ISSN 2039-1676


1 giugno 2012 |

Sui limiti del sindacato di costituzionalità delle previsioni sanzionatorie, in un caso concernente le pene accessorie interdittive per il reato di bancarotta fraudolenta

Corte cost., 31 maggio 2012, n. 134, Pres. Quaranta, Rel. Napolitano (inammissibile una questione di legittimità costituzionale concernente la durata "fissa" decennale, a norma dell'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, delle pene accessorie previste per la bancarotta fraudolenta)

1. La Corte costituzionale conferma la propria giurisprudenza circa i limiti del sindacato di costituzionalità sul trattamento sanzionatorio degli illeciti penali, quando il petitum dei rimettenti tende a  rimodulare l'entità del medesimo trattamento.

Secondo la Corte, infatti, rientra nella discrezionalità del legislatore sia l'individuazione delle condotte punibili, sia la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, con la conseguenza che tale discrezionalità può essere oggetto di censura, in sede di scrutinio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto o arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio.

La vicenda definita con la sentenza in commento ha origine da due ordinanze di rimessione, rispettivamente della Corte d'Appello di Trieste e della Corte di Cassazione, con le quali era stata sollevata una questione di costituzionalità in ordine all'ultimo comma dell'art. 216 della legge fallimentare.

Tale ultimo comma, com'è noto, prevede che « per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni ».

Entrambi i rimettenti preliminarmente avevano chiarito di essere ben consapevoli dell'orientamento recentemente sviluppatosi in seno alla Corte di Cassazione secondo il quale è possibile una lettura «costituzionalmente orientata» dell'ultimo comma dell'art 216 legge fallimentare. In particolare, nell'ordinanza della Corte di Cassazione era stata ricostruita accuratamente l'evoluzione interpretativa della norma in esame.

L'orientamento tradizionalmente seguito dai giudici di legittimità in tema di bancarotta fraudolenta (rilevabile sin da Cass., sez. V, 16 ottobre 1973, n. 690, Tonarelli, in C.E.D. Cass., n. 126018) è sempre stato nel senso che la pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di imprese commerciali ed della incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sia fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni. Pertanto, non trattandosi di pena indeterminata, la sua durata si sottrarrebbe alla disciplina disposta dall'art. 37 cod. pen. Tuttavia, a fronte di tale giurisprudenza consolidata, recenti sentenze (Cass., sez. V, 22 gennaio 2010, n. 9672, Tonizzo, ivi, n. 246891; Cass., sez. V, 31 marzo 2010, n. 23720, Travaini, in Guida dir. 2010, 29, 67, con nota di R. Bricchetti, Al giudice il compito di prendere la decisione usando come parametro la pena principale) hanno ritenuto che la fissità della sanzione accessoria contrasti con il «volto costituzionale» dell'illecito penale, e che il sistema normativo debba lasciare, comunque, adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, al fine di permettere l'adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete.

Nondimeno, il collegio rimettente della stessa Corte di cassazione, al pari della Corte d'appello di Trieste, avevano affermato di non poter aderire a quest'ultima interpretazione, pur fondata su esigenze di equità e di conformità a Costituzione, perché la lettera della legge è chiarissima nel senso di prevedere una pena accessoria fissa della durata di dieci anni. Tale convincimento è stato ulteriormente rafforzato dal confronto con la differente espressione letterale: «fino a», usata dal legislatore nel determinare l'entità della pena accessoria in ordine al delitto di bancarotta semplice di cui all'art. 217, ultimo comma, legge fallimentare.

Secondo le Corti rimettenti, pertanto, sarebbe spettata alla Corte costituzionale la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, non essendo possibile altra interpretazione al di fuori da quella che emerge dalla lettera della legge.

I motivi di non manifesta infondatezza della questione sollevata sono sinteticamente riassumibili nella tendenziale contrarietà al dettato costituzionale delle c.d. pene fisse. In estrema sintesi, si era ritenuto che la determinazione dell'entità della pena accessoria del delitto di bancarotta fraudolenta in misura fissa a fronte del variare della situazione concreta, determinasse una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti,  e difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale. Inoltre una pena accessoria di durata decennale non sarebbe conforme alle esigenze di rieducazione e reinserimento sociale del condannato quale membro economicamente attivo della società.

 

2. La Corte costituzionale, invece, ha ritenuto inammissibile la questione, confermando il proprio tradizionale orientamento secondo il quale sono inammissibili le questioni relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato (ord. n. 293 del 2008).

Secondo il Giudice delle leggi,  entrambi i rimettenti avevano chiesto in buona sostanza di aggiungere le parole «fino a» all'ultimo comma dell'art. 216 legge fallimentare, in modo da rendere applicabile l'art. 37 del cod. pen., secondo cui: «quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria».

La Corte costituzionale ha rilevato come questa sia solo una delle possibili soluzioni astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione. Infatti sarebbe possibile anche prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni), oppure immaginare un diverso rapporto tra pena principale e pena accessoria, differente da quello di cui all'art. 37 cod. pen.

D'altra parte,  come accennato, la Corte costituzionale aveva già posto in evidenza più volte che il sindacato di costituzionalità può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, e sempre che ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le pronunce più recenti, sentenze n. 325 del 2005 e n. 364 del 2004; ordinanze numeri 158 e 364 del 2004). In sintesi, occorre un tertium comparationis che consenta di identificare una «strada obbligata» di intervento sulla norma che pure sia considerata censurabile. Se non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, quand'anche si rilevasse una sproporzione sanzionatoria, un eventuale intervento di riequilibrio della Corte costituzionale medesima non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituirsi alla valutazione discrezionale che spetta al legislatore.

 

3. Dalla lettura della sentenza emergono due ulteriori aspetti interessanti.

Il primo attiene alla premessa compiuta dalla Corte costituzionale circa l'esigenza di precisazioni e chiarimenti legislativi  in relazione a tutto il tema relativo alle pene accessorie. Non è la prima volta che in una pronuncia della Corte viene ribadita l'opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie che lo renda pienamente compatibile con l'art. 27 Cost. (ord. n. 293 del 2008 e sentenza n. 183 del 1986) e, si potrebbe aggiungere, con i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Il secondo aspetto interessante riguarda, invece, il merito della questione. Infatti, a ben vedere, nel caso la Corte costituzionale avesse ritenuto ammissibile la questione, non sarebbe stata affatto scontata una pronuncia di fondatezza e, anzi, dai precedenti rinvenibili si dovrebbe desumere una soluzione opposta.

La questione principale posta dalla Corte d'Appello di Trieste a dalla Corte di Cassazione era relativa alla fissità della pena accessoria di cui all'ultimo comma dell'art. 216 legge fallimentare. In altre occasioni la Corte aveva risposto a censure analoghe affermando che la tendenziale contrarietà delle pene fisse al «volto costituzionale» dell'illecito penale deve intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso: non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell'adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete.

In altri termini, secondo alcuni precedenti della Corte costituzionale, il trattamento sanzionatorio che segue ad un determinato fatto costituente reato deve essere considerato nel suo insieme e non può essere parcellizzato o frazionato nei tanti elementi che lo compongono (in tal senso si vedano l'ord. n. 91 del 2008 e l'ord. n. 475 del 2002). In tali occasioni la Corte ha affermato che i limiti costituzionali alla previsione di risposte punitive rigide - evidenziati con la sentenza n. 50 del 1980 - non vengono in rilievo allorché sia possibile graduare la pena detentiva comminata congiuntamente ad un'altra pena che è predeterminata in misura fissa.

In applicazione di tali principi la Corte costituzionale avrebbe potuto ritenere che il trattamento sanzionatorio del delitto di bancarotta fraudolenta già consente al giudice un margine di apprezzamento sufficiente perché la sanzione inflitta sia proporzionata alla complessiva considerazione delle peculiarità oggettive e soggettive del caso di specie, potendo egli oscillare tra il minimo e il massimo della pena principale, anche se in tutti i casi è tenuto ad applicare la pena accessoria predeterminata in misura fissa.

In ogni caso, e dato il carattere tutto «processuale» della presa di posizione adottata dalla Consulta,  è probabile che la questione interpretativa circa la possibilità di applicare l'art. 37 cod. pen. all'ultimo comma dell'art. 216 legge fallimentare, visto il contrasto sorto all'interno della Corte di cassazione, si chiuderà con una pronuncia delle Sezioni unite, chiamate a dire una parola "tendenzialmente definitiva" sul punto.