ISSN 2039-1676


14 gennaio 2019 |

Pene accessorie della bancarotta fraudolenta e applicazione dell'art. 133 c.p.: la palla passa alle Sezioni unite, dopo l'intervento della Consulta

Cass., sez. V, ord. 14 dicembre 2018, n. 56458, Pres. Vessichelli, Rel. Scotti, ric. Suraci e a.

 

1. Con l’ordinanza che qui brevemente si commenta, la Quinta sezione della Corte di cassazione rimette alle Sezioni unite un’articolata questione di diritto in materia di inflizione delle pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta di cui all’ultimo comma dell’art. 216 l.f., come recentemente riformulato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018.

Sinteticamente, la sezione rimettente si chiede se tali pene accessorie – adesso previste nella sola durata massima («fino a dieci anni») e non più in misura fissa («per la durata di dieci anni») – debbano considerarsi:

a) pene accessorie di durata “non predeterminata” – secondo l’insegnamento delle stesse Sezioni unite nella sentenza n. 6240 del 27 novembre 2014 –, pertanto soggette alla regola generale di cui all’art. 37 c.p., a mente del quale «quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, le pena accessoria ha una durata uguale a quella della pena principale inflitta»;

b) ovvero, pene accessorie di durata “predeterminata” – proprio per effetto della nuova formulazione della norma ad opera della Consulta, che suggerisce questa soluzione nell’impianto motivazionale della sentenza 222 del 2018 –, dunque da infliggersi a seguito di commisurazione della pena da parte del giudice, ai sensi dell’art. 133 c.p.

Dalla decisione nell’uno o nell’altro senso dipendono – come si vedrà – una serie di conseguenze di non marginale rilievo.

Innanzi tutto, la stessa “efficacia” del modello proposto dalla Corte costituzionale nella sentenza citata, che – come si vedrà – presuppone una separata commisurazione della pena principale e di quella accessoria, ai sensi dell’art. 133 c.p.; commisurazione potenzialmente in grado di generare due diverse quantità di pena inflitta, in considerazione della diversa funzione che le due tipologie di sanzione perseguono, nonché del loro diverso grado di afflittività.

In secondo luogo, l’individuazione del giudice competente alla rideterminazione della pena nei processi ancora pendenti: anche la Cassazione, nel caso di applicazione dell’art. 37; solo il giudice del merito, nel caso in cui la pena accessoria vada separatamente commisurata ai sensi dell’art. 133 c.p.

Vi è poi l’ulteriore problema – che esula dal quesito posto alle Sezioni unite, ma che, come vedremo, aleggia sulla questione – dalla possibilità che la nuova determinazione delle pene accessorie dei delitti in questione sia svolta dal giudice dell’esecuzione, nei casi in cui una condanna ai sensi della vecchia formulazione dell’art. 216 l.f. sia passata in giudicato e la relativa pena accessoria (inflitta nella misura fissa di dieci anni) non sia stata completamente espiata. Operazione ‘automatica’ – e dunque non particolarmente problematica – nel caso in cui le Sezioni unite propendano per l’applicazione dell’art. 37 c.p.; meno scontata, come vedremo, qualora il nuovo quantum di pena accessoria sia da commisurarsi ai sensi dell’art. 133 c.p.

 

2. Procediamo tuttavia con ordine, ricapitolando innanzi tutto i principi di diritto espressi nelle due pronunce cui la Quinta sezione fa riferimento e che costituiscono il panorama giurisprudenziale all’interno del quale la rimessione in oggetto si colloca: l’orientamento consolidato in materia, compendiato dalla citata sentenza 6240 del 2014 delle Sezioni Unite; e il recente, contrastante intervento della Corte costituzionale con la sentenza 222 del 2018.

 

3. Proprio dalla prima delle pronunce sopra menzionate occorre, ci pare, prendere le mosse. Il tema dell’effettivo ambito di applicazione dell’art. 37 c.p. è, infatti, oggetto di una (relativamente) recente pronuncia della Corte di cassazione a sezioni unite – la già più volte citata sentenza 6240 del 2014 – sulla quale converrà soffermarsi per un attimo.

Nel luglio del 2014, la Prima sezione penale della Corte di Cassazione aveva depositato l’ordinanza che rimetteva alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: “se l’erronea o omessa applicazione da parte del giudice della cognizione di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata o l’applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di una pena accessoria extra o contra legem, possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione”.

Si era – non è forse superfluo ricordarlo – all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 che dichiarava incostituzionale la legge c.d. “Fini-Giovanardi” in materia di stupefacenti e le Sezioni Unite con la sentenza Gatto (n. 42858) del maggio dello stesso anno – dopo avere preso atto del processo di progressiva erosione dell’intangibilità del giudicato nella materia penale – avevano appena affermato il principio per il quale l’intervento in executivis deve essere consentito tutte le volte in cui sia ancora in atto una pena “illegittima”.

Ebbene, richiamando il precedente stabilito dalla sentenza Gatto in relazione alla pena principale (e, più in particolare, alla pena privativa della libertà personale), le Sezioni unite non esitarono ad affermare il medesimo principio anche con riguardo alle pene accessorienon essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena (sia essa principale o accessoria) non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali”.

Le Sezioni Unite si ponevano, tuttavia, il problema di individuare i limiti e l’ambito dell’intervento consentito al giudice dell’esecuzione; e, a questo proposito, affermarono il seguente principio di diritto: “l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem dal parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata [e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione]”.

Le ragioni a fondamento di questa presa di posizione erano ricavabili: dal disposto dell’art. 183 disp. att. c.p.p., che consente al pubblico ministero di richiedere, quando non si sia provveduto in sede di cognizione, l'applicazione di una pena accessoria, purché questa sia “predeterminata dalla legge nella specie e nella durata”; oltreché da un’altra serie di disposizioni che disciplinano diversamente i poteri del giudice dell’esecuzione rispetto a quello della cognizione (artt. 671 e 676 c.p.p.), dettate “dai limitati poteri dell'organo giurisdizionale in executivis, chiamato a dare attuazione al dictum contenuto nella sentenza, interpretandolo od integrandolo, senza facoltà di determinarlo. E tale diversità non è in contrasto con il parametro costituzionale dell'art. 24 Cost., poiché i poteri del giudice dell'esecuzione sono ispirati al criterio della intangibilità del giudicato e consistono nel rideterminare il trattamento sanzionatorio sulla base di un criterio oggettivo meno discrezionale di quello spettante al giudice della cognizione”.

Esclusa la possibilità, per il giudice dell’esecuzione, di intervenire sulla pena accessoria qualora tale intervento presentasse caratteristiche di discrezionalità – con espressa menzione del divieto, per il medesimo giudice, di ricorrere ai criteri di cui all’art. 133 c.p. per l’individuazione della durata della pena in questione –, le Sezioni unite procedevano dunque ad identificare le tipologie di pena accessoria in relazione alle quali l’intervento in executivis doveva ritenersi consentito, perché esente da qualunque operazione valutativa. A tale novero venivano ricondotte, senza dubbio, le pene accessorie la cui durata sia ancorata in modo automatico al quantum di pena principale inflitto (ad esempio, quelle previste dall’art. 29 c.p.).

Più problematica si presentava, invece, la riconduzione all’una o all’altra tipologia delle pene accessorie in relazione alle quali il legislatore individua un limite minimo o massimo di durata, per l’esistenza di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti: i) il primo – minoritario – riteneva che in tal caso la pena dovesse ritenersi predeterminata per legge, e dunque commisurabile in concreto dal giudice del merito ai sensi dell’art. 133 c.p.; ii) il secondo – maggioritario – reputava invece che potesse parlarsi di pena espressamente determinata solo nei casi in cui il legislatore ne avesse fissato in concreto la durata, ricadendo tutti gli altri casi (pena fissata solo nel minimo o nel massimo, pena fissata nel minimo e nel massimo) nell’ambito di applicazione dell’art. 37 c.p.

Le Sezioni unite propendevano per l’orientamento maggioritario e affermavano il principio di diritto secondo il quale “sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell'art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta”.

Le ragioni a fondamento della decisione del Supremo collegio erano essenzialmente derivanti: da un’interpretazione letterale della norma di cui all’art. 37 c.p. laddove si specifica che ‘in nessun caso può oltrepassarsi il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria’. Non vi sarebbe stata, invero, necessità di tale precisazione, se il principio della uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria, sancito dalla norma, non avesse trovato applicazione nelle ipotesi di indicazione di un minimo o di un massimo della durata di ciascuna specie di pena accessoria”; dal suo confronto con l’art. 183 disp. att. c.p.p.; nonché dalla sua collocazione sistematica.

Merita infine di essere sottolineato come, nell’analizzare le motivazioni alla base dell’orientamento minoritario – dichiaratamente volto a valorizzare i principi costituzionali della individualizzazione e della funzione rieducativa della pena mediante l’applicazione, anche alla pena accessoria, dell’art. 133 c.p. –, la Suprema corte valutasse questo argomento non decisivo: “anche ancorando la pena accessoria a quella principale, risultano rispettati, infatti, gli indicati principi costituzionali, dal momento che di essi ha già tenuto conto il giudice di merito nell'applicare la pena principale e, di riflesso, quella accessoria”.

 

4. Soffermiamoci ancora per qualche secondo sulla sentenza appena analizzata.

Le Sezioni unite stabiliscono un generale dovere di intervenire, anche in executivis, per ridurre a legalità la pena – anche accessoria – applicata in misura diversa o con criteri diversi rispetto a quelli contemplati dalla legge.

Tuttavia, l’intervento del giudice dell’esecuzione è – primo principio di diritto affermato – limitato: egli può intervenire a infliggere o rideterminare la pena accessoria solo se tale operazione è automatica, priva di qualunque valutazione discrezionale. Così è: nei casi in cui la quantità di pena accessoria sia dal legislatore rigidamente ancorata al quantum di pena principale inflitta…e in tutti gli altri casi. A ben vedere infatti – in virtù del secondo dei principi di diritto affermati dalle Sezioni unite – tutte le altre tipologie di pena accessoria ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 37 c.p. e comportano pertanto, anche esse, che il giudice dell’esecuzione proceda ad un’operazione scevra da profili valutativi: la durata della pena accessoria è uguale a quella della pena principale irrogata dal giudice del merito.

Insomma, l’affermazione dell’applicabilità dell’art. 37 c.p. (e non dell’art. 133 c.p.) tutte le volte in cui il legislatore non individua espressamente il quantum di pena accessoria da infliggersi – non solo, dunque, nei casi in cui non sussista alcun riferimento temporale; ma anche in relazione a quelle fattispecie in cui viene specificata una durata minima o massima della pena accessoria e, addirittura, quando la legge stabilisce tanto la durata minima quanto quella massima – era funzionale a consentire che la pena illegale potesse sempre essere rideterminata in executivis, pur tenendo fermo il divieto di valutazioni discrezionali da parte del giudice dell’esecuzione.

Il risvolto della medaglia è però – si badi bene – che anche il giudice della cognizione (e non solo quello dell’esecuzione) si vedeva preclusa qualunque discrezionalità nell’inflizione della pena accessoria: non residuando, appunto, alcuno spazio per l’applicazione della commisurazione ex art. 133 c.p. nella materia de qua. E ciò senza che, a giudizio delle Sezioni unite, si determinasse un vulnus del principio costituzionale della necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio: la pena accessoria risultava, infatti, inflitta nella stessa misura di quella principale, pertanto – seppur mediatamente – essa derivava da un’operazione di commisurazione ex 133 c.p.

 

5. Questa impostazione è – come già più volte anticipato – posta in discussione dalla recentissima sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale in materia di pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta.

Per capire in cosa si sostanzi il contrasto, occorre prendere le mosse dai paragrafi del “considerato in diritto” nei quali la Consulta – dopo avere riscontrato la sostanziale illegittimità costituzionale delle pene accessorie comminate in misura fissa dalla legge fallimentare per i delitti di bancarotta fraudolenta (si rimanda, in proposito, alla scheda appositamente dedicata alla sentenza in questione già pubblicata su questa Rivista) – si poneva il problema di individuare il genere di intervento manipolativo a cui sottoporre l’ultimo comma dell’art. 216 l.f.

Come si ricorderà, in quell’occasione la Consulta si misurava con la sua precedente giurisprudenza – tradizionalmente improntata a un rigido self restraint nella materia del trattamento sanzionatorio, per eccellenza riservato alla potestà legislativa – e, con il conforto del significativo precedente della sentenza 236 del 2016, affermava la necessità superare la rigida struttura triadica del giudizio di proporzione della pena, improntata alla necessaria individuazione di un tertium comparationis che fornisse al giudice costituzionale le c.d. ‘rime obbligate’. Mossi dall’intento di garantire una effettiva tutela dei principi e dei diritti vulnerati dalle scelte del legislatore nella materia sanzionatoria, i giudici costituzionali rivendicavano la loro possibilità di intervenire anche in assenza di un’unica soluzione costituzionalmente vincolata, purché fossero identificabili all’interno del sistema “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti” – costituzionalmente legittime, ovviamente – in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima.

Applicando alla fattispecie oggetto di giudizio il principio di diritto appena ricordato, la Consulta procedeva all’analisi del sistema all’interno del quale l’art. 216 l.f. si situa: quello dei reati fallimentari, come emergente del r.d. n. 267 del 1942.

In particolar modo, la Corte costituzionale leggeva nella decisione – operata dal legislatore storico – di comminare le pene accessorie in esame nella misura fissa di dieci anni una precisa scelta di politica criminale: quella di allontanare il bancarottiere fraudolento dall’ambito dell’attività imprenditoriale per un lungo periodo di tempo dopo l’esecuzione della pena detentiva; ciò – continuavano i giudici – “allo scopo di estendere nel tempo l’effetto di prevenzione speciale negativa già esplicato dall’esecuzione della pena detentiva, oltre che di conferire maggiore capacità deterrente all’incriminazione”. Ecco allora che tali pene assumono una funzione “almeno in parte distinta […] rispetto alle funzioni proprie della reclusione: ciò che ne giustifica, nell’ottica del legislatore storico – e in consapevole difformità rispetto alla regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen., già esistente nel 1942 –, una durata di regola maggiore rispetto a quella della pena detentiva concretamente inflitta”.

Quella di non consentire l’appiattimento della pena accessoria su quella detentiva, che inevitabilmente si realizzerebbe con l’applicazione alla fattispecie in esame della regola generale di cui all’art. 37 c.p., sarebbe dunque stata una scelta deliberata del legislatore. Una scelta, continua la Consulta, immune da vizi di costituzionalità.

Purché le pene accessorie interdittive dei delitti di bancarotta fraudolenta non risultino manifestamente sproporzionate rispetto alla concreta gravità del fatto di reato – circostanza che le porterebbe a contrastare con il principio di rieducazione del reo ex art. 27 c. 3 Cost. – esse si presentano, infatti, come rispettose dei principi che d’ordinario presidiano la materia sanzionatoria. È ben possibile dunque, affermavano ancora i giudici costituzionali, che pena principale e pena accessoria perseguano finalità diverse e pertanto – anche in considerazione del diverso grado di afflittività di cui sono espressione – possano essere inflitte sulla base di operazioni di commisurazione della pena tra loro indipendenti. “In ottica de iure condendo, anzi, – chiosavano i giudici – strategie siffatte ben potrebbero risultare funzionali a una possibile riduzione dell’attuale centralità della pena detentiva nel sistema sanzionatorio, senza indebolire la capacità deterrente della norma penale, né l’idoneità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto all’altrettanto legittimo obiettivo della prevenzione speciale negativa.

L’insieme delle considerazioni sopra ripercorse induceva la Corte costituzionale a ritenere che la regola generale di cui all’art. 37 c.p. – pur avendo la caratteristica di riempire automaticamente il vuoto normativo generato dalla dichiarazione di incostituzionalità – fosse insoddisfacente; sostituisse, cioè, automatismo ad automatismo, privando le pene accessorie interdittive, nella materia de qua, della loro legittima finalità. La Consulta presceglieva, dunque, una soluzione diversa, in grado di preservare il legittimo intento del legislatore storico, pur rimuovendo l’indicazione della misura fissa della pena, ritenuta costituzionalmente illegittima e direttamente ricavabile proprio dal sistema della legge fallimentare. Più precisamente – in consonanza di quanto previsto dal legislatore per gli artt. 217 (bancarotta semplice) e 218 (ricorso abusivo al credito) – i giudici costituzionali manipolavano il testo dell’ultimo comma dell’art. 216 l.f., aggiungendo la locuzione “fino a” prima dell’indicazione della durata massima di dieci anni. Una tale modifica avrebbe consentito al giudice – questo l’intento espressamente dichiarato dalla Corte – di determinare “con valutazione caso per caso e disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, la durata delle pene accessorie previste dalla disposizione censurata, sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 c.p.; durata che potrebbe dunque risultare, in concreto, maggiore di quella della pena detentiva contestualmente inflitta, purché entro il limite massimo di dieci anni”.

 

6. Riassunte le ragioni che hanno condotto i giudici delle leggi a modificare il testo dell’art. 216 l.f. nel senso ora indicato, appare del tutto evidente la netta presa di posizione della Consulta in ordine al quesito ora rimesso alle Sezioni Unite. Posizione ulteriormente ribadita nei paragrafi conclusivi della sentenza 222 del 2018, che testualmente afferma “a parere di questa Corte la regola residuale di cui all’art. 37 cod. pen. continuerà dunque a non operare rispetto all’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare – come risultante dalla presente pronuncia –, dal momento che tale regola ha come suo presupposto operativo che la durata della pena accessoria temporanea non sia espressamente determinata dalla legge. L’esistenza di una lex specialis, in effetti, esclude l’operatività del criterio residuale di cui all’art. 37 cod. pen., il cui inciso finale («in nessun caso [la pena accessoria] può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabilito per ciascuna specie di pena accessoria») appare riferito non già ai limiti di durata delle pene accessorie previsti da singole norme incriminatrici – come l’art. 216 della legge fallimentare –, bensì ai limiti minimi e massimi individuati dalle disposizioni del Libro I del codice penale – in particolare, dagli artt. 28, terzo comma, 30, secondo comma, 32-ter, secondo comma, 35, secondo comma, e 35-bis, secondo comma, cod. pen. – che prevedono le singole «specie» di pene accessorie”.

Una precisazione, quella dei Giudici costituzionali, non casuale: la lettura dell’art. 37 c.p. fornita dalla Consulta è infatti in contrasto – come si è visto – con il consolidato orientamento in materia della Corte di cassazione.

 

7. Veniamo, dunque, finalmente a noi.

All’indomani della pronuncia della Corte costituzionale, la Quinta sezione della Corte di cassazione rimette la questione – che ha già dato adito a un contrasto interno alla sezione medesima (sent. 7 dicembre 2018, proc. 23648/2016, Piermartiri; sent. 13 dicembre 2018, proc. 3703/2018, Retrosi) – alle Sezioni unite.

La sezione rimettente ritiene, in particolar modo, che non possa darsi piena attuazione alle indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale – che, come si è visto, manipola il testo dell’art. 216 l.f. inserendo la locuzione “fino a” prima dell’indicazione dei dieci anni – laddove tale testo venga interpretato alla luce del principio di diritto espresso dalle Sezioni unite, e dunque applicando anche in questo caso la regola generale di cui all’art. 37 c.p. Una tale interpretazione – osserva il collegio – sarebbe in aperto contrasto con le ragioni, chiaramente esplicitate dalla Consulta, che hanno indotto il giudice delle leggi a pervenire al risultato appena ricordato: la locuzione inserita all’interno dell’art. 216 l.f. è funzionale a consentire che le pene accessorie ivi disciplinate siano dal giudice commisurate sulla base dei criteri di cui all’art. 133 c.p.; la diversa soluzione che vede l’applicazione dell’art. 37 è, infatti, apertamente ritenuta indesiderabile dalla Corte costituzionale.

Non è forse superfluo aggiungere” – rilevano ancora i giudici rimettenti – come “l’appiattimento sistematico della durata della pena accessoria inabilitativa su quella della pena principale finirebbe per frustrare il legittimo intento perseguito dalla legge di colpire in modo severo gli autori di gravi condotte di perturbamento del sistema economico e il diverso grado di afflittività delle diverse sanzioni rispetto ai diritti fondamentali della persona” e come, ancora, la regola di cui all’art. 37 c.p. possa di fatto non operare nei casi più gravi di bancarotta fraudolenta aggravata ex art. 219 l.f., in cui la pena massima supera il limite stabilito dei dieci anni.

Ciò che si chiede, in estrema sintesi, alle Sezioni unite è di rimeditare il secondo dei principi di diritto affermati nella sentenza 6240 del 2014, e di consentire che il giudice della cognizione (più precisamente: il giudice del merito) possa commisurare la pena accessoria sino al massimo individuato dal legislatore, sulla base dei criteri di cui all’art. 133 c.p. Ciò – soggiungono i giudici – almeno in relazione alle sanzioni interdittive di cui all’ultimo comma dell’art. 216 l.f.; sebbene il principio generale espresso dalla Corte costituzionale sembri avere portata più ampia e riferirsi, in generale, all’intero sistema delle pene accessorie.

 

8. La parola, dunque, alle Sezioni unite, cui spetta – in definitiva – il compito di sciogliere questo nodo interpretativo, alla luce della nuova formulazione dell’art. 216 l.f. e, auspicabilmente, nell’ottica di un costruttivo dialogo sul punto con la Corte costituzionale.

Sebbene, infatti, la dichiarazione di incostituzionalità relativa all’ultimo comma dell’art. 216 l.f. sia relativa al solo profilo della ‘fissità’ delle sanzioni prima irrogate al bancarottiere fraudolento – sanzioni insensibili alla concreta gravità del fatto di reato e, dunque, sproporzionate per accesso con riferimento almeno ai casi meno gravi di bancarotta fraudolenta – e solo in relazione a tale punto, dunque, la sentenza 222 del 2018 esplichi effetti vincolanti, non può tuttavia tacersi lo sfavore con il quale l’assoggettamento delle pene di cui all’art. 216 l.f. alla regola generale di cui all’art. 37 c.p. è visto dalla Consulta.

La soluzione suddetta è consapevolmente e motivatamente scartata dalla Consulta, che la ritiene insoddisfacente, nella misura in cui rischia di frustrare la precipua finalità di prevenzione speciale negativa (oltre che di intimidazione) che caratterizza la pena accessoria, a cagione dell’appiattimento della durata della pena suddetta su quella della pena principale. Sullo sfondo delle considerazioni della Corte, sta in effetti lo sforzo di restituire alla pena accessoria un’autonomia rispetto alla pena principale, autonomia che potrebbe risultare anche funzionale, de iure condendo, a un depotenziamento della centralità che il carcere riveste nell’attuale esperienza italiana. La Consulta – prediligendo una commisurazione ex art. 133 c.p. separata, volta a valorizzare la funzione di prevenzione negativa delle sanzioni de quibus – disegna insomma un modello di pena accessoria interdittiva ‘effettiva’: non un’arma spuntata, ma uno strumento in grado di presidiare efficacemente il precetto penale e, in ipotesi, di sostituirsi perfino alla pena detentiva. Non sfugge infatti che la nuova e separata commisurazione ai sensi dell’art. 133 c.p. – finalisticamente orientata alla prevenzione speciale negativa, piuttosto che alla rieducazione, come avviene per la pena principale – finirebbe di regola per pervenire a risultati meno favorevoli per il reo di quanto avverrebbe, invece, a seguito dell’applicazione della regola generale di cui all’art. 37 c.p.

Per il vero, nulla dice la Consulta sul tema della legittimità costituzionale dell’applicazione di tale regola alle pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta; non ci sono elementi, dunque, per ritenere che tale soluzione sia, tout court, in contrasto con i principi costituzionali che presidiano la materia sanzionatoria. Eppure, la ‘commisurazione di riflesso’ che l’applicazione dell’art. 37 c.p. determina non può fare velo al deficit di individualizzazione della pena accessoria conseguente alla sua applicazione nella stessa misura di quella principale, senza – la Corte costituzionale lo afferma a più riprese – che vengano irragionevolmente pregiudicate le sue peculiari caratteristiche.

Insomma, pur apparendo evidente che le Sezioni unite non siano vincolate a fornire un’interpretazione dell’art. 216 l.f. coerente con l’impianto della sentenza 222 del 2018, altrettanto palese appare che forti ragioni militano nel senso di accogliere l’invito della Consulta a valutare l’applicabilità, alle sanzioni de qua, della commisurazione della pena ai sensi dell’art. 133 c.p. Il tutto in un ottica dialogica, di ‘collaborazione’ nella costruzione di un sistema sanzionatorio che ‘prenda sul serio’ il principio della necessaria individualizzazione della pena anche in relazione alle pene diverse da quella principiale, e che sia in grado – in potenza – di fornire efficaci alternative alla pena carceraria.

 

9. Un’ultima chiosa, forse non superflua.

Il perimetro dell’odierna questione rimessa alle Sezioni unite concerne i soli poteri del giudice della cognizione: se egli debba applicare, all’art. 216 l.f. nella sua nuova formulazione, la regola generale di cui all’art. 37 c.p. – operazione che anche la Cassazione potrebbe autonomamente compiere – o, piuttosto, se le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta vadano separatamente commisurate dal giudice del merito ai sensi dell’art. 133 c.p.

Eppure, dopo avere ripercorso, seppur brevemente, l’iter motivazionale della sentenza 6240 del 2014 non si può fare a meno di chiedersi come – in conseguenza della pronuncia delle Sezioni unite – cambi lo scenario della rideterminazione in executivis delle pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, in relazione ai soggetti condannati nella vigenza della norma ora dichiarata incostituzionale, e che stiano ancora espiando la pena accessoria interdittiva.

Non può sfuggire, in particolar modo, come un revirement del Supremo collegio circa il secondo dei principi di diritto affermati in tale sentenza – l’applicabilità dell’art. 37 c.p. alle pene accessorie in relazione alle quali il legislatore fissi la pena massima e/o quella minima – si ripercuota inevitabilmente sulla tenuta del sistema complessivamente disegnato dalle Sezioni unite; l’individuazione di una categoria di pene accessorie (come quelle disciplinate dall’ultimo comma dell’art. 216 l.f.) che richiedano in concreto di essere commisurate ai sensi dell’art. 133 c.p., darebbe luogo ad una serie di situazioni concrete nelle quali una pena illegale – tale è, senza dubbio, quella irrogata ai sensi della precedente versione dell’art. 216 l.f. – non potrebbe essere rideterminata in concreto dal giudice dell’esecuzione, poiché tale operazione comporterebbe una valutazione discrezionale a lui preclusa.

Ciò, ovviamente, a meno di intervenire anche sul primo dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite nel 2014: quello che ritiene che i poteri del giudice dell’esecuzione siano limitati dalla fase nella quale egli interviene e che, pertanto, egli possa compiere solo operazioni di inflizione della pena di tipo automatico. Un intervento che – nel caso in cui le Sezioni unite dovessero propendere per l’accoglimento del ‘suggerimento’ della Consulta – ci apparirebbe doveroso. È incontroverso infatti che il condannato ai sensi della previgente disciplina sconti, adesso, una pena illegale; e parimenti chiaro è che egli abbia diritto – indipendentemente dalla tipologia di pena in questione – ad una rideterminazione della sanzione che la riporti nell’alveo della legalità. Tale principio, già consolidato in relazione alla pena principale, pare non possa essere derogato in relazione alla pena accessoria; tanto più se con la pena accessoria – come sembrerebbe – si intende ‘fare sul serio’.