ISSN 2039-1676


13 maggio 2015 |

La Cassazione sul caso Parmalat-Capitalia (e sul ruolo del fallimento nel delitto di bancarotta)

Cass. pen., Sez. V, 5 dicembre 2014 (dep. 15 aprile 2015), n. 15613, Pres. Lombardi, Est. Savani e Pistorelli, Imp. Geronzi e altri

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1. "Attraverso il primo comma dell'art. 216 [l. fall.] il legislatore ha voluto punire condotte che attentano all'integrità della garanzia patrimoniale dei creditori indipendentemente dalla loro effettiva incidenza causale sulla determinazione del fallimento, ancorché sul piano fattuale, ben possano registrarsi (e invero frequentemente si registrano) casi in cui le condotte normotipo effettivamente determinino il dissesto dell'impresa".

Questo il principio di diritto enucleato dalla quinta sezione della Cassazione nel § 6.6 della sentenza qui pubblicata che, in conformità al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, afferma con vigore l'irrilevanza del nesso causale tra le condotte di bancarotta e la dichiarazione di fallimento. La Corte si pone in consapevole dissenso rispetto al recente revirement, ad opera della stessa quinta sezione, secondo cui la dichiarazione di fallimento costituisce l'evento del reato di bancarotta fraudolenta (Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012 (dep. 6 dicembre 2012), n. 47502, Pres. Zecca, Est. Demarchi Albengo, Imp. Corvetta e a., con nota di Viganò, Una sentenza controcorrente della Cassazione in materia di bancarotta fraudolenta: necessaria la prova del nesso causale e del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento, in questa Rivista, 14 gennaio 2013).

 

2. In estrema sintesi, il caso di specie oggetto della pronuncia in commento riguarda un filone di indagini sorto dalla nota vicenda del crac della società Parmalat e delle numerose altre società ad essa correlate e riconducibili all'imprenditore Tanzi. In particolare, i giudici del merito avevano asserito che gli allora vertici del gruppo Capitalia - tra i quali Geronzi e Arpe -, al fine di realizzare interessi economici della banca, avessero consapevolmente collaborato alla (e in sostanza istigato la) ideazione ed esecuzione da parte di Tanzi di un'attività distrattiva dal patrimonio di Parmalat di fondi (apparentemente) erogati alla società emiliana attraverso un prestito bridge di 50 milioni di euro. La Corte di merito aveva sussunto i fatti della complessa vicenda finanziaria nelle fattispecie di:

(i) bancarotta fraudolenta patrimoniale, quanto alla condotta di distrazione della provvista fornita da Banca di Roma (banca facente parte del gruppo Capitalia) a Parmalat (erogazione in realtà utilizzata per finanziare altre società del gruppo Parmalat affinché provvedessero all'acquisto dell'azienda Ciappazzi, a sua volta debitrice della banca);

(ii) bancarotta fraudolenta impropria ai sensi dell'art. 223 co. 2, n. 2, l. fall., consistendo le operazioni dolose produttive del fallimento del gruppo Parmalat nell'aver prorogato il suddetto prestito, peraltro a condizioni ancora più onerose;

(iii) bancarotta fraudolenta impropria da reato societario in riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2632 c.c., quanto alla operazione di capitalizzazione di Parmatour.

 

3. In via preliminare, va segnalato che il collegio non accoglie le eccezioni di illegittimità costituzionale dell'art. 223 l. fall. sollevate da uno dei ricorrenti.

E' innanzitutto dichiarata infondata la presunta violazione dell'art. 25 Cost. La S.C. ritiene infatti che il legislatore abbia ricostruito la fattispecie di cui all'art. 223 co. 2, n. 2, l. fall. ricorrendo ad indici terminologici sufficientemente determinati. Invero, il riferimento alle "operazioni dolose" deve essere letto in stretta correlazione alle funzioni proprie dei soggetti attivi tipizzati dalla norma incriminatrice.

In secondo luogo, è superato altresì l'eventuale contrasto tra l'art. 27 c. 3 Cost. e la previsione in misura fissa di dieci anni della pena accessoria - di cui al combinato disposto tra ult. co. dell'art. 216 e ult. co. dell'art. 223 l. fall. - alla luce di quanto già affermato nella sentenza n. 134/2012 della Corte costituzionale (pubblicata, in questa Rivista, con nota di Varrone, Sui limiti del sindacato di costituzionalità delle previsioni sanzionatorie, in un caso concernente le pene accessorie interdittive per il reato di bancarotta fraudolenta, 1 giugno 2012). Quest'ultima, infatti, nel risolvere la medesima questione, statuisce che trattasi di materia riservata alla discrezionalità del legislatore e per sindacare la quale la Consulta dovrebbe ricorrere ad una pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato, e quindi contraria ai principi che governano il potere di intervento del Giudice delle leggi (sulla questione, Chiaraviglio, Quale la durata delle pene accessorie per il bancarottiere fraudolento?, in questa Rivista, 18 febbraio 2015).

 

4. Dopo aver fugato i dubbi sulle pregiudiziali di costituzionalità, la S.C. affronta funditus le censure di carattere sostanziale comuni a tutti i ricorrenti e propone soluzioni ampiamente argomentate in relazione a decisivi problemi sull'applicazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta, sia propria che impropria.

Ne deriva, dunque, una sentenza particolarmente interessante per lo studioso del diritto penale sostanziale.

 

5. Come già anticipato in apertura, la principale questione affrontata riguarda la vexata quaestio circa il ruolo che assume il fallimento (rectius la sentenza dichiarativa di fallimento) nella struttura del reato di bancarotta fraudolenta.

I ricorrenti infatti, affidando per lo più le loro impugnazioni alla riproposizione degli argomenti elaborati dalla sentenza Corvetta (Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, cit.), sostenevano che il fallimento deve essere qualificato come evento del reato e, di conseguenza, affermavano la necessità della prova del nesso causale e del dolo tra condotta e dichiarazione di fallimento.

Di tutta risposta la Corte, prima di confrontarsi con le argomentazioni fondanti la pronuncia Corvetta, opera una dettagliata ricostruzione dell'orientamento tradizionale sviluppatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità.

Innanzi tutto si sottolinea come, pur qualificando con accezioni diverse nel tempo la sentenza dichiarativa di fallimento - condizione di esistenza del reato (Cass., Sez. un., 25 gennaio 1958, n. 2, Mezzo); elemento indispensabile per attribuire rilevanza penale a condotte altrimenti lecite (ex multis, Cass., Sez. I 16 novembre 2000, n. 4356/2001, Agostini); elemento costitutivo del reato (Cass., Sez. V, 12 ottobre 2004, Rossi e altro); elemento costitutivo del reato in senso improprio (Cass., Sez. V, 7 maggio 2014, Daccò) - la S.C. ha sempre ritenuto che essa costituisca un elemento costitutivo del reato, senza per ciò identificarla come evento in senso tecnico. Tanto è vero che, in giurisprudenza, non ha neanche mai assunto consistenza la riconducibilità di tale elemento nella distinta categoria delle condizioni obiettive di punibilità, tesi invece ampiamente sostenuta in dottrina.

In secondo luogo, si evidenzia come la giurisprudenza di legittimità sia altrettanto ferma nel considerare la dichiarazione di fallimento svincolata dal dolo necessario per la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta.

 

 

5.1. Tanto premesso circa l'univoca direzione assunta dalla Cassazione, la pronuncia in oggetto si pone in diretta correlazione dialogica con la sentenza Corvetta - unico arresto ad aver prospettato una diversa impostazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta - e ne contesta, punto per punto, il percorso argomentativo (per una disamina del confronto tra la precedente sentenza Cass., Sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi e a. e la pronuncia Corvetta v. Balato, Sentenze Parmalat vs Corvetta: il dilemma della struttura della bancarotta fraudolenta, in questa Rivista, 16 febbraio 2015).

a) La prima di tali obiezioni apostrofa quale sillogismo fallace il principio di diritto, elaborato dalla sentenza Corvetta, secondo cui il fallimento, in ottemperanza agli artt. 40 e 41 c.p., deve essere legato alla condotta in quanto evento del reato.

"Infatti, la premessa minore ('il fallimento costituisce "evento" del reato di bancarotta') è a ben vedere tautologica, non essendo offerta alcuna dimostrazione del perché la dichiarazione giudiziale di insolvenza sia da ritenere "evento" (termine medio del sillogismo) della bancarotta, ergo soggetto alla regola enunciata dalla premessa maggiore ('l'"evento" del reato è conseguenza della condotta secondo il nesso eziologico ex artt. 40 e 41 c.p.'), così da giungere alla conclusione per cui tra condotta di bancarotta e fallimento debba sussistere il nesso eziologico ex artt. 40 e 41 c.p." (§ 6.5.1).

b) Un'ulteriore critica si fonda sul dato letterale. Invero, mentre l'art. 223, co. 2, nn. 1 e 2, l. fall. (al pari degli artt. 217 n. 4 e 224 n. 2) esplicita la necessaria sussistenza del nesso eziologico tra le condotte di bancarotta e il fallimento (ovvero il dissesto) attraverso il ricorso all'uso del verbo "cagionare", per converso nell'art. 216 co. 1 l. fall. non si scorge alcun riferimento all'esigenza di una dipendenza causale tra condotta e provvedimento giurisdizionale.

Peraltro, secondo la sentenza Corvetta, la conformazione causale delle ipotesi previste dal co. 2 dell'art. 223 l. fall. sarebbe da estendere, in via interpretativa, anche alle altre fattispecie di bancarotta. Ma una tale tesi, a parere della Corte, è meramente assertiva e non giustificata dalla lettera della norma.

c) Inoltre, sostiene la S.C., l'impostazione della sentenza Corvetta si fonderebbe su un'aporia terminologica consistente nel considerare alla stregua di sinonimi la 'sentenza dichiarativa di fallimento', il 'fallimento' e il 'dissesto'. Invece, tali distinzioni terminologiche spiegano una significativa scelta del legislatore: mentre le prime due espressioni si riferiscono al provvedimento giurisdizionale e alla situazione sostanziale che ne costituisce il presupposto "che non ammette alternativa tra essere e non essere", al contrario il 'dissesto' è un "dato quantitativo, graduabile, suscettibile di essere cagionato sia nell'an che nel quantum".

d) Tale aporia terminologica sarebbe alla base dell'errore compiuto dalla sentenza Corvetta nel considerare alla stregua di nozioni fungibili il "dissesto" e la "dichiarazione di fallimento". Al contrario, richiamando l'insegnamento delle Sezioni unite (Cass., Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli), si evidenzia che "nella struttura dei reati di bancarotta la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale".

e) Per di più la S.C. rileva che, qualificando il dissesto quale evento del reato, si arriverebbe al risultato paradossale di non includere nell'ambito di applicazione dell'art. 216 l. fall. quei comportamenti (diffusi e pericolosi) che, pur non contribuendo a causare il dissesto, tuttavia ledono gli interessi dei creditori prima dell'intervento della dichiarazione di fallimento.

f) Infine, si sottolinea altresì che considerare la dichiarazione giudiziale di insolvenza alla stregua dell'evento del reato non è concepibile rispetto alla fattispecie di bancarotta prefallimentare documentale. A nulla varrebbero i tentativi della sentenza Corvetta di giustificare l'aporia ricorrendo all'individuazione di una diversa funzione da attribuirsi alla dichiarazione nella bancarotta documentale. Infatti, "a confutazione (...) è agevole osservare come (...) la forma sintattica adottata nell'ancipite previsione normativa - nella quale è posta in comune (...) l'espressione 'se è dichiarato fallito' - non consenta di differenziare le due ipotesi criminose dal punto di vista della struttura del reato".

 

5.2. Non è tutto: la Corte non si limita a ricostruire l'orientamento tradizionale, o a precisare i motivi per cui non condivide l'indirizzo contrario, ma tenta altresì di fornire un ulteriore apporto giustificativo della correttezza dell'orientamento cui mostra di aderire.

Sul punto, visto il rilievo assunto rispetto alla soluzione prospettata, vale la pena richiamare le parole della Corte:

"va (...) chiarito come il genuino significato dell'orientamento giurisprudenziale che si è visto largamente maggioritario sia quello per cui, se la dichiarazione di fallimento attribuisce rilevanza penale alle condotte contemplate dall'art. 216 (essendo al pari di tutti gli elementi della fattispecie uno dei presupposti di tale rilevanza), non per questo può essergli attribuita anche un'efficacia - per di più retrospettiva - qualificante dei fatti di bancarotta sul piano dell'illiceità o addirittura della tipicità. Deve insomma ribadirsi - come da tempo affermato dalla più autorevole dottrina - che le condotte incriminate non sono prive di autonomo disvalore, anche prima della declaratoria giudiziale del fallimento. Conclusione questa che è suggerita dalla loro stessa configurazione normativa. Infatti, termini come 'distrarre', 'dissipare', 'occultare', 'distruggere', 'dissimulare', o locuzioni come 'esporre passività inesistenti' (...) appaiono impregnati di una evidente connotazione negativa, rivelando l'intenzione del legislatore di selezionare per l'incriminazione soltanto comportamenti che, in quanto evocativi di una anomala gestione dell'impresa, risultino intrinsecamente idonei a mettere in pericolo l'interesse dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c. violando il relativo dovere gravante sull'imprenditore. (...)

In definitiva il disvalore intrinseco delle condotte tipizzate deve essere ricostruito in ragione della tutela penale del diritto di credito, che non è sintonizzato sul mero inadempimento, bensì sulla responsabilità patrimoniale del debitore. Ed è in tale prospettiva che può dunque ritenersi che il fallimento non determini in maniera autonoma l'offesa, ma, per l'appunto, la renda attuale e meritevole di pena. Per converso l'esposizione a pericolo dell'interesse dei creditori diviene connotato di tipicità della condotta proprio in ragione della funzione che la dichiarazione di fallimento assume nella struttura della fattispecie. L'esito concorsuale va dunque inteso non quale progressione dell'offesa, bensì come prospettiva nella quale deve essere valutata l'effettiva offensività della condotta. In altri termini il fallimento non trasforma la bancarotta in reato di danno, giacché lo stesso non costituisce oggetto di rimprovero e non consegue necessariamente alla consumazione delle condotte incriminate, le quali vengono punite per il solo fatto di aver esposto a pericolo l'integrità della garanzia patrimoniale, indipendentemente da quello che sarà poi l'effettivo esito della procedura concorsuale, del quale, infatti, la norma incriminatrice si disinteressa. E conferma della correttezza di tale impostazione può trarsi dall'art. 219, che in funzione aggravante o attenuante considera il danno patrimoniale, il quale, ancorché misurato al tempo del fallimento, è solo quello che consegue ai fatti di bancarotta. Non di meno, a dimostrazione della correttezza dell'impostazione accolta, può evocarsi la disciplina sull'esercizio dell'azione penale dettata dall'art. 238 legge fall., che rende evidente come il disvalore delle condotte incriminate persista alla declaratoria del fallimento.

In tal senso la selezione dei comportamenti da considerare conformi al tipo descritto dal legislatore deve avvenire già sul piano oggettivo - e non solo su quello soggettivo - attraverso la verifica della idoneità degli stessi a pregiudicare l'integrità della garanzia patrimoniale; mentre sotto il profilo soggettivo tale idoneità deve essere quantomeno rappresentabile da parte dell'agente, anche quando egli non agisca con l'obiettivo di recare pregiudizio ai creditori, finalità invero non richiesta per la sussistenza del reato di bancarotta patrimoniale quantomeno con riguardo alla fattispecie descritta nella prima parte dell'art. 216 l. fall." (§ 6.6.3 - 6.6.5).

 

6. La questione appena esaminata costituisce il presupposto logico necessario per affrontare la seconda pregiudiziale sostanziale avverso il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

I ricorrenti, infatti, lamentavano che la sentenza impugnata avrebbe errato nell'escludere che la consapevolezza del dissesto sia elemento costitutivo del dolo dell'extraneus concorrente in tale delitto. L'assunto è, ancora una volta, affermato in forza della tesi sostenuta dalla sentenza Corvetta secondo la quale, essendo il dissesto un elemento costitutivo del reato, esso non può che ritenersi soggetto alle regole generali di cui agli artt. 42-43 c.p.

Tuttavia, come visto, ad avviso del collegio occorre sia distinguere il concetto di "dissesto" dal provvedimento giurisdizionale che certifica lo stato d'insolvenza, sia considerare che la corretta funzione della dichiarazione di fallimento è quella di "elemento qualificante dell'offesa propria del reato".

Ne consegue che il dissesto non costituisce elemento oggetto del dolo del reato di bancarotta fraudolenta, tantomeno - secondo le regole generali sul concorso di persona - può rientrare nel fuoco del dolo del concorrente esterno.

In definitiva, "il dolo dell'extraneus si risolve nella consapevolezza di concorrere nella sottrazione dei beni alla funzione di garanzia delle ragioni dei creditori per scopi diversi da quelli inerenti all'attività di impresa, immediatamente percepibile dal concorrente esterno, come produttivo del pericolo per l'effettività di tale garanzia nell'eventualità di una procedura concorsuale, a prescindere dalla conoscenza della condizione di insolvenza" (§ 7.3).

Sempre a proposito del profilo soggettivo, la S.C. tiene a sottolineare che escludere il dissesto dall'oggetto del dolo non significa affermare la responsabilità del concorrente esterno a titolo di mera responsabilità oggettiva, dal momento che la pericolosità della condotta distrattiva cui il concorrente contribuisce ben può apparire da fattori diversi quali, ad esempio, la natura fittizia o l'entità dell'operazione che incide sul patrimonio sociale ai danni dei creditori.

 

7. Ulteriore quaestio iuris su cui si sofferma la sentenza in oggetto è quella relativa al concorso tra la bancarotta fraudolenta patrimoniale e la bancarotta impropria da operazioni dolose ex art. 223, co. 2, n. 2, l. fall.

Il collegio si limita a richiamare il costante orientamento di legittimità secondo cui le due fattispecie hanno ambiti di applicazione diversi "postulando il primo il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; concernendo invece il secondo condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività, ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 legge fall., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali - concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società - siano stati causa del fallimento (ex multis, Sez. V, n. 24051 del 15 maggio 2014, Lorenzini e altro)" (§ 8).

La Cassazione, pur riconoscendo che i giudici di merito hanno correttamente fatto riferimento a tale impostazione, ne censura l'applicazione relativamente ad una porzione dei fatti oggetto di causa. Invero, la Corte d'Appello aveva ritenuto di qualificare quali azioni distinte, sia sul piano naturalistico che di qualificazione giuridica, l'erogazione del finanziamento bridge a Parmalat e la successiva distrazione dal patrimonio di questa a quello di altre società.

Invece, secondo la S.C., le due condotte naturalisticamente distinte non sono altro che due passaggi di un'unica condotta distrattiva.

Dunque, il fatto di erogazione del prestito deve ritenersi contenuto nella successiva distrazione e il corrispondente reato di bancarotta impropria da operazioni dolose assorbito in quello di bancarotta per distrazione. Di qui l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di merito limitatamente alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

 

8. Altra questione sottoposta al vaglio di legittimità attiene all'ubi consistam dell'evento dei reati di bancarotta impropria da reato societario (art. 223, co. 2, n. 1, l. fall.) e dell'evento dei reati di bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223, co. 2, n. 2, l. fall.). I ricorrenti lamentavano infatti che l'evento di tali fattispecie sarebbe da identificare nel "fallimento" e non invece nel "dissesto" della società.

Ancora una volta la soluzione del problema investe il corretto significato da attribuire al termine "fallimento" utilizzato dal legislatore. Rileva infatti la Corte che, mentre - come si è visto - l'art. 216 l. fall. fa riferimento al "fallimento" in senso formale (ossia al provvedimento giurisdizionale), l'art. 223 l. fall. fa riferimento al "fallimento" in senso sostanziale, cioè alla "situazione obiettiva di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dal suo ceto gestorio".

Infatti, se per "fallimento" nell'art. 223 l. fall. non si intendesse la situazione sostanziale di dissesto in cui versa la società, si avrebbe una inutile duplicazione del riferimento alla dichiarazione di insolvenza già contenuto nel rinvio che la norma fa all'art. 216 l. fall.

Inoltre, poiché l'art. 223 l. fall. richiede la sussistenza del nesso causale tra condotta e fallimento, estremo della relazione eziologica - per quanto visto nei paragrafi precedenti - deve essere proprio il dissesto, e non il provvedimento giurisdizionale che accerta il fallimento.

 

8.1. Sotto altro profilo, le difese degli imputati ritengono che l'art. 223 l. fall. non incrimini il mero aggravamento della situazione di decozione, bensì la causazione stessa del dissesto. Tesi che troverebbe fondamento nella diversa formulazione letterale tra l'art. 223 e l'art. 224 l. fall.

Tuttavia, anche tale censura è respinta. Infatti, il collegio argomenta che a sostegno della punibilità (anche) della condotta di aggravamento depongono sia la disciplina generale sul concorso di cause dettata dall'art. 41 c.p., sia la fenomenologia stessa del dissesto, in quanto è situazione che non si verifica istantaneamente ma con progressione e durata nel tempo.

 

9. Così riepilogate le questioni giuridiche salienti esaminate dalla sentenza, pare opportuno ritornare (in breve e compatibilmente con le caratteristiche del presente elaborato) sul punto nodale: il ruolo che assume la sentenza dichiarativa di fallimento nella struttura del reato di bancarotta fraudolenta.

Come detto, la Corte afferma espressamente di aderire all'orientamento tradizionale secondo cui la fattispecie prevista dal primo comma dell'art. 216 l. fall. è "reato di condotta e di pericolo, sorretto dal dolo generico, al cui oggetto rimarrebbe estranea non solo la sentenza dichiarativa, ma anche solo lo stato d'insolvenza o il dissesto che ne costituiscono il presupposto".

In tale quadro, il collegio nega altresì la necessità del legame causale tra le condotte alternative tipizzate e la dichiarazione giudiziale di fallimento, e - nel tentativo di dare a quest'ultima una copertura dogmatica all'interno delle categorie in cui si scompone la struttura del reato - la qualifica quale "elemento orientativo dell'offesa di pericolo tipica del reato di bancarotta fraudolenta". Tipicità che si evincerebbe dal disvalore intrinseco delle condotte ricostruito in ragione dell'oggetto della tutela penale del diritto di credito.

Diversamente, a partire dalla stessa premessa ["i comportamenti tipizzati nelle fattispecie di bancarotta esprimono compiutamente - nel momento stesso della loro realizzazione - il disvalore penale, inteso propriamente come l'offesa arrecata al bene giuridico tutelato (la garanzia dei creditori)", così Mucciarelli, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi?, in questa Rivista, 23 febbraio 2015], la dottrina ampiamente maggioritaria giunge a conclusioni contrarie, invero attribuisce alla dichiarazione di fallimento la diversa qualifica di condizione obiettiva di punibilità in quanto essa "entra nella fattispecie non perché fondi o incrementi il disvalore intrinseco nei fatti di bancarotta, ma per mere ragioni di opportunità (...) la dichiarazione di fallimento nulla aggiunge all'offesa alle ragioni creditorie già insita nei fatti di bancarotta" (Pedrazzi, Reati fallimentari, in Pedrazzi-Alessandri-Foffani-Seminara-Spagnolo, Manuale di diritto penale dell'impresa, II ed. agg., 1998, 108).

Dunque, alla lettura di questa sentenza si ripropone l'interrogativo circa la reale incolmabilità del divario fra teoria e prassi (Mucciarelli, op. cit.). Viene infatti spontaneo chiedersi quale sia la reale posta in gioco che spinge la giurisprudenza ad essere così restìa a qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità. E' indubbio che su tale atteggiamento incida l'esigenza di individuazione del tempus e locus commissi delicti.

Ma, a ben vedere, quanto alla decorrenza del termine di prescrizione, l'art. 158, co. 2, c.p. statuisce che "quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata." Per converso, manca una disposizione normativa che dia soluzione alla questione relativa alla determinazione del luogo in cui radicare la competenza del giudice penale nei casi in cui la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione. In relazione a questo secondo profilo, qualificando la sentenza dichiarativa d'insolvenza alla stregua di condizione obiettiva di punibilità, si porrebbero problemi di non pronta soluzione. Si noti però che la dottrina risolve la questione giungendo ugualmente (seppur per diverse vie) a considerare il locus commissi delicti nel luogo in cui è stata emessa tale sentenza (Mucciarelli, op. cit.).

Tuttavia, la necessità di risolvere problemi pratici non può giustificare il ricorso a costruzioni teoriche che non trovano corrispondenza sotto il profilo dogmatico. La Corte di cassazione, invece, da più di mezzo secolo - a partire dalla sentenza Mezzo del 1958 (Cass., Sez. un., 25 gennaio 1958, n. 2, Mezzo, cit.) - propone oscillanti forme di qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento (v. § 5). Ma proprio la difficoltà di individuare una chiara qualificazione giuridica e il ricorso a definizioni diverse nel tempo (da ultimo, in questa sentenza, quella di "elemento che orienta l'offesa") sono indici della mancata determinazione di un indirizzo coerente sul piano sistematico.

In definitiva, appare poco plausibile sostenere che la sentenza dichiarativa di fallimento abbia natura di elemento costitutivo del reato ma che essa non soggiaccia alle regole generali sull'imputazione oggettiva e soggettiva poste dal codice penale. La Cassazione sembra introdurre la categoria giuridica dell'"elemento costitutivo del reato che non è oggetto del dolo". Ma tale operazione non appare concepibile poiché si tratta di una teorizzazione ad hoc di una nuova categoria generale a cui ricondurre un'unica e sola ipotesi (la sentenza dichiarativa di fallimento necessaria alla punibilità del reato di bancarotta). Per di più, si tratta di categoria che pone evidenti criticità di rilievo costituzionale, sol che si pensi ai noti principi elaborati dalla Consulta a partire dalle celebri sentenze nn. 364 e 1085 del 1988.

Pertanto, delle due l'una: o la sentenza dichiarativa di fallimento è l'evento in senso tecnico del reato (causalmente connesso alla condotta dell'agente ed oggetto del dolo), ovvero è una condizione obiettiva di punibilità. Dato che la Corte stessa - con ampia e condivisibile argomentazione - nega la prima soluzione, non resta che optare per la seconda delle due alternative.

Certi che questo e altri profili problematici saranno presto oggetto di più meditati commenti sulle pagine di questa Rivista, constatiamo che la pronuncia esaminata ha tarpato le ali alla prima coraggiosa rondine primaverile (cfr. Viganò, op. cit., in riferimento alla sentenza Corvetta) e - collocandosi quale ideale epilogo della trilogia apertasi lo scorso anno con le sentenze Daccò (Cass., Sez. V, 7 maggio 2014, n. 32031, cit.) e Tanzi (Cass., Sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352, cit.) - sembra aver chiuso le porte, quanto meno allo stato attuale, ad un (auspicabile) intervento delle Sezioni unite.