ISSN 2039-1676


25 luglio 2013 |

Illegittima, anche per la violenza sessuale di gruppo, la regola di applicazione "obbligatoria" della custodia in carcere

Corte cost., 23 luglio 2013, n. 232, Pres. Gallo, Rel. Lattanzi

1.  Continua implacabile l'opera di demolizione della Corte costituzionale in ordine alla previsione di applicazione «obbligatoria» della custodia in carcere per una serie (sempre più ristretta) di reati. Sono passati pochi giorni dalla pubblicazione della sentenza concernente il trattamento cautelare del sequestro di persona a scopo di estorsione  (n. 213 del 2013, in questa Rivista, con nota di G. Leo, Illegittima, anche per il sequestro di persona a scopo di estorsione, la regola di applicazione «obbligatoria» della custodia in carcere), e già ne viene depositata un'altra, molto significativa sul piano sociale e culturale, perché afferente alla violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies del codice penale).

In realtà, e nonostante il clamore mediatico che sta suscitando, la decisione rappresenta una piana applicazione di principi che la Consulta ha ormai dettagliatamente configurato, con una sequenza ormai cospicua di provvedimenti (per la cui ricostruzione aggiornata può rinviarsi alla nota citata).

Un privo rilievo ha carattere generale, ed attiene ai limiti della interpretazione conforme. Come si ricorderà, si era affacciata nella giurisprudenza comune la tesi che, alla luce delle considerazioni svolte dalla Consulta nelle prime decisioni concernenti il regime di carcerazione «obbligatoria», il comma 3 dell'art. 275 c.p.p. dovesse ormai essere letto come se consentisse l'applicazione di misure alternative alla custodia in carcere, alla sola condizione che nel caso concreto si riscontrassero elementi utili a documentare una ridotta pericolosità dell'interessato. La Corte ha voluto nuovamente ricordare (l'aveva già fatto con la sentenza n. 110 del 2012) che «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale», ribadendo, a proposito della presunzione dettata dall'art. 275, comma 3, che le parziali declaratorie di illegittimità costituzionale della norma sono riferibili solo alle specifiche previsioni incriminatrici cui si riferiscono.

 

2.  Commentando la sentenza n. 213, dello scorso 18 luglio, si erano posti in luce i criteri fondamentali dei quali la Consulta fa applicazione, ormai stabilmente, per valutare la ragionevolezza della presunzione assoluta che dovrebbe reggere, sul piano dei principi costituzionali (artt. 3, 13, primo comma, 27, secondo comma, Cost.), la regola di applicazione «obbligatoria» della custodia in carcere.

Non è decisiva, in primo luogo, la obiettiva gravità del reato (misurata anzitutto sul piano del bene giuridico offeso), che pure è molto marcata in alcuni dei casi già esaminati (dalla stessa violenza sessuale, consumata individualmente all'omicidio volontario, fino alla recentissima deliberazione sul sequestro di persona): altro è la valutazione sociale e giuridica del fatto, cui può conseguire un trattamento sanzionatorio anche molto severo, ed altro è la stima delle esigenze cautelari da proteggere mediante una restrizione preventiva della libertà, che in casi particolari può essere contenuta nonostante la gravità del fatto. Il principio vale a maggior ragione quando la previsione incriminatrice comprende un'area molto vasta di condotte assimilate per una comune direzione d'offesa, e tuttavia molto variamente lesive sul piano materiale, ed anche diversamente sintomatiche circa la determinazione criminale del singolo. Infine, la stessa dimensione pluripersonale del fatto criminoso non è per sé determinante, finanche quando assume i connotati di un vero e proprio vincolo associativo, perché solo la particolare connotazione «mafiosa» di quel vincolo rende fortemente improbabile ogni attenuazione della pericolosità sociale e del rischio per le esigenze processuali di cui all'art. 274 c.p.p. (di qui le ben note pronunce di illegittimità dell'art. 275 c.p.p. anche con riguardo a reato associativi).

 

3. Ebbene, nel caso della violenza sessuale di gruppo  la Corte ha fatto piana applicazione dei criteri indicati, senza che da ciò possa trarsi ogni e pur minima svalutazione del gravissimo significato sociale del fatto.

Il problema del bene giuridico era già stata affrontato e risolto con la sentenza n. 265 del 2010. Viene oggi nuovamente evidenziata quella peculiare ampiezza del concetto di atto sessuale che segna l'intera materia, e provoca questioni anche in punto di proporzionalità del trattamento sanzionatorio. È ovvio che, in una scala che muove da piccoli contatti indesiderati verso l'apice della più crudele violenza, il significato del fatto, anche in termini di capacità criminale, risulta assai variabile. Una variabilità che si riproduce, e si moltiplica, per il caso di violenza pluripersonale. È vero che, in linea generale, la dimensione plurisoggettiva del fatto ne aumenta la gravità. Anche su questo piano però, specie alla luce del severo atteggiamento assunto dalla giurisprudenza circa la nozione di «gruppo», il fatto può scorrere lungo un cursore assai esteso: dalla presenza non del tutto inattiva di una seconda persona nel contesto di un approccio sostanzialmente individuale alla grave violenza esercitata materialmente da un vero e proprio «branco» (che è lo stereotipo verso il quale è orientato l'approccio culturale ed anche legislativo al fenomeno). In altre parole, il «gruppo» che qualifica in senso plurisoggettivo la fattispecie può essere, in singoli casi concreti, qualcosa di occasionale, comunque di molto meno significativo di una associazione e, a maggior ragione, di una organizzazione criminale consolidata.

Si comprende bene come non potesse reggere la presunzione assoluta di inadeguatezza delle misure restrittive diverse dalla carcerazione. Ed infatti la Corte, come al solito, non ha completamente depotenziato  il valore sintomatico del fatto, lasciando in vita una presunzione relativa, che dovrà pur sempre essere superata sulla base di concreti elementi di portata tranquillizzante: illegittimo dunque l'art. 275, comma 3, c.p.p., nella parte in cui prevedeva «che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari» senza al contempo prevedere  analoga eccezione per «l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».