imputato. Ipotizzando, infatti, che tutte le precedenti condanne fossero state a pene pecuniarie (ipotesi non inverosimile, posto che giudici e pubblici ministeri spesso trascurano di contestare ed applicare l'art. 13 l. 47/1948, come del resto era accaduto nel caso di specie in primo grado), appare per lo meno azzardato ipotizzare che un direttore di giornale già sottoposto a pena detentiva sospesa, per quanto incline a questo tipo di reati, possa decidere di delinquere ancora, rischiando così di vedersi immediatamente revocato il beneficio ex art. 168 co. 1 c.p. Un direttore già condannato a pena sospesa che pubblichi, o consenta di pubblicare, un articolo diffamatorio non può certo confidare - come invece un ladruncolo di supermercati - nella speranza di impunità; e non può non essere consapevole che, in caso di reiterazione del reato, la prospettiva assai probabile sarà a questo punto quella di finire in carcere per davvero.
L'ottica che i giudici di merito avrebbero forse potuto seguire è insomma quella della gradualità: constatata l'inefficacia della pena pecuniaria, certo pienamente giustificata appariva qui l'inflizione della pena detentiva, anche in relazione all'estrema gravità della condotta compiuta dall'imputato; ma, se davvero di trattava della prima condanna a pena detentiva, la pena avrebbe ben potuto essere sospesa, proprio facendo affidamento sulla capacità deterrente della stessa sospensione condizionale, che in definitiva proprio a questo serve.
I termini della questione sarebbero affatto diversi se Sallusti avesse già subito precedenti condanne a pena detentiva, o se addirittura avesse già beneficiato della sospensione condizionale in occasione delle precedenti condanne; ma, in tal caso, il riferimento normativo avrebbe dovuto essere rappresentato non già dalla prognosi di cui al primo comma dell'art. 164, bensì dalle preclusioni al beneficio di cui al comma 2 n. 1 e al comma 4 dello stesso art. 164 c.p. In tal caso, l'applicazione in concreto della pena detentiva - fatta salva ovviamente la possibilità di accedere al beneficio dell'affidamento in prova - sarebbe stata una scelta obbligata, e non già il frutto di una valutazione discrezionale del giudice, in una vicenda così sensibile non solo dal punto di vista politico (questo al giudice non dovrebbe importare) ma anche giuridico (stante il rischio di un ricorso a Strasburgo del condannato in relazione alla sproporzione della pena inflittagli); e si sarebbe più agevolemente giustificata, anche di fronte ai giudici europei, in chiave di extrema ratio, quale unica soluzione praticabile per evitare che il condannato persistesse ulteriormente a commettere fatti gravemente offensivi dei diritti fondamentali altrui.
Spiace allora il silenzio di tutte le sentenze su questo specifico profilo che avrebbe forse potuto gettare una luce diversa sulla vicenda, le cui ripercussioni politiche, come è noto, sono ora sfociate in una drastica (e forse non del tutto meditata: si vedano in proposito le non peregrine considerazioni di Luigi Ferrarella in corriere.it di oggi) accelerazione dei lavori parlamentari di riforma della diffamazione, dei quali contiamo di dare notizia non appena sarà a disposizione il testo consolidato del disegno di legge n. 3491 in queste ore all'esame dell'aula del Senato (per scaricare il testo originario già esaminato dalle commissioni del Senato, nella versione comunicata alla Presidenza il 28 settembre 2012, nonché dei relativi emendamenti, clicca qui).
[1] Qualche motivo di perplessità nasce peraltro dall'uso non sempre rigoroso delle fonti giurisprudenziali citate nella pur pregevole sentenza in esame.
A sostegno della cruciale affermazione secondo cui la giurisprudenza di Strasburgo non si opporrebbe all'inflizione di una pena detentiva nei confronti di giornalisti autori di diffamazione, in effetti, la Cassazione invoca qui quattro precedenti inconferenti rispetto all'affermazione di principio.
Quanto anzitutto alla sentenza Cumpana e Mazare c. Romania (del 17 dicembre 2004), pure citato dalla Cassazione, si tratta certamente di un leading case in materia di proporzionalità della sanzione contro condotte di manifestazione del pensiero che tuttavia eccedono i limiti del diritto riconosciuto dall'art. 10 CEDU. In tale pronuncia la Corte EDU afferma che "although the Contracting States are permitted, or even obliged, by their positive obligations under Article 8 of the Convention [...] to regulate the exercise of freedom of expression so as to ensure adequate protection by law of individuals' reputations, they must not do so in a manner that unduly deters the media from fulfilling their role of alerting the public to apparent or suspected misuse of public power" (§ 113), ed ammonisce che "the chilling effect that the fear of such sanctions has on the exercise of journalistic freedom of expression is evident" (§ 114), precisando tuttavia che "the imposition of a prison sentence for a press offence will be compatible with journalists' freedom of expression as guaranteed by Article 10 of the Convention only in exceptional circumstances, notably where other fundamental rights have been seriously impaired, as, for example, in the case of hate speech or incitement to violence". E' significativo peraltro sottolineare come l'esemplificazione delle circostanze eccezionali che giustificano la pena detentiva in relazione a manifestazioni del pensiero non faccia riferimento a ipotesi di diffamazione, ma piuttosto a istigazioni all'odio o alla violenza; tanto che nel caso di specie la Corte riconosce la violazione della violazione dell'art. 10 CEDU, affermando che la pena di sette mesi di reclusione inflitta ad un giornalista per un articolo diffamatorio doveva considerarsi sproporzionata, ancorché il giornalista avesse in concreto ecceduto rispetto ai limiti del legittimo esercizio della propria libertà di espressione.
La seconda sentenza, Fatullayev c. Azerbaijian (del 22 aprile 2010), ravvisa parimenti una violazione dell'art. 10 CEDU in relazione a condanne di giornalisti a pene detentive, giudicandole sproporzionate; la terza, Katrami c. Grecia (del 16 aprile 2009) addirittura ravvisa tale violazione in un'ipotesi di condanna a pena detentiva sospesa, ritenuta comunque sproporzionata dalla Corte; e infine la quarta, Egeland e Hanseid c. Norvegia (del 16 aprile 2009) esclude invero la violazione, ma in considerazione proprio della non particolare gravità della pena (pecuniaria!) in concreto inflitta.
Il problema della legittimità, dal punto di vista della CEDU, dell'inflizione della pena detentiva in ipotesi di diffamazione (alla quale, ripetiamo, i giudici italiana erano comunque vincolati, stante il disposto dell'art. 13 della legge sulla stampa) resta dunque a aperto, anche in riferimento a ipotesi oggettivamente di estrema gravità come quella di specie.