ISSN 2039-1676


11 gennaio 2018 |

Pene accessorie 'fisse' per la bancarotta fraudolenta: la Cassazione solleva una questione di legittimità costituzionale

Cass. Pen., Sez. I, ord. 6 luglio 2017 (dep. 17 novembre 2017), n. 52613, Pres. Di Tomassi, Rel. Minchella, Ric. Geronzi ed altri

Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2018

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1. Con l’ordinanza che qui si segnala, scaturente da uno dei molti processi relativi alla vicenda Parmalat, la Prima sezione della Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 216 ultimo comma e 223 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, «nella parte in cui prevedono che alla condanna per uno dei fatti previsti in detti articoli conseguano obbligatoriamente, per la durata di dieci anni, le pene accessorie dell'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». 

La questione è dalla Suprema Corte dichiarata rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3, 4, 27, 41, 117 c. 1 (con riferimento agli artt. 8 e 1 prot. 1 CEDU) della Costituzione.

Si tratta, lo sottolineiamo subito, della seconda questione di legittimità costituzionale che investe – in poco più di un lustro e per ragioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle evocate dall’odierna ordinanza della Cassazione – il sistema delle pene accessorie della bancarotta fraudolenta, denunciandone ancora una volta la difficile compatibilità, innanzi tutto, con il principio di uguaglianza/ragionevolezza e con la necessaria funzione rieducativa della pena.

 

2. L’ultimo comma dell’art. 216 l.f., cui fa rimando l’art. 223 della medesima legge, statuisce che: «la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». L’orientamento maggioritario in giurisprudenza[1], nel rispetto del tenore letterale della norma, ritiene che le pene accessorie contemplate nell’art. 216 l.f. e conseguenti alla condanna per bancarotta fraudolenta ai sensi del medesimo articolo e – per i soggetti diversi dal fallito – dell’art. 223 l.f. siano pene ‘fisse’, obbligatorie sia nell’an che nel quantum.

 

3. Consapevoli della tendenziale illegittimità costituzionale di previsioni ‘rigide’ in materia sanzionatoria, sulla scorta dell’insegnamento della celebre sentenza del 1980[2] sul punto, nel gennaio e nell’aprile del 2012 due diversi giudici[3] avevano chiamato in causa – per ragioni sostanzialmente analoghe a quelle dell’odierna ordinanza, che pongono l’accento sulla tendenziale incompatibilità della pena fissa con il ‘volto costituzionale della pena’ – la Corte costituzionale, che tuttavia aveva ritenuto, nella sentenza 134 del 2012[4], la questione inammissibile.

Ciò, in ragione dello specifico petitum formulato dai giudici a quo, che avrebbero chiesto ai giudici costituzionali una pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato. Più precisamente, la richiesta dei giudici rimettenti era stata interpretata dalla Corte come mirante all’inserimento delle parole «fino a dieci anni» al posto della locuzione «per la durata di dieci anni». Una tale aggiunta avrebbe consentito l’applicazione, alle pene accessorie de qua, della regola generale prevista dall’art. 37 c.p., a norma del quale «quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, le pena accessoria ha una durata uguale a quella della pena principale inflitta».

La soluzione era stata tuttavia ritenuta dalla Consulta a lei preclusa, per l’assenza delle c.d. ‘rime obbligate’: ben si sarebbero potute prospettare, sostenne la Corte, soluzioni diverse al medesimo problema, e pertanto la questione – in assenza di un tertium comparationis – doveva dichiararsi inammissibile. La necessità di un intervento in materia, tuttavia, emergeva chiaramente dall’appello della Consulta al legislatore, affinché ponesse mano «ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma».

 

4. A distanza di cinque anni, e in assenza dell’invocato intervento legislativo, la questione è nuovamente rimessa dalla Suprema corte alla Consulta.

I giudici a quibus chiedono, questa volta, un diverso intervento sul testo dell’art. 216 l.f. – l’eliminazione, tout court, della locuzione «per la durata di dieci anni» – per ottenere, però, l’identico effetto perseguito dalle ordinanze di rimessione che originarono la sentenza del 2012: l’applicazione alle pene accessorie della bancarotta fraudolenta della regola generale di cui all’art. 37 c.p., con conseguente allineamento della durata della pena accessoria a quella della pena principale.

 

5. Evidente la rilevanza della questione, essendo le pene principali inflitte agli imputati tutte di gran lunga inferiori alla durata di dieci anni di reclusione.

Più articolato l’iter argomentativo percorso dal giudice a quo in punto di non manifesta infondatezza. La Cassazione ricorda, innanzi tutto, come proprio la Corte costituzionale, nella fondamentale sentenza 50 del 1980 (oltre che in una serie di altre pronunce, precedenti e successive), avesse affermato come la mobilità della pena – nel senso della sua predeterminazione all’interno di una cornice edittale – costituisca un corollario degli artt. 3 e, soprattutto, 27 c. 1 e 3 della Costituzione. Nel senso, rispettivamente: di rendere possibile un’adeguata differenziazione di trattamento tra fattispecie concrete di diversa gravità; di rendere quanto più ‘personale’ la responsabilità penale del singolo; e, conseguentemente, di garantire ad ogni condannato una risposta sanzionatoria effettivamente tendente alla sua, specifica, rieducazione.

Quanto poi alle allegate violazioni degli artt. (3,) 4 e 41 Cost., la Cassazione osserva che l’assenza di flessibilità delle pene accessorie in questione, comminate in misura fissa ed estremamente rigorosa, si traduce in una indiscriminata e pertanto ingiustificabile incidenza sulla possibilità del condannato di esercitare il suo diritto al lavoro – nella duplice funzione di fonte di sostentamento e strumento di sviluppo della personalità – nonché del suo diritto di iniziativa economica, esercitabile (ovviamente) anche attraverso l’attività di impresa.

Infine – conclude la Suprema corte – le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con il dettato dell’art. 117 Cost.: la nozione convenzionale di vita privata tutelata dall’art. 8 CEDU, infatti, ricomprende anche le attività professionali e commerciali, e i diritti e gli interessi patrimoniali che ne derivano sono garantiti dall’art. 1 Prot. 1 CEDU. Le limitazioni a tali attività, dunque, devono essere – oltre che previste dalla legge e perseguenti uno scopo legittimo – proporzionate rispetto allo scopo perseguito. Così non appare – osservano però i giudici – nel caso delle pene accessorie previste dall’ultimo comma dell’art. 216 l.f., che comminano una limitazione di ampia portata e onnicomprensiva dell’esercizio di tale diritto, senza che il giudice possa concretamente incidere sulla durata di tale limitazione.

 

6. Il testimone passa, allora, nuovamente alla Consulta, e niente affatto scontato appare l’esito della vicenda sottoposta ai giudici costituzionali.

Da un lato, è vero infatti che la Corte costituzionale si è già ‘esposta’ sul punto nel 2012, ritenendo – pur nella diversità (formale) del petitum – che il sostanziale risultato di rendere applicabile l’art. 37 c.p. alle pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta di cui all’ultimo comma dell’art. 216 l.f. non fosse ‘costituzionalmente obbligato’; di qui il rischio di un’altra pronuncia di inammissibilità.

Dall’altro, però, non può negarsi che – al di là degli esiti e della doverosa deferenza nei confronti del legislatore – un certo fumus boni iuris di fondatezza della questione si respirasse già cinque anni fa: riecheggiante chiaramente nel monito, rivolto dalla Corte al potere legislativo, sulla necessità di un sistema delle pene accessorie più rispettoso del principio rieducativo.

Nel senso di un necessario ripensamento di tali sanzioni, inoltre, si muove ormai chiaramente anche il legislatore. Il riferimento è qui alla ‘riforma Orlando’ e, precisamente, alla delega al Governo relativa all’ordinamento penitenziario. Più in particolare, fra i criteri e principi direttivi di cui al comma 85 l. 23 giugno 2017, n. 103, si legge – alla lettera u – una precisa indicazione nel senso di una «revisione del sistema delle pene accessorie improntata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato ed esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale».

Non è chiaro se si tratti di indicazione esclusivamente concernente, nelle intenzioni del legislatore, l'ordinamento penitenziario; in qualunque modo la si interpreti, comunque,  essa è certamente indicativa di una presa di coscienza rispetto al più generale problema del necessario rispetto del principio rieducativo da parte dell’intero apparato delle sanzioni penali, non solo della pena principale. Pur non affrontando esplicitamente il problema delle pene ‘fisse’, infatti, il legislatore della riforma tenta di favorire il reinserimento sociale del condannato intervenendo sulle pene accessorie costituenti un ostacolo alla rieducazione, perché sproporzionatamente lunghe rispetto alla durata della pena principale (anche se non è noto, mentre scriviamo, se e come il Governo abbia dato attuazione al criterio di delega)​. Un problema di sproporzione – quello segnalato nella materia penitenziaria – tipico anche delle sanzioni di cui all’ultimo comma dell’art. 216 l.f., e a cui l’accoglimento dell’odierna questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta metterebbe fine.

 


[1] L’ordinanza fa riferimento, in particolar modo, a Cass. pen., sez. 5, sent. 20 settembre 2007, n. 39337; Cass. pen., sez. 5, sent. 18 febbraio 2010, 17690; Cass. pen., sent. sez. 5, 10 novembre 2010, n. 269. Si veda inoltre, in questa Rivista, 18 febbraio 2015, P. Chiaraviglio, Quale la durata delle pene accessorie per il bancarottiere fraudolento?.

[2] C. Cost., sent. 14 aprile 1980, n. 50, in Riv. it. dir. proc. pen., con nota di C.E. Paliero, Pene fisse e Costituzione: argomenti vecchi e nuovi, 1891, 725 ss.

[3] Rispettivamente: Corte d’Appello di Trieste, ord. 20 gennaio 2011; Cassazione penale, ord. 21 aprile 2011.

[4] C. Cost., sent. 21 maggio 2012, n. 134, in questa Rivista, 1 giugno 2012, con nota di L. Varrone, Sui limiti del sindacato di costituzionalità delle previsioni sanzionatorie, in un caso concernente le pene accessorie interdittive per il reato di bancarotta fraudolenta e in Guida al diritto, con nota di V. Manes, Nei casi di condanna per bancarotta fraudolenta resta l’inabilitazione «fissa» dall’esercizio dell’impresa, 27, 2012, 62 ss.