ISSN 2039-1676


10 dicembre 2018 |

La sentenza della Consulta su pene fisse e 'rime obbligate': costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta

Corte cost., sent. 25 settembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018), n. 222, Pres. Lattanzi, Red. Viganò

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1. Con la sentenza n. 222/2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), nella parte in cui dispone che: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.

La pronuncia in questione si segnala – oltreché, ovviamente, per aver profondamente modificato il sistema delle pene accessorie dei delitti di bancarotta, fino ad oggi previste dalla legge in misura fissa nel quantum  – per alcune importanti prese di posizione in ordine al più generale tema del sindacato di proporzione della pena da parte della Corte costituzionale.

 

2. Procediamo, però, con ordine. La questione di legittimità costituzionale origina da un’ordinanza della Prima Sezione della Corte di cassazione, impegnata nel giudizio relativo a  uno dei molti filoni del processo per il fallimento Parmalat. La complessa vicenda sottostante è già stata riassunta, in questa Rivista, nel dar conto dell’ordinanza di rimessione di cui sopra.

Basti qui ricordare che:

i) la questione rimessa alla Consulta aveva ad oggetto la difficile compatibilità costituzionale – con particolare riferimento agli artt. 3, 27 c. 1 e 3, 117 Cost. – delle pene accessorie fisse comminate per i delitti di bancarotta fraudolenta con i principi di uguaglianza/ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e con la necessaria funzione rieducativa della pena, oltreché – attraverso il parametro interposto di cui all’art. 117 Cost. – con il diritto alla vita privata,  sub specie di libertà di svolgere attività professionale o commerciale (art. 8 Cedu) e di diritti ed interessi patrimoniali ad essa connessi (art. 1 Cedu);

ii) il nodo centrale della questione rimessa dalla Cassazione era rappresentato dalla contrarietà di un trattamento sanzionatorio previsto in misura fissa, oltreché obbligatoria, “al volto costituzionale della pena”, sulla base dell’insegnamento della stessa Corte costituzionale nella nota sentenza n. 50 del 1980;

iii) al vulnus costituzionale prospettato, la Cassazione proponeva di porre rimedio attraverso la caducazione delle parole “per la durata di dieci anni dal testo dell’art. 216, ult. co., l. fallimentare; per effetto di tale caducazione, anche alla fattispecie in questione si sarebbe applicata la regola generale in materia di durata delle pene accessorie prevista dall’art. 37 c.p., a mente del quale “quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, le pena accessoria ha una durata uguale a quella della pena principale inflitta”;

iv) una questione in tutto simile a quella che ha dato origine all’odierna pronuncia della Consulta era stata oggetto di un’analoga ordinanza di rimessione poco più di cinque anni fa; la Corte costituzionale aveva, in quell’occasione (sentenza 134 del 2012), dichiarato la questione inammissibile: pur invitando il legislatore a “porre mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma”, il Giudice delle leggi aveva ritenuto che un intervento diretto sul testo dell’art. 216, ult. co., l.f. sarebbe stato a lei precluso per l’assenza delle c.d. “rime obbligate”; “la soluzione prospettata è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione” – aveva argomentato la Corte – “risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore”.

 

3. Come anticipato, l’approccio seguito dalla Consulta nel caso odierno si discosta di molto da quello adottato dalla stessa Corte costituzionale, in relazione ad una questione largamente sovrapponibile, appena un lustro fa: ciò tanto negli esiti quanto, come vedremo, nel metodo adottato. Anche qui converrà, però, procedere con ordine, enunciando – come del resto fa il Giudice delle leggi – dapprima i profili di sostanziale fondatezza del vulnus costituzionale prospettato dalla Cassazione, ed affrontando in seguito il tema più delicato dei limiti dell’intervento della Consulta in una materia – come quella della commisurazione della pena – tradizionalmente oggetto di un rigido self restraint da parte della Corte costituzionale, nel rigoroso rispetto del principio di legalità.

 

4. Accingendosi a vagliare la fondatezza del dubbio di costituzionalità, la Corte procede, innanzitutto, a delimitare il petitum della questione, anche a fronte delle articolate deduzioni della difesa di uno degli imputati in ordine a plurime doglianze di illegittimità costituzionale della disciplina oggetto di scrutinio. I giudici ritengono tuttavia che la questione – per come prospettata dal giudice rimettente, cui solo spetta delinearne il perimetro – si concentri essenzialmente su un singolo profilo di illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 216 l.f.: il carattere fisso della durata decennale delle pene accessorie ivi previste, e non anche l’automatismo sulla base del quale esse discendono dalla condanna. Oggetto di scrutinio da parte della Consulta è, dunque, la fissità nel quantum delle pene accessorie comminate al bancarottiere fraudolento dalla legge fallimentare; i giudici non si occupano, invece, del diverso problema dell’obbligatorietà nell’an di tali sanzioni.

 

5. Ebbene, la durata fissa delle pene accessorie dei delitti di bancarotta non appare compatibile – afferma il Giudice delle leggi – con i principi costituzionali di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

 

5.1. Per giungere a tali conclusioni, la Consulta riepiloga alcuni suoi consolidati insegnamenti in materia di legittimità costituzionale delle sanzioni penali:

a) la determinazione del trattamento sanzionatorio è riservata alla discrezionalità del legislatore ed è sindacabile, da parte della Corte costituzionale, solo qualora le scelte legislative siano manifestamente irragionevoli;

b) sono da ritenersi manifestamente irragionevoli le comminatorie edittali che appaiano visibilmente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto come reato: pene di tal genere, infatti, sono percepite come ingiuste dal condannato e sono pertanto inidonee a svolgere la loro funzione rieducativa, traducendosi in altrettante violazioni degli artt. 3 e 27 Cost.;

c) lo strumento d’ordinario adoperato dal legislatore per evitare la concreta inflizione di pene sproporzionate è quello di prevedere che la pena sia commisurata fra un minimo e un massimo, di modo che il giudice possa determinare il quantum di pena maggiormente rispondente alla effettiva gravità del reato commesso;

d) lo strumento della commisurazione della pena (ex artt. 133 e 133 bis c.p.) consente al giudice di infliggere la pena appropriata sulla base delle caratteristiche del reato per come concretamente manifestatosi, ma anche di calibrare il trattamento sanzionatorio sulla situazione del singolo condannato, al fine di ottenere un trattamento sanzionatorio realmente ‘individualizzato’ e rispondente al canone costituzionale di personalità della responsabilità penale (art. 27 c. 1 Cost.);

e) la regola generale in materia di trattamento sanzionatorio è, dunque, quella della ‘mobilità’ o dell’ ‘individualizzazione’ della pena: di conseguenza ogni pena fissa è – per ciò solo – indiziata di incostituzionalità;

f) tale regola è ben compendiata nella sentenza n. 50 del 1980 della Corte costituzionale, nella quale si afferma che “in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il ‘volto costituzionale’ del sistema penale; ed il dubbio di d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente ‘proporzionata’ rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”;

g) sono compatibili con il combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., dunque, solo quelle pene fisse che siano comminate per sanzionare fattispecie di reato non ‘graduabili’: reati, cioè, che per la loro peculiare struttura siano da considerarsi sempre espressivi del medesimo livello di gravità, così che la sanzione fissa appaia, in concreto, sempre proporzionata.

 

5.2. Ricapitolati i principi generali in materia di trattamento sanzionatorio, la Corte procede ad applicarli al caso concreto sottoposto al suo giudizio.

È di palmare evidenza, in primo luogo, come le fattispecie disciplinate all’interno dell’art. 216 l.f. – cui si applica indistintamente la previsione di cui all’ultimo comma del medesimo articolo – si riferiscano a reati connotati da livelli di gravità molto diversi, già dal punto di vista astratto; prova ne sono i diversi trattamenti sanzionatori che lo stesso legislatore prevede, nel differenziare le fattispecie di cui al primo e al secondo comma (reclusione da tre a dieci anni) da quelle, connotate da un disvalore ben più lieve, di cui al terzo comma (reclusione da uno a cinque anni). Anche all’interno, poi, delle gamma di casi concreti sussumibili nelle fattispecie astratte disciplinate dal medesimo comma dell’art. 216 l.f. – sostiene ancora la Consulta – sono individuabili livelli di gravità ben diversi, sol che si consideri, ad esempio, il pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (probabilità ed entità del danno, numero di persone offese) che la condotta concretamente posta in essere ha creato. Per non parlare, poi, del sistema di circostanze aggravanti ed attenuanti previste dall’art. 219 l.f., che può incidere anche significativamente sul quantum di pena principale concretamente irrogata dal giudice, ma a cui il sistema delle pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta resta, ancora una volta, insensibile.

Le pene accessorie interdittive in questione, comminate nella misura fissa di dieci anni – osservano allora i giudici costituzionali – se certamente appaiono proporzionate ai più gravi casi di bancarotta fraudolenta, possono tuttavia dare luogo a trattamenti sanzionatori gravemente sproporzionati per eccesso nei casi meno gravi disciplinati dall’art. 216 l.f. In tutti questi casi – chiosa la Corte – non si può non evidenziare la distonia della norma rispetto al combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., tanto più che le pene accessorie in questione incidono su diritti fondamentali del condannato, limitandone drasticamente la possibilità di esercitare attività lavorative per un tempo particolarmente lungo dopo che egli abbia scontato la pena detentiva (ex art. 139 c.p.).

Le pene accessorie interdittive dei delitti di bancarotta fraudolenta sono, dunque, costituzionalmente illegittime. Conclusione questa – tiene tuttavia a sottolineare la Consulta – che non contrasta con la generalizzata affermazione, anche in tempi recenti (sentenza n. 142 del 2017), della conformità a costituzione della pena pecuniaria proporzionale, se accompagnata da pena detentiva commisurabile fra un minimo e un massimo; bisogna infatti distinguere il caso oggetto dell’odierna pronuncia – in cui la comminatoria edittale è totalmente insensibile alle peculiarità del caso concreto – dai casi di pena pecuniaria proporzionale, che per definizione tengono conto almeno delle caratteristiche oggettive (e dunque della diversa gravità concreta) del fatto di reato.

 

6. Esauriti i profili relativi alla fondatezza del vulnus costituzionale rappresentato dalla fissità delle pene accessorie di cui all’art. 216, ult. co., l.f., la Corte si misura direttamente con la sua precedente giurisprudenza sul punto, affrontando apertis verbis la questione assai spinosa dei limiti all’intervento della Corte costituzionale nei casi in cui, pur in presenza di profili di illegittimità costituzionale della norma oggetto di giudizio, manchino soluzioni costituzionalmente vincolate (le c.d. ‘rime obbligate’).

 

6.1. Come anticipato, infatti, i giudici costituzionali si erano già pronunciati su un caso analogo con la sentenza 134 del 2012; la Corte, se per un verso lasciava intuire – attraverso il monito rivolto al legislatore perché intervenisse ad adeguare il sistema in questione alle esigenze di individualizzazione espresse dall’art. 27 Cost. – un fumus boni iuris di fondatezza della questione di legittimità costituzionale, per altro verso si rifiutava di manipolare la norma, come richiesto dal giudice a quo, per l’assenza di ‘rime obbligate’, mostrandosi così vincolata alle prerogative del potere legislativo.

L’atteggiamento della Consulta nel 2012 rispecchiava pienamente – anche in presenza di plausibili soluzioni ‘quasi vincolate’, come quella relativa all’applicazione anche al caso di specie della regola generale di cui all’art. 37 c.p. – il rigido self restraint che i giudici costituzionali hanno (con una singola eccezione, fino ad oggi) sempre osservato nei casi in cui sono stati chiamati a giudicare della proporzione delle sanzioni penali.

Per potere con successo denunciare la sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto da una determinata norma, il giudice rimettente aveva l’onere di individuare un tertium comparationis che ‘dimostrasse’ la sproporzione e fornisse, al contempo, le ‘rime obbligate’; era, in altri termini, necessario individuare - all’interno dell’ordinamento – una norma diversa da quella di cui si lamentava l’incostituzionalità, che fosse dotata del medesimo disvalore astratto rispetto alla norma punita in maniera eccessiva ma il cui trattamento sanzionatorio fosse – a giudizio del rimettente – più mite e dunque costituzionalmente conforme. Se la Corte costituzionale riteneva che il tertium comparationis fosse conferente, interveniva a modificare il quantum della sanzione sproporzionata, allineandolo a quello previsto per la norma convincentemente assunta a parametro. Tale modus operandi si dimostrava pienamente rispettoso del principio di legalità – la Consulta non determinava da sola la pena più appropriata, si limitava a ‘trasporre’ quella già attribuita dal legislatore a casi della medesima gravità – ma, soprattutto perché applicato con grande rigore, consentiva alla Corte costituzionale di intervenire solo in casi limitatissimi. Nella stragrande maggioranza dei casi, dunque, pur in presenza di ben argomentati e plausibili profili di illegittimità costituzionale, il Giudice delle leggi riteneva più opportuno rivolgersi al legislatore, demandando a lui l’onere di intervenire.

 

6.2. Una prima, macroscopica deviazione da questa regola è rappresentata dalla sentenza n. 236 del 2016, in relazione al delitto di alterazione di stato, punito con pene severissime, che mal si attagliavano alla gravità delle condotte concrete sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 567, c. 2. In quell’occasione, la Corte rinunciò all’individuazione di un preciso tertium comparationis – che, verosimilmente, non esisteva – e, per offrire un’effettiva tutela a situazioni in cui la pena comminata si dimostrava, ictu oculi, gravemente sproporzionata, si discostò dalla sua precedente giurisprudenza. In particolare, la Consulta affermò il proprio potere di intervenire a sostituire il trattamento sanzionatorio sproporzionato qualora esistano precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo, intesi quali soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata.

Ebbene, proprio a tale pronuncia fa riferimento la Corte nella sentenza in commento, quando afferma –  apertis verbis – di avere rimeditato la soluzione adottata nel 2012, anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sul punto. Un’evoluzione nel solco dalle quale l’odierna pronuncia si inserisce decisamente, riconfermando le soluzioni adottate nel 2016 e, anzi, ulteriormente precisandole e ampliandole. “Non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis” – afferma recisamente la Consulta –  “essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte ‘precisi punti di riferimento’ e soluzioni ‘già esistenti’ (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non ‘costituzionalmente obbligate’ – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”. Tutto ciò al dichiarato fine di “consentire a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia”. Ferma restando la possibilità per il legislatore di intervenire in qualunque momento sulla normativa, individuando soluzioni diverse rispetto a quelle cui i Giudici delle leggi sono pervenuti (purché costituzionalmente legittime, ovviamente), la Corte si dice pronta ad intervenire per garantire “una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di ‘rime obbligate’ nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima”.

 

6.2. Insomma, un deciso cambio di passo, che consente alla Corte costituzionale di pervenire ad una soluzione della questione sottoposta al suo giudizio che non esiteremmo a definire sorprendente. Come anticipato, infatti, il giudice a quo individuava nella caducazione della locuzione “per la durata di dieci anni” dal testo dell’ultimo comma dell’art. 216 l.f. l’intervento da porre in essere per ricondurre al rispetto dei principi costituzionali le pene accessorie in questione. L’eliminazione di ogni riferimento temporale avrebbe infatti consentito l’applicazione, anche nel caso di specie, dell’art. 37 c.p., per effetto del quale le pene accessorie avrebbero avuto la stessa durata di quella detentiva. L’allineamento della durata delle pene accessorie a quella stabilita per la pena principale, che si sarebbe presentato come soluzione in grado di colmare 'automaticamente' il vuoto, è però – a giudizio della Consulta – insoddisfacente; una tale soluzione rischierebbe di sostituire automatismo ad automatismo, delineando un sistema di pene accessorie interdittive per i delitti di bancarotta fraudolenta distonico rispetto alle finalità che il legislatore fallimentare si proponeva, nonché di svuotare tali pene della loro legittima finalità. Le pene accessorie in questione – sostengono i giudici costituzionali – presenterebbero infatti una finalità almeno in parte distinta dalla pena principale della reclusione prevista dall’art. 216 l.f.: esse rivestirebbero una funzione “marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa”, funzione di per sé costituzionalmente legittima e non in contrasto con la finalità rieducativa cui il complessivo trattamento sanzionatorio deve tendere, qualora ovviamente tali sanzioni non risultino inflitte in misura sproporzionata.

Nulla osta, sul piano dei principi costituzionali, a che il legislatore possa articolare strategie di prevenzione di gravi reati attraverso la previsione di sanzioni interdittive, la cui durata sia stabilita in modo indipendente da quella della pena detentiva" – affermano i giudici costituzionali – "e ciò in ragione della diversa finalità delle due tipologie di sanzione, oltre che del loro diverso grado di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona”. Ed anzi – continuano – in ottica de iure condendo proprio la pena accessoria (assieme a quelle principali, ma anche da sola) potrebbe rivelarsi un utile strumento per ridurre il ricorso alla pena detentiva, senza che da ciò derivi un indebolimento della capacità deterrente del sistema penale. Proprio per queste ragioni non è convincente una soluzione che ancori meccanicamente la pena accessoria a quella detentiva, privandola di ogni sua – peraltro costituzionalmente legittima – autonoma finalità.

Proprio per preservare tale autonoma finalità – conclude la Corte – è necessario consentire che anche la pena accessoria possa essere oggetto della commisurazione del giudice nel caso concreto; una commisurazione indipendente da quella dallo stesso giudice operata in relazione alla pena detentiva, che consenta di preservare le specificità di ciascun elemento del trattamento sanzionatorio. Una tale operazione è peraltro consentita, all’interno della stessa legge fallimentare, per le fattispecie disciplinate dagli articoli immediatamente successivi all’art. 216: l’art. 217 (bancarotta semplice) e l’art. 218 (ricorso abusivo al credito) prevedono, infatti, le medesime pene accessorie comminate per la bancarotta fraudolenta, ma per tali sanzioni è il giudice a determinare discrezionalmente il quantum di pena da infliggersi, essendo vincolato solo nel massimo (“fino a due anni” o “fino a tre anni”). Proprio tale soluzione – ricavabile dal sistema e in grado di garantire il rispetto della Carta costituzionale – è quella infine prescelta dalla Corte, che manipola il testo dell’ultimo comma dell’art. 216 l.f., aggiungendo la locuzione “fino a” prima dell’indicazione della durata massima di dieci anni