ISSN 2039-1676


8 marzo 2011 |

Terza condanna dell'Italia a Strasburgo in relazione all'affaire Scoppola: la privazione automatica del diritto di voto in caso di condanna a pena detentiva contrasta con l'art. 3 Prot. 1 CEDU

Nota a Corte EDU, sez. II, sent. 18 gennaio 2011, Pres. Tulkens, ric. n. 126/05, Scoppola c. Italia (n. 3): si profila un nuovo intervento della Corte costituzionale

Sommario:
 
 
1. Introduzione.
 
La sentenza in commento ha fatto emergere in tutta la sua problematicità il contrasto della normativa interna sull’interdizione dai pubblici uffici – da cui discende, com’è noto, la privazione del diritto di elettorato attivo e passivo con l’art. 3 Prot. 1 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo a partire dalla sentenza Hirst c. Regno Unito (n. 2) del 2005; contrasto peraltro già evidenziato in sede di commento alla sentenza Frodl c. Austria dell’aprile 2010 [sintetizzata su Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 1291] e nuovamente messo in luce a seguito della sentenza Greens e M.T. c. Regno Unito, della quale si era dato conto, su questa rivista, nel monitoraggio di novembre 2010.
 
2. La vicenda all’origine della pronuncia in esame
 
Il ricorrente veniva condannato per omicidio volontario e per una serie di altri gravi reati alla pena di trent’anni di reclusione; pena che – all’esito di una complessa vicenda di successione di leggi [per la quale si rimanda alla sintesi della sentenza Scoppola c. Italia (n. 2), pubblicata su Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1956] – veniva poi sostituita in appello con quella dell’ergastolo. La sentenza diventava definitiva nel gennaio 2003, quando la Cassazione confermava la statuizione della Corte d’assise d’appello di Roma.
 
Nel settembre 2009, tuttavia, la Corte EDU rilevava – in riferimento a tale condanna – la violazione degli artt. 6 e 7 CEDU e, ai sensi dell’art. 46 CEDU, ordinava alle autorità competenti di assicurare che la pena dell’ergastolo illegittimamente inflitta al ricorrente fosse sostituita con quella della reclusione trentennale. La Corte di Cassazione, con sent. 11.2.2010 n. 16507, revocava allora la propria precedente sentenza, annullava quoad poenam la sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma e condannava l’imputato a trent’anni di reclusione.
 
La sentenza in commento è stata resa dalla Corte a seguito del secondo dei tre ricorsi del ricorrente a Strasburgo, concernente appunto la violazione dell’art. 3 Prot. 1 Cedu, che sancisce il diritto a libere elezioni. Dopo il rigetto del ricorso presentato alla commissione elettorale circondariale, alla Corte d’appello di Roma e alla Corte di Cassazione, Scoppola si rivolgeva infatti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando che la condanna all’ergastolo e alla conseguente interdizione  perpetua dai pubblici uffici aveva di fatto conculcato il suo diritto di voto, in contrasto con la suddetta norma convenzionale. Richiamava, in particolare, i principi affermati dalla grande camera nella menzionata sentenza Hirst c. Regno Unito (n. 2), evidenziando come anche nell’ordinamento italiano, come in quello inglese, la privazione del diritto di voto conseguisse automaticamente alla condanna penale e venisse inflitta in assenza di qualsiasi motivazione in ordine alle ragioni che la rendevano necessaria alla luce delle circostanze specifiche del caso concreto.
 
3. La pertinente normativa interna
 
Com'è noto, l’interdizione dai pubblici uffici costituisce, nell’ordinamento italiano, una pena accessoria (art. 19 c.p.), che come tale consegue direttamente alla condanna, annoverandosi tra gli effetti penali della stessa (art. 20 c.p.). L’art. 28 co. 1 n. 1) c.p. – ed è quel che qui più interessa – ricollega ad essa la privazione del diritto di elettorato attivo e passivo in tutti i comizi elettorali.
 
Può essere perpetua o temporanea (nel qual caso non può avere durata inferiore a un anno né superiore a cinque, ai sensi dell’art. 28 co. 4 c.p.): a norma dell’art. 29 c.p., la prima consegue alla condanna all’ergastolo o alla reclusione non inferiore a cinque anni, la seconda alla condanna alla  reclusione non inferiore a tre anni (nel qual caso ha durata quinquennale) o alla condanna per un delitto realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio (nel qual caso ha una durata pari a quella della pena principale, secondo l’art. 37 c.p.) [per un’analisi sintetica ma puntuale della materia, cfr. G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2009, p. 542 ss.].
 
4. La decisione della Corte
 

 

La Corte ha accolto il ricorso, rigettando le argomentazioni sostenute dal Governo italiano (secondo il quale la privazione del diritto di voto non conseguiva in modo automatico e generalizzato a qualsiasi condanna, ma solo a quelle per i reati più gravi, come tali puniti più severamente).

Pur muovendo dall’affermazione per cui il diritto di voto è suscettibile di limitazioni ad opera del legislatore nazionale, che gode di un ampio margine di apprezzamento in proposito, la Corte ha rivendicato il proprio sindacato sulla compatibilità convenzionale delle scelte operate dai parlamenti nazionali; sindacato volto a verificare  se la soluzione adottata a livello nazionale sia rispettosa del dettato dell’art. 3 Prot. n. 1 Cedu, e in  particolare se la limitazione al principio del suffragio universale riposi su giustificazioni legittime e se sia proporzionata.

I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la restrizione del diritto sancito dalla suddetta norma sia provvista di una base legale e persegua un fine legittimo (quello della prevenzione del crimine e del rispetto dello stato di diritto). Nondimeno, essi hanno reputando insussistente il requisito della proporzione, riscontrando anche a proposito della normativa italiana quel carattere di automatismo che già era stato censurato nella sentenza Hirst e nelle successive pronunce sul punto (qui menzionate in incipit). Automatismo evidenziato, osserva la Corte, dalla circostanza che della condanna all’interdizione dai pubblici uffici (e, conseguentemente, della privazione del diritto di voto) non venga neppure fatta esplicita menzione nella sentenza di condanna.

D'altra parte, la seconda sezione ha sottolineato che la fattispecie in esame si differenziava profondamente da quella oggetto della decisione M.D. c. Italia del 28 gennaio 2003 (in cui la Corte aveva dichiarato manifestamente infondato il ricorso sollevato dal ricorrente, che lamentava la violazione dell’art. 3 Prot. 1 Cedu in relazione all’interdizione del diritto di voto conseguente a condanna penale): in quel caso, infatti, la privazione del diritto di voto aveva avuto una durata limitata.

Nella già menzionata sentenza Frodl c. Austria, la Corte aveva inoltre affermato cui la privazione del diritto di voto non può considerarsi legittima laddove manchi un apprezzabile nesso tra la misura, da un lato, e la condotta e le condizioni personali dell’autore del reato, dall’altro; sicché e la sua applicazione dev’essere accompagnata da adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali, alla luce delle circostanze specifiche del caso concreto, la stessa si è resa necessaria.

Alla luce dell’autorità di cosa giudicata interpretata delle sentenze della Corte europea, che “preformando” la regola di decisione che verrà utilizzata in futuro per casi analoghi esplicano effetti “indiretti” nei confronti di tutti gli Stati membri, non solo di quello di volta in volta convenuto  [cfr. sul punto A. Gardino Carli, Stati e Corte europea di Strasburgo nel sistema di protezione dei diritti dell’uomo, Milano, 2005, p. 129 nonché, funditus, 139], il riferito passaggio motivazionale della sentenza Frodl consente di illuminare anche la decisione qui in commento, esplicitando le ragioni per cui l’automatismo della privazione del diritto di voto contrasta con l’art. 3 Prot. 1 Cedu.

Quanto all’equa soddisfazione ex art. 41 CEDU, la Corte ha ritenuto che l’accertamento della violazione della citata norma convenzionale costituisse di per sé adeguata riparazione, e non ha pertanto riconosciuto al ricorrente alcuna somma di denaro.

La Corte non ha qui evidenziato il carattere sistemico della violazione dell’art. 3 Prot. 1 Cedu, dal momento che la sentenza in commento è la prima pronuncia in cui essa ha riscontrato il contrasto della pertinente normativa italiana con la citata norma convenzionale. E’ assai probabile, tuttavia, che essa possa farlo in futuro, quando le sentenze in materia si moltiplicheranno.

 La previsione non risulta particolarmente difficile: nella menzionata sentenza Greens e M.T. c. Regno Unito del 23 novembre 2010 la quarta sezione – dopo aver rilevato che la normativa britannica era stata già censurata nella sentenza Hirst del 2005 e che davanti alla Corte pendono circa 2.500 ricorsi analoghi – ha infatti affermato la natura strutturale della violazione e ha pertanto "invitato" il Regno Unito a riformare la propria legislazione elettorale in maniera da assicurarne la conformità con i principi convenzionali.

Il che impone di interrogarsi sulle iniziative che le autorità italiane dovranno prendere per "conformarsi" alla sentenza Scoppola (n. 3) non appena essa diverrà definitiva, ai sensi dell’art. 46 CEDU, sia per riparare, se possibile, alla violazione già verificatasi, sia – e soprattuttoper evitare che in futuro se ne verifichino altre analoghe.

 
 
5. Le conseguenze di Scoppola (n. 3) sui i giudizi in corso e su quelli già conclusi con sentenza passata in giudicato
 
Prima di procedere a interrogarsi sulle modalità di adeguamento alla sentenza in commento, pare tuttavia opportuno mettere a fuoco gli orientamenti interpretativi della giurisprudenza di Strasburgo in tema di art. 3 Prot. 1 Cedu.

Sembra di poter dire, anzitutto, che le censure della Corte EDU non si appuntano sulle restrizioni del diritto di elettorato passivo, ma solo di quello attivo.

Inoltre – ed è questo il profilo che mi pare più significativo – dalla giurisprudenza della Corte non può ricavarsi alcun principio generale per cui i condannati a pena detentiva devono rimanere titolari del diritto di voto (e se ne sono stati privati devono essere messi in condizioni di esercitarlo nuovamente). I giudici di Strasburgo riconoscono, infatti, che la previsione da parte della legge di restrizioni all’esercizio del diritto di voto per coloro che hanno riportato condanne penali non è, di per sé, in contrasto con il dettato convenzionale, poiché essa riposa – come si legge nella sentenza Frodl c. Austria – sulle esigenze legittime di prevenzione generale, del rafforzamento del senso civico dei detenuti e del rispetto, da parte di questi ultimi, delle regole dello Stato di diritto.

Quel che la Corte EDU censura è, piuttosto, il fatto che la privazione del diritto di voto consegua automaticamente alla condanna a pena detentiva, senza che vi sia stato un accertamento giurisdizionale – che trovi eco in motivazione – circa la proporzione della misura in rapporto alla condotta dell’autore del reato, alle sue condizioni personali e alle circostanze fattuali del caso di specie.

Dal momento che l'automatismo censurato dalla Corte dipende direttamente dal dato normativo italiano, e segnatamente dagli articoli 20, 28 e 29 c.p., è evidente che il rimedio 'naturale' ai profili di illegittimità covenzionale denunciati dalla Corte dovrebbe essere costituito da una riforma legislativa di quelle disposizioni codicistiche, volte a conferire al giudice un potere di apprezzamento caso per caso sulla effettiva proporzione della misura, secondo i principi fissati in sede europea.

Nell'ipotesi tuttavia di una - più che prevedibile - inerzia legislativa anche su questo fronte, occorrerà ancora una volta interrogarsi sui possibili rimedi giurisdizionali alla accertata situazione di illegittimità convenzionale del nostro sistema normativo; con riferimento al triplice problema di assicurare a) un rimedio nel singolo caso di specie nel quale la Corte EDU ha accertato una violazione, b) di assicurare analogo rimedio a tutti coloro che si trovino in condizioni sovrapponibili o comunque simili, e c) di prevenire il formarsi di giudicati in contrasto con il diritto di Strasburgo.

Sotto i primi due profilii, il nodo cruciale è quello di individuare lo strumento idoneo a “paralizzare” l’esecuzione di un giudicato penale già formatosi ed in contrasto con la CEDU, così come interpretata dal "suo" giudice nel singolo caso concreto o in casi analoghi. Problema, questo, che già è stato oggetto delle celebri pronunce della Corte di Cassazione nei casi “Somogyi”, “Dorigo”, “Drassich” e, appunto, “Scoppola”.

Non è certo questa la sede per soffermarsi analiticamente su questo profilo, peraltro oggetto di un recentissimo contributo di Stefano Marcolini su questa rivista. Mi preme tuttavia sottolineare come l’esigenza di individuare uno strumento idoneo a rimuovere gli effetti del cd. “giudicato iniquo” perché in contrasto con la CEDU abbia carattere generale, potendo riguardare la violazione di qualsiasi norma convenzionale, e non solo dell’art. 6 CEDU (che pure è l’ipotesi più frequente, e sulla quale si è comprensibilmente appuntata l’attenzione della dottrina processualpenalistica): lo aveva, d’altra parte, già dimostrato la sentenza Scoppola (n. 2), nella quale i giudici di Strasburgo avevano riscontrato la violazione non solo dell’art. 6, ma anche dell’art. 7 CEDU, e – come si è ricordato più sopra – avevano "invitato" le autorità competenti a intervenire per porre rimedio alla stessa (ancorché sulla pronuncia nazionale si fosse formato il giudicato).
 
E’ peraltro lecito chiedersi se tale strumento possa essere individuato nel caso di specie, ancora una volta, nell’incidente di esecuzione, posto che l’art. 676 c.p.p. attribuisce al giudice dell’esecuzione, inter alia, una competenza a decidere in ordine alle pene accessorie. In quella sede, potrebbe ad esempio ipotizzarsi che il giudice dell'esezione effettui la valutazione sulla necessità della privazione del diritto di voto in rapporto alla condotta dell’autore del reato, alle sue condizioni personali e alle circostanze fattuali del caso di specie, secondo i principi ora enunciati dalla Corte EDU.
 
Tuttavia, al di là del fatto che tale competenza in executivis pare limitata all’applicazione, su richiesta del pubblico ministero, di una pena accessoria integralmente determinata dalla legge che consegue di diritto alla condanna (ex art. 183 disp. att. c.p.p.), senza dunque che residuino al giudice dell’esecuzione margini di discrezionalità per la suddetta valutazione, quest’ultima sembra comunque, e più radicalmente, preclusa dal dettato degli artt. 20, 28 e 29 c.p., ai sensi dei quali l’interdizione dai pubblici uffici – e la conseguente privazione del diritto di voto – discendono automaticamente dalla condanna a una pena detentiva di durata pari almeno a tre anni, ed è sufficiente una condanna a pena detentiva pari a cinque anni perché l’interdizione dai pubblici uffici e la conseguente perdita del diritto di voto siano perpetue.
 
Alla luce del tenore inequivoco delle suddette disposizioni del codice penale – che non possono essere interpretate in senso conforme alla CEDU, poiché tale interpretazione si porrebbe irrimediabilmente contra legemsarebbe dunque necessario investire della questione la Corte costituzionale. Esplicitando meglio il concetto: nel caso di specie, l'ostacolo all'esecuzione del dictum europeo non è rappresentato tanto dalla formulazione delle norme del codice di procedura penale - che anzi offre, attraverso l'art. 676 c.p.p., uno "spiraglio" per la soluzione della questione -, ma da quella delle norme del codice penale che, nel loro complesso, determinano la privazione automatica del diritto di voto del condannato a pena detentiva non inferiore a tre anni, e stabiliscono che la stessa sia perpetua nel caso in cui la pena sia pari almeno a cinque anni. 
 
Rispetto poi al problema sub c), relativo alla necessità di prevenire, nei processi in corso e nei processi futuri, la formazione di giudicati in contrasto con l'art. 3 Prot. 1CEDU, non potrà che pervenirsi - parimenti - alla conclusione della necessità di rimettere alla Corte la questione di costituzionalità delle citate norme del codice penale, nell’impossibilità di praticare un’interpretazione convenzionalmente orientata degli artt. 20, 28 e 29 c.p., rimanendo allo stato preclusa anche al giudice di merito la possibilità di praticare la valutazione sulla necessità della limitazione dell'esercizio del diritto di voto rispetto al fatto di reato commesso dall'imputato e alle circostanze del caso di specie che è imposta dal diritto di Strasburgo. 
 
Tanto in un caso quanto nell’altro, dunque, l’attore istituzionale chiamato a comporre il contrasto tra la normativa codicistica in tema di interdizione dai pubblici uffici e la CEDU dovrà essere la Corte costituzionale, secondo l’itinerario già ampiamente battuto dalle sentenze 348 e 349/2007, 311 e 319/2009, 93/2010.
 
Perché ciò sia possibile, i giudici a quibus – e più specificamente, i giudici di merito nel caso in cui il processo sia ancora in corso, quelli dell’esecuzione nel caso in cui sia già stato definito con una pronuncia passata in giudicato – dovranno sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 20, 28 e 29 c.p. (nonché, nella seconda ipotesi, dell'art. 183 disp. att. c.p.p.) per contrasto con l’art. 117 co. 1 Cost., letto alla luce dell’art. 3 Prot. 1 CEDU nell’interpretazione fornitane dalla Corte europea nelle sentenze Hirst c. Regno Unito, Frodl c. Austria, Greens e M.T. c. Regno Unito e, da ultimo, Scoppola c. Italia (n. 3).