ISSN 2039-1676


05 novembre 2013 |

La Corte EDU sul bilanciamento tra riservatezza delle comunicazioni e libertà  di espressione del giornalista

C. eur. dir. uomo, Seconda sezione, sent. 8 ottobre 2013, Ricci c. Italia, n. 30210/06

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1. Il caso.

La pronuncia in commento si fa apprezzare per più ragioni; porta con sé pochi messaggi, chiari, ed è coerente con il panorama giurisprudenziale preesistente.

Nel 1996 il palinsesto RAI proponeva un programma, intitolato L'altra edicola, che consisteva nel sollecitare e diffondere, attraverso l'intervento di vari esponenti della cultura italiana, un dibattito "di livello" su argomenti di particolare interesse. Per completare il quadro, occorre aggiungere come non si trattasse di una trasmissione "in diretta", e pertanto, ad una prima fase di registrazione, seguiva, secondo le scelte della produzione e degli stessi partecipanti (che potevano infatti negare il proprio consenso alla diffusione delle immagini), il montaggio, su un canale interno e riservato, e, infine, la diffusione tra il pubblico sui canali "in chiaro" RAI.

Nel corso delle predette registrazioni, una puntata riguardava la presentazione dell'ultimo libro del professore filosofo Gianni Vattimo, in collegamento dalla sede RAI di Torino, cui era stato "affiancato", tra gli altri, e in qualità di contraddittore, il critico Aldo Busi, in collegamento da Roma.

Tra i due prendeva piede un alterco veramente "colorito" (per i particolari, si veda l'articolo pubblicato all'epoca dal Corriere: clicca qui per accedervi) che si concludeva con la chiusura del collegamento video da parte di entrambi i contendenti. Nel corso del battibecco la conduttrice chiedeva ai propri collaboratori, attraverso una linea interna, se la trasmissione fosse in possesso della liberatoria da parte del prof. Vattimo. Ricevuta risposta negativa, la stessa esclamava: «Non è possibile! (...) Li avevamo messi assieme apposta quei due lì!».

L'intera scena, registrata da una telecamera interna di studio, veniva trasmessa sul circuito interno RAI per la fase di montaggio, al termine della quale, considerata l'assenza della suddetta "liberatoria", veniva diffusa una versione per così dire light, priva dell'alterco tra Vattimo e Busi. Tutto sarebbe andato "liscio" se la scena in questione, stando almeno al resoconto fornito dalla Corte (da cui non è possibile trarre ulteriori dettagli), non fosse stata "intercettata" dai sistemi di Canale 5 «nell'ambìto del monitoraggio dell'attività degli altri canali» (cfr. § 9 della sentenza in commento).

Il filmato finiva così nelle mani di Antonio Ricci, autore e ideatore della trasmissione satirica Striscia la notizia, che, a sua volta, trasmetteva la sequenza in due distinte puntate al fine di dimostrare la vera natura della televisione italiana, dove tutto, nonostante le apparenze, è predisposto per creare spettacolo. Insomma, secondo la tesi di Ricci, scopo de L'altra edicola non era tanto quello di diffondere il dibattito sull'ultimo libro del professor Gianni Vattimo, quanto piuttosto quello di divulgare una querelle personale tra questi e uno dei contraddittori.

In tutta risposta, la RAI depositava querela nei confronti di Antonio Ricci per aver costui fraudolentemente intercettato le immagini in questione, inerenti al circuito telematico riservato dell'emittente televisiva, e averle poi diffuse tra il pubblico nella piena consapevolezza della loro natura confidenziale. Iniziava così un procedimento penale nel cui ambito, sia la RAI sia Gianni Vattimo, si costituivano parti civili e che vedeva Ricci accusato di entrambe le ipotesi di reato previste dall'art. 617 quater c.p. La fattispecie in questione, per l'appunto, punisce non solo la fraudolenta intercettazione di comunicazioni intercorrenti tra più sistemi telematici (comma 1) ma anche la rivelazione, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, del contenuto delle predette comunicazioni (comma 2).

In relazione al primo comma, l'imputato adduceva a propria difesa l'assenza di alcuna condotta fraudolenta (essendo state le immagini captate in maniera del tutto casuale) e, quanto al secondo comma, tra l'altro, il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica (sulla base del quale la diffusione delle immagini sarebbe stata "scriminata").

La tesi difensiva non veniva del tutto accolta. In primo grado, infatti, il Tribunale di Milano, pur assolvendo l'imputato per la fraudolenta intercettazione di comunicazioni (art. 617 quater, comma 1, c.p.), lo condannava alla pena di quattro mesi e cinque giorni di reclusione per il reato di illecita divulgazione di comunicazioni riservate (art. 617 quater, comma 2, c.p.). A sua volta, il secondo grado di giudizio confermava la sentenza di prime cure. Con specifico riferimento alla condotta divulgativa, poi, la Corte d'Appello precisava come, nel caso di specie, non si sarebbe potuto invocare l'esercizio del diritto di cronaca di cui all'art. 51 c.p. Infatti, sebbene in teoria la divulgazione di materiale riservato potesse essere funzionale al corretto esercizio del diritto di cronaca, nella vicenda in esame non era dato rilevare validi elementi per sostenere simile giustificazione; il Ricci, infatti, ben avrebbe potuto ottenere il medesimo risultato attraverso metodi non lesivi del sistema telematico RAI (cfr., sul punto, § 19 della sentenza).

Col ricorso in Cassazione, l'imputato otteneva l'annullamento della sentenza per avvenuta prescrizione del reato. Nonostante ciò, nel merito, la Suprema Corte sconfessava l'orientamento della Corte d'Appello; in particolare (con le parole della Corte EDU) «la Corte di Cassazione osserva [...] che il diritto di critica, di cronaca e di satira deve essere riconosciuto nella maniera più ampia possibile [...] Nonostante ciò, nel caso di specie, questo diritto non potrebbe essere invocato, posto che non si parla di una vicenda diffamatoria, ma d'un affare riguardante la divulgazione di informazioni confidenziali non diffamatorie» (cfr. § 23 della sentenza).

Di diverso avviso il condannato, per il quale le corti nazionali avrebbero costretto il diritto di cronaca e di critica entro spazi applicativi troppo angusti e incompatibili con gli standard fissati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a cui quindi decideva di ricorrere.

 

2. La decisione della Corte Europea.

La decisione in commento segue un iter argomentativo ormai "familiare": secondo la Corte, per iniziare, il messaggio comunicato dal ricorrente - svelare una certa qual "doppiezza" della televisione italiana - rientra indubbiamente nella sua libertà di espressione, rispetto alla quale, qualsiasi ingerenza interposta dallo Stato, deve essere «prévue par la loi» (e su questo aspetto nessun dubbio, posta l'esistenza dell'art. 617 quater c.p.) e «nécessaire dans une société démocratique». Al riguardo, la Corte specifica come l'aggettivo «nécessaire» implichi l'esistenza di un «besoin social impérieux» di tutela del bene contrapposto - in questo caso, la riservatezza delle comunicazioni interne RAI - di tal rilievo da giustificare una limitazione del giornalista a diffondere - e del cittadino a ricevere - determinate informazioni.

Contrariamente a quanto affermato nel corso del primo e terzo grado di giudizio interno, la Corte chiarisce inoltre come non vi sia alcuna preclusione, almeno in linea di principio, affinché il giornalista divulghi informazioni di natura confidenziale, in particolare, escludendo che la riservatezza delle comunicazioni prevalga sempre e comunque sul diritto di cronaca e/o di critica (§ 54 della sentenza). Il compito delle corti nazionali risiederebbe piuttosto nel tentativo di individuare un equilibrato bilanciamento tra gli interessi coinvolti. Ogni singola ingerenza sulla libertà di manifestazione del pensiero deve dunque essere legittimata da una specifica e argomentata valutazione, che tenga conto, tra le altre cose, (i) degli interessi coinvolti, (ii) del tipo di vaglio effettuato dalle giurisdizioni nazionali, (iii) del concreto comportamento assunto dal ricorrente nonché, infine, (iv) della proporzionalità della sanzione comminata.

Sul punto, ancora una volta, si assiste ad un esempio di mirabile chiarezza espositiva. Dopo aver sancito, (i), l'esistenza di un interesse sociale a conoscere il reale intento della trasmissione L'altra edicola, la Corte, (ii), riconosceva la correttezza della posizione assunta dai giudici d'appello milanesi, i quali, al contrario di quanto accaduto negli altri gradi di giudizioavevano escluso, sulla base di argomenti condivisibili e non arbitrari, che nel caso di specie si potesse dar luogo ad una prevalenza del diritto di cronaca sul diritto alla riservatezza delle comunicazioni. Quanto poi, (iii), al comportamento concretamente tenuto dal ricorrente, noto professionista dell'informazione, costui aveva evidentemente violato elementari principi di etica giornalistica. Nondimeno, e veniamo al quarto e ultimo punto della verifica, (iv), la Corte ricorda come anche la natura e l'incisività delle pene inflitte vengano in rilievo ai fini del complessivo giudizio di compatibilità dell'ingerenza nella libertà di espressione. Nonostante l'avvenuta prescrizione del reato in grado di Cassazione, l'inflizione da parte dei giudici di merito di una sanzione detentiva - sia pure sospesa - in relazione alla diffusione di un video" il cui contenuto non era suscettibile di cagionare alcun pregiudizio importante" risulta qui sproporzionata, potendo comportare un effetto dissuasivo significativo nei confronti dei giornalisti, in assenza di alcuna delle circostanze eccezionali che giustificano, in base alla giurisprudenza consolidata della Corte, il ricorso a una sanzione così grave.

La Corte, in buona sostanza, scinde il giudizio di compatibilità dell'ingerenza in due "segmenti". Da una parte, il merito della questione [punti (i), (ii) e (iii)], rispetto al quale riconosce la correttezza del giudizio nazionale - ben argomentato, si deve precisare, dai soli giudici di secondo grado - in ordine al non corretto esercizio del diritto di cronaca da parte del ricorrente. D'altra parte, la sanzione [punto (iv)], che, pur necessaria, è ritenuta eccessiva: l'ultimo "segmento" della verifica ha dunque esito negativo per lo Stato resistente [1].

Alla luce di quanto esposto, la Corte riscontra dunque nella condanna emessa dalle autorità italiane un'illegittima ingerenza nella libertà di manifestazione del pensiero del ricorrente, non proporzionata, e, quindi, incompatibile con l'art. 10 della Convenzione.

 

3. Alcune riflessioni conclusive.

La sentenza, così come la leggiamo, sembra avere più interlocutori; parla ai giudici nazionali, ammonendoli circa la contrarietà alla Convenzione di certe interpretazioni, rigide e assiomatiche, che escludano in linea di principio qualsiasi contemperamento tra le scriminanti "giornalistiche" e beni diversi dall'onore e dalla reputazione. E parla pure al legislatore chiarendo come, la presenza di misure limitative della libertà, in qualunque modo connesse alla funzione giornalistica, rischi sempre di essere in contrasto con i principi che governano la libertà di manifestazione del pensiero.

Sotto il primo profilo, il momento decisivo dell'intera decisione sembra poter essere ricavato dal par. 54 della sentenza: «La Cour relève tout d'abord qu'elle ne saurait accepter l'argument du tribunal de Milan (paragraphe 15 ci-dessus) et de la Cour de cassation (paragraphe 23 ci-dessus) selon lequel la protection des communications relatives à un système informatique ou télématique exclut en principe toute possibilité de mise en balance avec l'exercice de la liberté d'expression».

Da affermazioni di questo tenore pare lecito desumere conclusioni altrettanto chiare: in linea di principio, sembra affermare la Corte, il corretto esercizio del diritto di cronaca, soprattutto quando sia indirizzato alla diffusione di informazioni di primario interesse pubblico, è idoneo a privare del carattere antigiuridico qualsiasi condotta di reato che imponga al giornalista una qualche forma di limitazione.

La giurisprudenza della Corte manifesta coerenza con i propri precedenti, in cui ha ammesso il vaglio di compatibilità con la Convenzione di condanne aventi ad oggetto non solo i reati di diffamazione e ingiuria, ma anche di diffusione di informazioni coperte da segreto istruttorio[2] o di Stato[3] ovvero ancora di "ricettazioni" aventi ad oggetto documenti destinati alla pubblicazione[4].

A queste condizioni, dunque, non sembrano particolarmente in linea con la Convenzione le interpretazioni che fissino un divieto assoluto di divulgazione. Una tendenza, questa, di cui si ha invece traccia nel nostro panorama giurisprudenziale, all'interno del quale si è più volte fatto riferimento a presunte incompatibilità tra il diritto di cronaca in funzione scriminante e una serie di condotte che fossero a quello "strumentali". Un chiaro esempio di quanto si va esponendo è evincibile nello stesso caso Ricci: l'esercizio del diritto di satira, stando al ragionamento compiuto dalla Suprema Corte, agisce «rendendolo penalmente non punibile, sul contenuto della comunicazione diffusa che sia in sè diffamatoria, ma [non può, n.d.r.] rendere non punibile la precedente attività di acquisizione fraudolenta di comunicazioni o di divulgazione illegittima»[5]. Nello stesso senso, è stato affermato, si badi, senza procedere ad alcun bilanciamento, che «l'esercizio del diritto di cronaca non può scriminare il reato di installazione di un apparecchio radioricevente idoneo ad intercettare le trasmissioni della centrale operativa delle forze dell'ordine ex art. 617-bis cod. pen.»[6] o, ancora, come non sia «consentito riconoscere e legittimare l'esercizio del diritto di cronaca quando si esplichi con modalità non permesse dall'ordinamento o, ancor più, quando utilizzi notizie e immagini ottenute in spregio alla norma di legge (cfr. art. 615 bis c.p., comma 2)»[7].

Interpretazioni di questo tipo non colgono nel segno, non solo perché contrarie alla giurisprudenza di Strasburgo, ma anche e soprattutto perché, almeno in teoria, «se quel mezzo [il reato "strumentale", n.d.r.] è indispensabile per conseguire lo scopo, la legge, nel dichiarare legittimo lo scopo, ha implicitamente dichiarato legittimo anche il mezzo»[8].

Un secondo profilo, come anticipato, attiene invece al tipo di previsioni sanzionatorie previste dai singoli ordinamenti per la punizione della condotta illecita del giornalista. Come abbiamo visto, sul punto, la Corte afferma che Ricci, pur non avendo correttamente esercitato il proprio diritto di critica, sia stato nondimeno oggetto di una sanzione eccessiva - quattro mesi e cinque giorni di reclusione - in quanto non proporzionata all'effettivo disvalore del fatto commesso.

Il sistema sanzionatorio, insomma, deve esser sì funzionale alla protezione di altri interessi, ma non può comportare né favorire l'insorgenza del c.d chilling effect, un clima di autocensura alla cui causazione può contribuire, evidentemente, anche il tipo di sanzione prevista («La Cour considér que l'infliction en particulier d'une peine de prison a pu avoir un effet dissuasif significatif», cfr. § 59 della sentenza in commento).

Anche su questo aspetto le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza europea sembrano davvero univoche. Nonostante la maggioranza degli stati aderenti alla Convenzione preveda misure detentive per i reati "giornalistici"[9], lo sforzo della Corte pare andare in senso opposto. Il leading case sul punto è senz'altro Cumpănă e Mazăre c. Romania, cit., nel corpo del quale la Corte ha ritenuto incompatibile con la Convenzione la previsione, pur solo astratta, di misure idonee a disincentivare il giornalista a svolgere serenamente il proprio compito informativo. La pronuncia in questione ha peraltro ricevuto copiose conferme[10] sulla scorta delle quali è desumibile un principio, per alcuni Autori forse addirittura un automatismo[11], per cui, l'applicazione di misure detentive, nello specifico settore dell'informazione, dia luogo alla violazione dell'art. 10 della Convenzione, e ciò a prescindere dall'esame degli altri diritti in gioco[12]. Nessuna tolleranza, a maggior ragione, per le misure detentive effettivamente eseguite, dove la Corte si spinge addirittura a ordinare il rilascio immediato del detenuto[13].

La contrarietà di siffatte misure, poi, non è esclusa neanche dalla circostanza che al giornalista condannato sia concessa - sulla base d'una decisione più o meno "discrezionale" dell'autorità preposta - una qualunque forma di garanzia dall'esecuzione (sia essa la sospensione condizionale della pena, la prescrizione, la grazia ovvero la conversione della pena detentiva in pecuniaria)[14].

La sentenza della Corte, in conclusione, sembra "lanciare" due messaggi. In primo luogo, sancisce un principio - ci par di poter dire - "generale", di grande rilievo, quello per cui il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica non si limiti a scriminare fattispecie di reato per così dire "finali" (come avviene nel caso in cui la pubblicazione, con il suo contenuto, leda onore e reputazione di un individuo), ma acquisti invece una "operatività" ben maggiore, estendendosi - e del pari scriminando - anche condotte in qualche modo "strumentali" alla funzione informativa (si pensi all'acquisto di materiale riservato destinato alla pubblicazione). In secondo luogo, si ribadisce l'inopportunità che le predette condotte siano punite con misure afflittive della libertà personale.

Ancora una volta, in attesa che il legislatore ponga mano alla materia.


[1] Un breve cenno merita al riguardo la dissenting opinion del giudice Işıl KarakaÅŸ, la quale, dopo aver concordato con la maggioranza sul primo "segmento" della verifica, se ne dissocia quanto al secondo, poiché «vu les intérêts en jeu, la sanction imposée au requérant était une mesure proportionnée au but légitime visé». Si tratta tuttavia di una conclusione che, per l'assenza di elementi giustificativi e - come si vedrà - per l'incompatibilità con l'orientamento CEDU dominante, non sembra essere particolarmente "incisiva".

[2] Cfr., C.Edu, 19 gennaio 2010, Laranjeira Marques da Silva c. Portogallo, n. 16983/06. Nello stesso senso, C.Edu, 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania, n. 33348/96.

[3] Sul punto, si rinvia alle riflessioni di C.Edu, 10 dicembre 2007, Stoll c. Svizzera, n. 69698/01.

[4] Cfr., C.Edu, 7 giugno 2007, Dupuis e altri c. Francia, n. 1914/02.

[5] In questi precisi termini, Cass. pen., sez. V, 19 maggio 2005, n. 4011 in Guida dir., 2006, n. 33, p. 67 con nota di C. Malavenda e C. Melzi d'Eril.

[6] Cfr., Cass. pen., sez. V, 2 giugno 2008, n. 40249 in Leggid'Italia.

[7] Così, testualmente, Cass. pen., sez. V, 27 novembre 2008, n. 46509 in Riv. pen., 2009, p. 851.

[8] La chiara indicazione è di V. Cavallo, L'esercizio del diritto nella teoria generale del reato, Napoli, 1939, p. 114.

[9]  Al riguardo, cfr. M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012, p. 184.

[10] Solo per citarne alcune, C.Edu, 6 luglio 2010, Mariapori c. Finlandia, n. 37751/07; C.Edu, 11 giugno 2006, Brasilier c. Francia, n. 71343/01.

[11] Sempre M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, cit., p. 186.

[12] Salvo, forse, per i casi di incitamento all'odio, specie se razziale, cfr. C.Edu, 2 aprile 2009, Kydonis c. Grecia, n. 24444/07.

[13] Senza indugi di sorta, infatti, s'è chiarito come in simili casi «...the respondent State shall secure the applicant's immediate release...», cfr. C.Edu, 22 aprile 2010, Fatullayev c. Azerbaijan, n. 37751/07.

[14] Chiari riferimenti sul punto possono essere rinvenuti in C.Edu, Belpietro c. Italia, 24 settembre 2013, n. 43612/10 in questa Rivista, con nota di A. Giudici. Allo stesso modo, cfr., C.Edu, Cumpănă e Mazăre c. Romania, cit., §116.