ISSN 2039-1676


18 febbraio 2015 |

Quale la durata delle pene accessorie per il bancarottiere fraudolento?

Cass. pen., sez. V, ud. 19.9.2014 (dep. 9.12.2014), n. 51095, Pres. Savani, Rel. Positano

1. Nella sentenza che si segnala, la Cassazione affronta il tema della legittimità della quantificazione fissa delle pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta, stabilite in dieci anni di inabilitazione all'esercizio di attività commerciale e nell'incapacità, per lo stesso tempo, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

Nel caso di specie, all'esito di giudizio abbreviato, l'imputato era condannato alla pena di due anni di reclusione, oltre pene accessorie nella misura di legge, per due distinte ipotesi di bancarotta societaria. La competente Corte d'Appello confermava la condanna.

Avverso la sentenza d'appello veniva, quindi, proposto ricorso in Cassazione, lamentando la mancata applicazione dell'art. 37 c.p. che, come noto, stabilisce l'equivalenza temporale fra pene accessorie temporanee, nel caso la legge non ne preveda espressamente la durata, e pene principali concretamente irrogate.

 

2. La possibilità che, optimo iure, il giudice infligga una pena accessoria di durata fissa contestualmente alla pena della reclusione prevista per tutte le ipotesi di bancarotta fraudolenta è oggetto di un vivace contrasto giurisprudenziale nell'ambito della quinta sezione della Cassazione, di cui la sentenza qui segnalata costituisce l'ultimo capitolo (ma, non necessariamente, l'epilogo).

Secondo un primo orientamento, più risalente, le pene accessorie previste per la bancarotta fraudolenta sono, in realtà, quantificate solo nel massimo e perciò non espressamente determinate dal legislatore, con la conseguenza che le stesse debbano avere una durata identica alla pena principale inflitta, ex art. 37 c.p. [1]

Questo orientamento si fonda sull'esigenza di conciliare le finalità repressive attuate dal legislatore fallimentare nel 1942 con la tavola dei principi costituzionali, oggi imprescindibili.

Infatti, non solo le sanzioni accessorie in questione sono particolarmente afflittive ed incisive nell'ottica della libertà di iniziativa economica del condannato che abbia già eseguito la pena principale, ma la loro applicazione automatica - indipendentemente dalla misura della pena principale irrogata - può generare una frizione con l'obiettivo di rieducazione della pena e con l'esigenza di reinserimento sociale del condannato. In aggiunta a ciò, anche il principio di uguaglianza viene posto sotto stress, dato che gli stessi dieci anni di inabilitazione ed incapacità possono essere irrogati a seguito della commissione di condotte connotate da diverso disvalore, come testimonia l'ampia forbice sanzionatoria prevista per la per la bancarotta patrimoniale o documentale (da tre a dieci anni) o, addirittura, una cornice edittale sensibilmente minore nel caso della bancarotta preferenziale (da uno a cinque anni).

Alla luce di queste esigenze di armonizzazione, secondo l'orientamento il discussione, è la stessa interpretazione letterale del dettato normativo a suggerire che il legislatore abbia voluto agganciare la durata delle pene accessorie a quella della pena principale, sia per la bancarotta fraudolenta (dieci anni), che per quella semplice (due anni, ai sensi del terzo comma dell'art. 217 l.f.). Pertanto, l'indicazione testuale dell'art. 216 l.f., ove si legge che la pena accessoria è irrogata «per la durata di dieci anni», deve essere intesa come rivelatrice della sola estensione temporale massima, con conseguente applicabilità dell'art. 37 c.p. [2]

 

3. Un secondo orientamento, più recente, ritiene che le pene accessorie previste nell'ultimo comma dell'art. 216 l.f. sfuggano alla disciplina dell'art. 37 c.p. essendo la durata della sanzione predeterminata dal legislatore in misura fissa ed inderogabile [3].

Le ragioni a sostegno di questa tesi sono essenzialmente due.

In primo luogo, vi è il dato letterale dell'art. 216 l.f. che stabilisce che la condanna per uno dei fatti di bancarotta previsti nel medesimo articolo comporta l'applicazione della menzionata pena accessoria «per la durata di dieci anni». Alla luce della formula legislativa utilizzata, secondo l'orientamento in esame, si deve escludere che il legislatore abbia omesso di determinare l'estensione temporale della pena accessoria e, pertanto, non è possibile applicare la regola contenuta nell'art. 37 c.p.

In secondo luogo, vi è il confronto sistematico con l'art. 217 comma 3 l.f. nel quale si stabilisce che la condanna per un fatto di bancarotta semplice importa l'applicazione «fino a due anni» della medesima pena accessoria prevista nell'art. 216 l.f. Questo raffronto fra disposizioni, secondo l'orientamento in discussione, impedisce di interpretare il quarto comma dell'art. 216 l.f. come contenente l'indicazione della misura massima delle sanzioni accessorie, poiché vi sono altre norme della legge fallimentare ove il solo estremo superiore della forchetta sanzionatoria è incontrovertibilmente individuato, come nel caso della bancarotta semplice [4].

 

4. In questa dialettica giurisprudenziale interviene anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 134 del 2012, che pure, tuttavia, non contribuisce a risolvere il contrasto in ragione della dichiarata inammissibilità delle questioni sollevate.

La Corte è chiamata a valutare la legittimità dell'art. 216 comma 4 l.f. in relazione ai parametri costituzionali contenuti negli artt. 27 comma 3 e 3 Cost., su richiesta di due diversi giudici remittenti (uno dei quali era proprio la quinta sezione della Cassazione penale).

In estrema sintesi, i giudici remittenti evidenziano la problematica compatibilità fra le pene accessorie fisse previste nell'art. 216 comma 4 l.f ed i principi costituzionali di uguaglianza e di finalismo rieducativo della pena, ma non ritengono possibile una interpretazione costituzionalmente orientata della citata disposizione. Ciò perché il dato testuale, insuperabile, impedisce di considerare omessa dal legislatore l'indicazione della durata delle sanzioni accessorie.

In questa situazione, l'unica soluzione configurabile, secondo le ordinanze di remissione, consiste nell'intervento della Corte finalizzato ad inserire nel testo del citato comma quarto art. 216 l.f. l'espressione «fino a», in modo da rendere applicabile l'art. 37 c.p. e riportare la disciplina in esame nell'ambito della conformità a Costituzione.

La Corte, però, dichiara inammissibili entrambe le questioni, a causa dello specifico petitum formulato dai giudici rimettenti.

Il Giudice delle leggi - pur sottolineando la difficoltà di conciliare le pene accessorie con i principi costituzionali ed in particolare l'art. 27 comma 3 - ritiene che la sentenza additiva nei termini richiesti non sia l'unico modo per riportare la disciplina in esame nel binario tracciato dalla Costituzione, potendosi in astratto immaginare differenti soluzioni in caso di accoglimento della questione (ad es. inserendo una cornice edittale alle pene accessorie). Pertanto, secondo la Corte, la specifica addizione normativa richiesta, non rappresentando una soluzione costituzionalmente vincolata, preclude una sentenza di accoglimento, la quale costituirebbe l'esercizio di un potere discrezionale affidato esclusivamente al legislatore.

 

5. Nella sentenza che si segnala, la Cassazione prende posizione nel dibattito sopra evocato pur non essendovi un stretta necessità: il motivo di ricorso sulla mancata applicazione dell'art. 37 c.p. alle pene accessorie irrogate è comunque dichiarato inammissibile in ragione della mancata devoluzione della questione al giudice d'appello.

Tuttavia la Corte entra nel merito e, dopo aver dato atto dell'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità ed aver richiamato gli estremi delle sentenze appartenenti ai due filoni contrapposti, sposa l'orientamento più rigoroso.

I giudici della Quinta sezione individuano nella menzionata sentenza della Consulta un argomento a favore dell'interpretazione letterale dell'art. 216 comma 4 l.f. come contenente una pena fissa ed inderogabile: il fatto che la Corte costituzionale non abbia rigettato la questione di legittimità costituirebbe una conferma implicita della tesi in base alla quale l'indicazione della durata delle pene accessorie è stata chiaramente effettuata anche nel quantum dal legislatore fallimentare.

Secondo la Cassazione, quindi, la Corte costituzionale avrebbe potuto dichiarare infondata la questione rimessale se l'art. 216 comma 4 l.f. fosse stato suscettibile di una interpretazione tale da rendere applicabile l'art. 37 c.p., così scongiurando i possibili attriti con i vari principi costituzionali già menzionati. Ma, non essendo ciò avvenuto, se ne deve dedurre che, anche secondo la Consulta, l'interpretazione conforme a Costituzione non è ermeneuticamente praticabile.

La sentenza in esame precisa (anche se tra parentesi) che la previsione di una pena accessoria in misura fissa non lede alcun diritto costituzionalmente protetto.

 

6. Il tema affrontato dalla Cassazione costituisce un esempio delle permanenti esigenze di armonizzazione dello strumentario repressivo del diritto penale del fallimento con il volto costituzionale dell'illecito penale.

Infatti, non sembra pienamente convincente l'assunto presente nella sentenza in esame ove si afferma che la durata fissa ed inderogabile delle sanzioni accessorie per la bancarotta fraudolenta non pone dubbi di compatibilità con i principi costituzionali.

Al contrario, permangono i dubbi già sollevati dalla Corte costituzionale nella menzionata sentenza n. 134/2012, ove si invita il legislatore a porre mano «ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l'art. 27 terzo comma».

Come chiarito dalla Consulta, le problematiche costituzionali delle sanzioni accessorie, nel caso di specie, non riguardano solo lo scopo rieducativo della pena.

In particolare, sembra difficilmente giustificabile la parità di trattamento fra il condannato per bancarotta fraudolenta ed il condannato per bancarotta preferenziale. Stante l'evidente diversità di disvalore associato dal legislatore ai due reati, come testimoniano le diverse cornici edittali della pena principale, appare difficilmente individuabile una ratio sottostante alla scelta politico-criminale di accomunare entrambe le ipotesi dal punto di vista del quantum delle sanzioni accessorie[5].

D'altro canto, non possono sottovalutarsi i problemi relativi all'interpretazione che ritiene applicabile l'art. 37 c.p. all'ultimo comma dell'art. 216 l.f.

Questa strada sembra effettivamente preclusa, anche in ragione della più che verosimile erroneità dell'argomento a favore del superamento della lettera della norma, e cioè il fatto il legislatore in tutte le ipotesi di bancarotta abbia voluto parificare la durata massima delle sanzioni accessorie a quella delle sanzioni principali.

Ed infatti appare evidente che, come appena visto, questa parificazione non sussiste nell'ipotesi della bancarotta preferenziale[6]. Ne consegue che, non essendo possibile ritenere che le pene accessorie per la bancarotta debbano sempre durare quanto quelle principali, non appare effettivamente lecito attribuire all'espressione «per la durata di dieci anni» altro significato che quello di stabilire una durata fissa ed inderogabile.

In questa impasse sembrano solo due le soluzioni ipotizzabili.

La prima consiste nell'auspicabile (ed auspicato) intervento del legislatore; con la poco felice conseguenza che, nel frattempo, si continuerebbe ad applicare una norma indiziata di incostituzionalità da parte del Giudice delle leggi.

La seconda potrebbe essere quella di una richiesta d'intervento della Corte costituzionale finalizzato ad accertare definitivamente la conformità a Costituzione della disciplina in questione, pervenendo, in caso di responso negativo, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 216 comma 4 l.f.

Va rilevato che la caducazione dell'art. 216 comma 4 l.f. non creerebbe un vuoto normativo in relazione alla pena accessoria dell'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualunque impresa. Infatti, in assenza dell'art. 216 comma 4 l.f. sarebbe applicabile la sanzione prevista nell'art. 32 bis c.p. - con contenuti sostanzialmente identici - la cui quantificazione è pacificamente governata dall'art. 37 c.p.

Maggiormente problematica, invece, risulterebbe la sorte della pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale posto che l'art. 32-bis c.p., secondo l'opinione prevalente[7], non disciplina l'ipotesi di interdizione dall'esercizio di attività d'impresa.

Tuttavia, la portata dell'eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 216 comma 4 l.f. in relazione al venir meno di questa particolare forma di inabilitazione può essere ridimensionata osservando che il soggetto condannato per bancarotta (societaria od individuale), pur legittimato ad esercitare attività di imprenditore, potrebbe essere condannato alla pena accessoria dell'interdizione da un professione o da un'arte, ex art. 30 c.p.

Conseguentemente, il soggetto non potrà ottenere autorizzazioni o licenze prescritte per l'esercizio di determinate industrie o commerci nel corso dell'esecuzione di questa pena accessoria (e quelle eventualmente già possedute verranno meno).

In sostanza, in assenza dell'art. 216 comma 4 l.f., l'unica attività d'impresa effettuabile dal condannato per bancarotta sarebbe quella per la quale non sono richiesti permessi o licenze, mentre gli sarebbe comunque preclusa l'assunzione di cariche direttive delle persone giuridiche o delle imprese. In entrambi i casi, tuttavia, la durata delle pene accessorie sarebbe rispettosa dei principi costituzionali, in forza della parificazione alla pena principale operata dall'art. 37 c.p.[8]

 


[1] V. Cass. pen., sez. V, 20.10.1981 n. 10266, rv 150989; Cass. pen., sez. V, 26.11.1986 n. 2205, rv 175171; Cass. pen., sez. V, 22.01.2010 n. 9672, rv 246891; Cass. pen., sez. V, 02.03.2010 n. 13579, rv 246712; Cass. pen., sez. V, 31.03.2010 n. 23720, rv 247507; Cass. pen., sez. V, 16.02.2012 n. 23606, rv 252960.

[2] In giurisprudenza non è, però, pacifica l'applicazione dell'art. 37 c.p. nel caso in cui la sanzione accessoria sia determinata solo nel massimo, cfr. Cass. pen., sez. VI, 03.12.2013 n. 697, rv 257850.

[3] V. Cass. pen., sez. V, 20.09.2007 n. 39337, rv 238211; Cass. pen., sez. V, 20.10.1981 n. 10266, rv 150989; Cass. pen., sez. V, 10.11.2011 n. 269, rv 249500; Cass. pen., sez. V, 16.02.2012 n. 23606, rv 252960; Cass. pen., sez. V, 30.05.2012 n. 30341, rv 253318; Cass. pen., sez. V, 20.09.2012 n. 42731, rv 254736; Cass. pen., sez. V, 31.01.2013 n. 11257, rv 254641; Cass. pen., sez. V, 18.10.2013 n. 51526, rv 258665; Cass. pen., sez. V, 18.10.2013 n. 628, rv 257947; Cass. pen., sez. V, 10.06.2014 n.41035, rv 260495.

[4] Ovvero della fattispecie di ricorso abusivo al credito, anche prima delle modifiche ad opera della l. n. 262/2005.

[5] In senso critico sull'estensione della pena accessoria della bancarotta fraudolenta a quella preferenziale v. C. Pedrazzi, sub art. 216, in Commentario alla legge fallimentare Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Roma-Bologna, 1995, 136.

[6] E, allargando il ragionamento ai reati fallimentari in generale, nemmeno nel caso del ricorso abusivo al credito commesso nell'ambito di società quotata o con azioni diffuse in modo rilevante ex art. 218 comma 2 l.f.

[7] Cfr., per tutti, F. Mucciarelli, sub art. 120, in Aa. Vv., Commentario alle modifiche del sistema penale, Assago, 1982, 552.

[8] Parte della dottrina e della giurisprudenza ritengono che nell'ipotesi in cui vi è una previsione di una cornice edittale, come nel caso dell'art. 30 c.p., la pena debba essere commisurata dal giudice (cfr, ad es. F. Mucciarelli, cit., 524 e Cass. pen. 21.9.1989 n. 759, rv 183110). Nel senso del testo v., fra gli altri, S. Larizza, Le pene accessorie, Padova, 1986, 102 e Cass. pen. 21.1.2003 n. 11383, rv 223949). Quanto poi agli effetti retroattivi dell'ipotizzata dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 216 comma 4 l.f., va precisato che, alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale (cfr. da ultimo Cass. pen., Sez. un., 29.5.2014 (dep. 14.10.2014) n. 42858, in questa Rivista, 17 ottobre 2014, con nota di G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all'esecuzione di pena "incostituzionale", cui si rimanda anche per l'individuazione dei precedenti contributi in tema pubblicati in questa Rivista) parrebbe lecito ritenere che il limite del giudicato non sia ostativo all'applicazione retroattiva della disciplina sanzionatoria risultante dall'ipotizzato intervento della Corte costituzionale. Con la precisazione che, ove il fatto sia stato commesso in vigenza dell'art. 32-bis c.p. (introdotto dalla l. 24 novembre 1981 n. 689), la sanzione accessoria potrebbe essere rideterminata eliminando la differenza fra i dieci anni previsti dall'art. 216 ult. comma l.f. e la quantità di pena accessoria pari a quella principale irrogata, come stabilito dal combinato disposto degli artt. 32-bis e 37 c.p.