ISSN 2039-1676


05 luglio 2011 |

L'indebita inclusione delle imprese individuali nel novero dei soggetti attivi del D.lgs. n. 231/2001

Nota a Cass. pen., sez. III, 15.12.2010 (dep. 20.4.2011), n. 15657, Pres. Ferrua, Est. Grillo

SOMMARIO:
 
 
 
1. L’inatteso revirement della Cassazione: il d.lgs. n. 231/2001 si applica anche alle imprese individuali.
 
“Iddio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, ma l’uomo non volle essergli da meno: creò, a immagine e somiglianza propria, la persona giuridica”[1]. Questa suggestiva metafora di Galgano aiuta a capire più di mille frasi come, sin dal principio dell’epoca moderna, lo scenario della vita economica sia popolato da due diverse categorie di soggetti: le persone fisiche e le persone giuridiche.
 
Com’è a tutti noto, il nostro ordinamento giuridico, nel rispetto del principio costituzionale della libertà di iniziativa economica sancito nell’art. 41, comma 1 Cost., rimette alla autonomia e discrezionalità dei singoli individui la scelta della veste giuridica sotto cui esercitare una attività economica: quella realistica e personalistica della impresa individuale (artt. 2082 e ss. c.c.) o quella finzionistica e meta-individuale della persona giuridica (artt. 2247 e ss. c.c.).
 
Anzi, si può dire che oramai sia un dato acquisito e consustanziale al nostro sistema di relazioni giuridico-economiche che, per precisa scelta normativa, impresa individuale ed ente collettivo dotato di personalità giuridica rappresentino due figure giuridiche autonome e differenti tra loro non sovrapponibili.
 
Ebbene, queste certezze secolari, apparentemente inattaccabili, sono state letteralmente travolte dalla sentenza in epigrafe che, in maniera disinvolta, ha trasformato quella che fino all’altro giorno era considerata una dicotomia insanabile in una equazione dell’assurdo, arrivando implicitamente a sostenere che l’impresa individuale è una persona giuridica.
 
Con questa decisione, infatti, la Suprema Corte, ribaltando un precedente orientamento giurisprudenziale[2], ha sostenuto la applicabilità della disciplina in materia di responsabilità da reato degli enti contenuta nel d.lgs. n. 231/2001 anche alle imprese individuali, dilatandone ulteriormente[3] (ma questa volta, vedremo, irragionevolmente) l’ambito soggettivo di operatività attraverso la asserita riconducibilità di queste ultime nella categoria degli enti collettivi dotati di personalità giuridica[4].
 
Nel corso di un procedimento penale a carico del titolare di una ditta individuale per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati in materia di raccolta, smaltimento e traffico illecito di rifiuti pericolosi e non, e per la violazione dell’art. 260, d.lgs. n. 152/06, la Cassazione, in sede cautelare, ha ritenuto possibile irrogare direttamente nei confronti dell’impresa individuale preposta allo svolgimento delle suddette attività la sanzione interdittiva temporanea della durata di un anno della revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di raccolta e smaltimento di rifiuti, dal momento che ai sensi dell’art. 24 terdel decreto 231 anche il delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. figura (sin dal momento antecedente la commissione dei fatti) nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti[5].
 
Ad avviso dei giudici di legittimità non sussistono ostacoli alla estensibilità del complesso e rigoroso impianto sanzionatorio creato dieci anni or sono per le persone giuridiche alle ditte individuali per diversi ordini di ragioni:
 
-- queste imprese, sebbene non espressamente richiamate nei commi 2 e 3 dell’art. 1 d.lgs. n. 231/2001 che, rispettivamente, attraverso due elenchi tassativi individuano in positivo ed in negativo i destinatari del decreto, rientrano nella generale categoria degli “enti forniti di personalità giuridica, nonché di società e associazioni anche prive di personalità giuridica”;
 
-- l’imputato persona fisica nel caso de quo non ha assolto l’onere probatorio su di lui incombente della dimostrazione che la propria impresa individuale fosse priva di personalità giuridica, ossia della indefettibile qualità al cui possesso la norma subordina la propria efficacia;
 
-- l’impresa individuale è assimilabile ad una persona giuridica – in particolare se uni personale, come la s.r.l. con unico socio – nella quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività;
 
-- queste ditte devono essere fatte rientrare necessariamente attraverso una interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 1, comma 2 d.lgs. n. 231 nel novero dei soggetti attivi per evitare palesi violazioni del principio di uguaglianza-ragionevolezza altrimenti implicate da “una disparità di trattamento tra coloro che ricorrono a forme semplici di impresa e coloro che, per svolgere l’attività, ricorrono a strutture ben più complesse ed articolate”;
 
-- la loro mancata indicazione esplicita nel suddetto art. 1, comma 2 può altresì essere interpretata come una “implicita inclusione” nell’area dei destinatari della normativa.
 
 
2. Un passo indietro: il precedente orientamento giurisprudenziale.
 
In realtà, già in una precedente occasione, la Suprema Corte si era pronunciata sul medesimo quesito fornendo, però, una risposta molto più convincente e ben argomentata dal contenuto diametralmente opposto.
 
Nella sentenza del 2004, infatti, la Cassazione aveva affermato che, secondo una corretta interpretazione letterale dell’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 231/2001, il raggio d’azione soggettivo della disciplina in materia di responsabilità da reato degli enti non poteva essere dilatato fino a ricomprendere anche le imprese individuali[6], essendo circoscritto unicamente all’intero “spettro dei soggetti di diritto meta-individuali”.
 
In quella circostanza, tale lettura restrittiva e fedele al tenore letterale del menzionato art. 1, comma 2, era stata fondata su tre argomenti essenziali:
 
-- la voluntas legisstorica del legislatore ricavata dal passaggio della relazione governativa di accompagnamento al decreto in cui veniva puntualizzato in modo univoco che la nuova disciplina concerneva esclusivamente gli enti collettivi;
 
-- l’esistenza di una diversità tra imprese individuali ed enti collettivi talmente accentuata da non rendere neppure ipotizzabile una disparità di trattamento con violazione dell’art. 3 Cost.;
 
-- e, soprattutto, la violazione eventualmente integrata da questa opzione ermeneutica del divieto di analogia in malam partemsancito in materia penale dall’art. 25, comma 2 Cost.
 
La solidità e la chiarezza argomentativa di questa decisione avevano fatto sì che da quel momento in poi i dubbi circa l’eventuale applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 anche alle imprese individuali sembrassero definitivamente appianati[7].
 
Il recente ribaltamento interpretativo operato dalla Cassazione ha invece inaspettatamente riproposto la questione sul tappeto, richiamando nuovamente la dottrina e la giurisprudenza a confrontarsi con essa.
 
 
3. La violazione del divieto di analogia.
 
Orbene, se il precedente orientamento ora sinteticamente ricostruito ha sin da subito raccolto unanimi consensi, non altrettanto può dirsi per il nuovo indirizzo interpretativo inaugurato con questo improvviso revirement del massimo organo nomofilattico.
 
Anzi. Già ad una prima lettura sia il decisum, sia l’iter motivazionale di questa sentenza appaiono censurabili, dal momento che la conclusione risulta fondata su un assunto errato; le basi teoriche addotte a suo sostegno sembrano traballanti; il mutamento di orientamento rispetto al precedente giurisprudenziale è immotivato.
 
Innanzi tutto, non è condivisibile il principio di diritto enunciato nella sentenza in forza del quale si ammette l’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 alle ditte individuali sulla base di una loro presunta identità strutturale con gli enti collettivi.
 
A ben vedere, esso non solo costituisce l’esito di un ragionamento analogico espressamente vietato dal legislatore in questo campo di materia per le ragioni che saranno esposte più avanti, ma, prima ancora, rappresenta il portato di un ragionamento analogico errato e contrario alla ratio stessa dell’analogia, la cui funzione (com’è noto) è quella di consentire all’interprete di colmare le lacune giuridiche derivate che si formano a causa della negligenza o superficialità del legislatore o dell’evoluzione scientifica e tecnologica in un ordinamento giuridico, ma non anche (neppure in caso di norme di favore) quelle originarie intenzionalmente create per una precisa e consapevole scelta di politica criminale[8]. In questi casi, l’eventuale riempimento della lacuna non assolve un ruolo ‘tollerato’ di mera integrazione praeter legem di una data disciplina, ma addirittura quello vietato della sua correzione contra legem[9].
 
Tale scelta ermeneutica determina invero una invasione di campo da parte dell’interprete in spazi deliberatamente non coperti dal legislatore nella normativa de qua, avendo egli inteso costruire nel d.lgs. 231/2001  un sottosistema penale e processuale valevole unicamente per gli illeciti attribuibili agli enti, intendendo con questo termine riferirsi solo alle persone giuridiche collettive e non anche alle persone fisiche ed alle imprese individuali.
 
Ed infatti l’art. 1, comma 2 del decreto quando annovera in maniera tassativa i suoi potenziali destinatari parla solo ed esclusivamente di enti, società ed associazioni, senza menzionare le ditte individuali. È quindi ovvio che nel momento in cui il successivo terzo comma del medesimo articolo elenca analiticamente e tassativamente i soggetti esclusi dall’operatività di questo novum normativo esso si soffermi solo su quelle categorie personologiche rientranti nel genus ‘ente collettivo’ e non prenda proprio in considerazione queste tipologie di imprese, perché enti collettivi autonomi certamente non sono.
 
Non è quindi possibile sostenere, come fa la Suprema Corte in uno dei passaggi nodali della sentenza in commento, che le ditte individuali posso essere fatte rientrare nel novero dei soggetti destinatari del d.lgs. n. 231/2001 senza intaccare il principio di legalità nell’ottica del divieto di analogia, perché appartengono “alla generale categoria degli enti forniti di personalità giuridica, nonché di società e associazioni anche prive di personalità giuridica” di cui parla l’art. 1, comma 2[10].
 
Restando nei limiti ampli dell’interpretazione estensiva consentita, le imprese individuali non possono reputarsi afferenti né al genus degli enti forniti di personalità giuridica, né tanto meno a quello delle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
 
Sotto il primo profilo, difettano della personalità giuridica, ammesso ovviamente che (con una forzatura già inaccettabile) le si possa considerare ‘enti’, in particolare alla stregua del d.lgs. 231 che nelle intenzioni del legislatore si riferisce solo agli enti collettivi; sotto il secondo profilo, invece, difettano evidentemente della veste formale di società o di associazione.
 
Una simile conclusione, allora, risulta fondata non su una (legittima) dilatazione del campo semantico e del significato letterale dei singoli termini utilizzati dal legislatore in questa disposizione (enti dotati di personalità giuridica, società ed associazioni), ma su una (illegittima) applicazione analogica di una normativa dettata per casi simili a casi da essa non disciplinati.
 
Ed infatti, sia che si consideri le disposizioni sanzionatorie contenute nel decreto n. 231/2001 come disposizioni aventi natura penale, sia che le si consideri aventi natura amministrativa o ibrida, la loro applicazione analogica è sempre sicuramente vietata[11].
 
Nel primo caso, il divieto è enunciato espressamente dall’art. 14 delle preleggi ed è ribadito implicitamente sia dall’art. 1 del codice penale sia, soprattutto, a livello costituzionale, dall’art. 25, comma 2.
 
Nel secondo caso, invece, il medesimo divieto può essere ricavato dall’attenta lettura dell’art. 2 del decreto 231 che, alla stregua di quanto fa l’art. 2 della 689/1981 per l’illecito amministrativo, enuncia il principio di legalità degli illeciti e delle sanzioni previsti per gli enti collettivi ed, implicitamente, quindi, anche il divieto di analogia.
 
Resta però un punto centrale da chiarire: perché si tratta di una analogia e non di una interpretazione estensiva?
 
Breve: perché imprese individuali e società commerciali sono due soggetti giuridici nettamente distinti tra loro e non accomunabili.
 
Come si legge nelle pronunce più recenti della Suprema Corte e nelle pagine dei più accreditati autori della dottrina commercialistica, a differenza delle società:
 
“la ditta individuale coincide con la persona fisica titolare di essa e, perciò, non costituisce un soggetto giuridico autonomo, sia sotto l’aspetto sostanziale che sotto quello processuale”[12];
 
“l’impresa non costituisce un soggetto giuridico distinto dalla persona del suo titolare, sicché alla morte di quest’ultimo i rapporti ad essa inerenti si trasmettono agli eredi”[13];
 
“persona fisica e persona giuridica si distinguono non solo per forma, ma anche per natura”[14].
 
Inoltre, quando una società si trasforma in una impresa individuale o viceversa non si può affermare – come per la trasformazione di una società in un altro tipo di società – che la società, senza estinguersi, continui ad esistere sotto una diversa forma giuridica, dal momento che in questo caso si “determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti”[15] preceduto dallo scioglimento e dalla liquidazione della prima.
 
Peraltro, la non assimilabilità delle due categorie di soggetti è indirettamente asseverata dalle notevoli differenze di disciplina per esse previste in più punti nel nostro ordinamento giuridico sulla base del dato formale della diversa natura dell’impresa individuale e societaria.
 
Basti pensare, a titolo puramente esemplificativo, ai distinti criteri e formalità dettati nei Titoli II e V del Libro Quinto del codice civile per la individuazione dell’inizio e della fine dell’attività di impresa, per la tenuta delle scritture contabili[16], per il fallimento e le altre procedure concorsuali, nonché alle specifiche fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 2621 e ss. per i reati societari.
 
O ancora più facilmente, per avere una ulteriore conferma della non sovrapponibilità delle due figure soggettive, è sufficiente provare a tracciare in maniera sintetica le principali caratteristiche dell’una e dell’altra tipologia di impresa.
 
Nella ditta individuale impresa ed imprenditore sono una sola persona con un unico patrimonio confuso, ed infatti la prima porta il nome del secondo per garantire la conoscibilità da parte dei terzi e, solo eventualmente, in aggiunta può essere dotata anche di un nome commerciale.
 
 In questa tipologia di impresa l’imprenditore è responsabile dei debiti dell’impresa con l’insieme dei suoi beni, compresi quelli che ha acquistato con i suoi congiunti, se è in regime di comunione dei beni; le formalità di creazione sono ridotte al minimo, essendo sufficiente la registrazione alla Camera di commercio e la richiesta di una partita IVA; i proventi sono indicati e tassati nella dichiarazione dei redditi dell’imprenditore.
 
Nella società, invece, ente e soci sono soggetti giuridicamente distinti aventi ciascuno un patrimonio proprio, ed infatti la società, essendo una ‘nuova persona’, ha un nome proprio (denominazione sociale), un domicilio (sede sociale) e dispone di un fondo minimo che costituisce il suo patrimonio iniziale per far fronte ai primi investimenti ed alle prime spese (capitale sociale).
Inoltre, nelle società di capitali (s.r.l. e s.p.a.) la proprietà non è conosciuta all’esterno e spesso non coincide con gli amministratori i quali agiscono in nome e per conto della stessa rispettando numerose formalità; per la costituzione sono richieste formalità particolari, quali la redazione, approvazione e registrazione di statuti, l’iscrizione in registri pubblici, ecc.; in caso di difficoltà ed in assenza di gravi difetti nella gestione che potrebbero essere ascritti ai dirigenti, i beni personali di questi saranno al sicuro dai creditori dell’impresa, con l’eccezione della società in nome collettivo nella quale ciascun è solidalmente ed illimitatamente responsabile con la società; e per la società in accomandita, ma solo per i soci accomandatari; il reddito è tassato separatamente e soggiace ad un regime fiscale differente rispetto a quello delle persone fisiche.
 
Essendo allora così netta sul piano normativo la differenza tra questi due soggetti, impresa individuale e società, appare chiaro che la prima, sebbene per alcuni aspetti presenti similitudini con talune imprese societarie, non può assolutamente essere accomunata a queste ultime.
 
A nulla vale obiettare come fa la Corte in un altro passaggio della motivazione che l’impresa individuale sia cosa distinta dalla ditta individuale e, a differenza di questa, possa essere assimilata agli enti dotati di personalità giuridica.
 
Anche questa affermazione è imprecisa, poiché impresa (o azienda) individuale e ditta individuale (spesso usate come sinonimi nel linguaggio comune) sono formalmente due cose distinte, ma in realtà restano pur sempre due facce della stessa medaglia, vale a dire della persona fisica imprenditore che esercita un’attività di impresa.
 
Mentre la prima indica ai sensi degli artt. 2082 e 2555 c.c. il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività economica finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o di servizi, “la ditta [invece] è un bene immateriale costituito dal nome sotto il quale l’imprenditore svolge la propria attività, non un soggetto di diritto – persona fisica o giuridica che sia – od anche soltanto centro autonomo d’imputazione d’interesse”[17].
 
In ogni caso, a qualunque dei soggetti faccia riferimento la Corte (ditta o impresa individuale), non sembra mai possibile sostenere la loro riconducibilità nel novero degli enti dotati di personalità giuridica di cui parla l’art. 1, d.lgs. n. 231/2001 perché, come ben si comprende da una lettura delle disposizioni del c.c. dettate per le imprese negli artt. 2188 e ss. c.c., imprenditore ed impresa non sono soggetti distinti, ma sovrapponibili e coincidenti: tutte queste norme, infatti, pur disciplinando oneri ed obblighi delle imprese si rivolgono sempre per il loro adempimento all’imprenditore persona fisica che ne è il titolare (si pensi, tra le tante, agli artt. 2189 e 2195 c.c. in materia di iscrizione nel registro delle imprese).
 
 
4. Gli altri punti deboli della sentenza.
 
Se allora si parte dal presupposto della non accomunabilità di una impresa individuale ad un ente collettivo dotato di personalità giuridica, risulta poi del tutto infondato anche l’altro argomento usato dalla Corte a sostegno della sua tesi e strettamente connesso al primo, quello del mancato assolvimento da parte dell’imputato persona fisica dell’onere probatorio della dimostrazione che la propria impresa individuale fosse priva di personalità giuridica.
 
Non essendo la ditta individuale un ente collettivo neanche eventualmente dotato di personalità giuridica, non può mai incombere sull’imputato titolare della stessa un simile onus probandi.
 
Come se ciò non bastasse, la sentenza in commento presta il fianco ad ulteriori obiezioni difficilmente superabili.
 
In primo luogo, sembra opinabile anche la specifica assimilazione operata dalla sentenza in epigrafe dell’impresa individuale alla persona giuridica, in particolare con la società a responsabilità limitata con un unico socio, nella quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività.
 
Come si è visto, nelle ditte individuali l’impresa coincide nominalisticamente, giuridicamente e patrimonialmente con l’imprenditore persona fisica rappresentando la sua ‘proiezione crommerciale’, mentre nelle società (pur confondendosi talvolta con la persona fisica) conserva sempre una sua autonomia nominale, giuridica e patrimoniale.
 
Ma, soprattutto, appare poco solido il fulcro centrale su cui ruota l’intero ragionamento della Corte, vale a dire l’affermazione in base alla quale le ditte individuali devono essere incluse nel novero dei soggetti destinatari del d.lgs. n. 231 attraverso un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 1, comma 2 d.lgs. n. 231 allo scopo di evitare palesi violazioni del principio di uguaglianza ragionevolezza a causa della previsione di un trattamento di favore riconosciuto alle persone che ricorrono, per lo svolgimento di attività di impresa, alla veste giuridica agile ed informale della ditta individuale, rispetto a quelle che ricorrono alla forma ben più complessa ed articolata della società.
 
È evidente che la mancata inclusione delle ditte individuali nella platea dei destinatari della responsabilità da reato degli enti risponde ad una precisa opzione politico-criminale del legislatore sicuramente non censurabile per manifesta irragionevolezza o per violazione del principio di uguaglianza sostanziale, proprio perché fondata sulle accennate, lampanti, differenze tra loro intercorrenti.
 
Come si è visto, nel nostro ordinamento il legislatore lascia libero l’individuo che voglia esercitare un’attività imprenditoriale di scegliere in piena autonomia, valutando attentamente i costi ed i benefici connessi alla sua opzione, se farlo attraverso la veste giuridica della ditta individuale o quella della società, anche unipersonale.
 
Da questa libera opzione preliminare discendono le tante differenze sul piano della disciplina cui prima si è accennato.
 
Differenze che trovano una loro precisa ragion d’essere in dati giuridici ed in valutazioni politiche ben chiare e che nessuno si sogna di mettere in dubbio arrivando, ad esempio, a sostenere (sulla base delle medesime argomentazioni addotte in questa sede) che la disciplina dettata per i reati societari dagli artt. 2621 c.c. e ss. per i soli enti collettivi debba necessariamente essere applicata, attraverso una interpretazione costituzionalmente conforme (?), anche alle ditte individuali per evitare indebiti trattamenti di favore nei loro confronti!
 
L’esclusione, sebbene solo implicita, delle imprese individuali dal raggio di azione del d.lgs. n. 231/2001 appartiene, quindi, al nucleo intangibile della discrezionalità politica del legislatore ed è strettamente correlata alla scelta di fondo compiuta in tanti punti del nostro ordinamento giuridico di prevedere un trattamento differenziato tra persone giuridiche e persone fisiche esercenti attività d’impresa tramite ditte individuali[18].
 
Al contrario, proprio il principio di uguaglianza sostanziale asseritamente violato da una interpretazione letterale dell’art. 1, comma 2 d.lgs. 231/2001, legittima l’esclusione delle imprese individuali dal campo dei soggetti attivi del decreto, poiché soggetti diversi meritano (recte: impongono) trattamenti giuridici diversi.
 
Ciò significa, quindi, che quella prospettata dalla Cassazione, piuttosto che una interpretazione costituzionalmente conforme, è una interpretazione in aperto contrasto con la Carta fondamentale, integrando una palese violazione, da un lato, del divieto di analogia sancito dall’art. 25, comma 2 della stessa Costituzione (se, ovviamente, si reputa l’articolo 1 del decreto disposizione avente natura penale), dall’altro, del principio di uguaglianza sostanziale enunciato dall’art. 3 Cost.
 
Naturalmente le considerazioni appena espresse inducono a ritenere improprio anche l’ultimo passaggio della parte motiva della sentenza, quello in cui si afferma che “la mancata indicazione delle ditte individuali nel suddetto art. 1, comma 2 non equivale ad esclusione, ma, semmai ad una implicita inclusione dell’area dei destinatari della norma delle imprese individuali”. Come si è detto, le ditte individuali non figurano né in tale elenco, né in quello del comma 3 dei soggetti espressamente esclusi dall’ambito di operatività del d.lgs. n. 231, perché non sono enti e, quindi, non possono mai a nessun titolo rientrare in tali categorie.
 
Risulta davvero arduo leggere nei due commi in questione un obiter dictum che lasci spazio alla inclusione delle ditte individuali nello scenario dei soggetti attivi della responsabilità da reato degli enti, soprattutto se si tiene conto che questa scelta interpretativa si sostanzia in una scelta palesemente contra legem con effetti contra reum.
 
Il silenzio legislativo serbato sul punto nell’art. 1 comma 3, d.lgs. n. 231/2001 testimonia, anzi, una volta di più, se ce ne fosse ancora bisogno in un corpus normativo dedicato agli enti collettivi, che le imprese individuali non figurano e non possono proprio figurare tra i possibili soggetti attivi.
 
Inoltre, contro tale soluzione milita anche una ragione di carattere prevalentemente processuale: la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale[19].
 
Non essendo dotata l’impresa individuale di una autonomia patrimoniale e giuridica e coincidendo con la figura dell’imprenditore persona fisica, è evidente che l’eventuale irrogazione nei suoi confronti delle sanzioni previste nel d.lgs. n. 231 per gli enti nel cui interesse o vantaggio sono stati commessi da parte dei loro rappresentati persone fisiche i reati richiamati nella parte speciale del decreto, integrerebbe una palese violazione di tale principio.
 
Si finirebbe, infatti per punire due volte lo stesso soggetto, la persona fisica imprenditore, per un identico fatto: la prima in quanto autore materiale (o concorrente omissivo nel caso di reato commesso dal sottoposto), la seconda in quanto titolare della impresa individuale che con lui si immedesima[20].
 
Non si può poi trascurare che la scelta ermeneutica operata dai giudici di legittimità in questa pronuncia contrasta anche con le ragioni di fondo che in un recente passato hanno legittimato l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico nel 2001 di una responsabilità da reato degli enti collettivi[21].
 
Da un punto di vista criminologico, infatti, il rivoluzionario superamento del principio societas delinquere non potest e la conseguente attrazione degli enti collettivi nell’orbita del diritto penale è stato giustificato proprio dalla necessità di colmare dei vuoti di tutela presenti nel sistema penale a causa della sempre più frequente constatazione della esistenza di una serie di reati direttamente ascrivibili proprio alle persone giuridiche. Ed invero il previgente assetto ordinamentale, contemplando come unico soggetto responsabile per la commissione di reati la persona fisica, finiva con l’assicurare all’ente collettivo nel cui interesse o vantaggio l’illecito penale era commesso l’assoluta impunità e con il trasformare soventein capro espiatorio l’autore materiale dell’illecito penale, o con l’alterare i criteri per la commisurazione della pena pecuniaria nella convinzione che questo potesse essere l’unico modo per ‘colpire’ in qualche misura anche l’ente.
 
Diversamente, nei confronti delle imprese individuali tali esigenze punitive non sono state ravvisate, dal momento che in esse l’eventuale reato è sempre ritenuto direttamente riconducibile al titolare dell’impresa (anche nel caso di fatto commesso da un sottoposto a titolo di omesso controllo) il quale, peraltro, risponde con il proprio patrimonio della sanzione pecuniaria irrogata. In questo tipo di azienda, infatti, non è ravvisabile una scissione tra la persona fisica autrice della condotta delittuosa ed il destinatario della sanzione penale, sicché la previsione di una sua autonoma responsabilità penale non assolverebbe alcuna funzione di general-prevenzione positiva[22].
 
Solo, quindi, in una remotissima (e non augurabile) prospettiva de iure condendo, attraverso una esplicita presa di posizione del legislatore volta a ribaltare tali scelte politico-criminali, si potrebbe avverare l’attrazione delle imprese individuali nelle maglie della responsabilità da reato degli enti collettivi per i soli fatti commessi dai ‘sottoposti’, rispetto ai quali si potrebbe eventualmente verificare una differenziazione significativa tra l’autore del reato ed il titolare dell’impresa che dallo stesso consegue un vantaggio[23].
 
Ed ancora, la insostenibilità di questa tesi si ricava anche attraverso una interpretazione sistematica dell’art. 1 del decreto con i criteri di imputazione dei reati agli enti elencati nell’art. 5 d.lgs. 231/2001.
 
I due requisiti ivi menzionati dell’interesse e del vantaggio dell’ente presuppongono che esista come secondo polo di riferimento di questo giudizio di imputazione c.d. oggettiva un soggetto giuridicamente e patrimonialmente autonomo rispetto alla persona fisica autore materiale dei comportamenti penalmente rilevanti, cosa questa che, come si è visto in precedenza, manca nel caso di ditta individuale, dove l’impresa si confonde con l’imprenditore.
 
Come se ciò non bastasse, un’ennesima conferma dell’esclusione delle imprese individuali dal cerchio dei destinatari del d.lgs. n. 231/2001 può essere indirettamente desunta anche dalla lettura dell’art. 6, comma 4 dello stesso decreto in cui il legislatore, soffermandosi sui modelli di organizzazione e gestione, precisa che “Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente”.
 
Questa disposizione, infatti, nella parte in cui prende atto della possibilità che esistano imprese aventi base personale ristretta prevedendo per esse regole diverse in materia di organismo di vigilanza, statuisce espressamente che queste devono essere ‘enti’, alludendo con tale termine solo agli enti collettivi ed, inversamente, escludendo le imprese individuali che enti giuridici collettivi non possono essere considerate.
 
Anche l’art. 27 d.lgs. n. 231/2001 avvalora tale tesi poiché, nella parte in cui prevede che dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria l’ente risponde con il proprio patrimonio, esso finisce con il riferirsi implicitamente solo alle persone giuridiche in senso stretto o agli altri enti collettivi dotati di una autonomia giuridica e patrimoniale e non anche alle imprese individuali che ne sono prive[24].
 
Infine, nel d.lgs. n. 231/2001 può essere rinvenuta ancora un’altra disposizione sintomatica della scelta politico-criminale di circoscrivere l’operatività del nuovo sistema di responsabilità da reato alle sole persone giuridiche: ci riferiamo all’art. 39 che in materia di rappresentanza processuale statuisce che “l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”.
 
Presupposto non scritto di tale disposizione normativa è l’autonomia giuridica tra l’impresa nel cui interesse o vantaggio è stato commesso il reato ed il suo legale rappresentante; autonomia che certamente non sussiste nei casi di imprese individuali che, invece, costituiscono solo una proiezione commerciale della persona fisica titolare.
 
Come si è anticipato in apertura del presente lavoro, la sentenza in commento si espone anche a dei rilievi critici per quanto concerne il percorso motivazionale seguito.
 
Ed infatti, trattandosi di una decisione che realizza un ribaltamento di un orientamento giurisprudenziale consolidato con effetti in malam partemper il reo il quale viene considerato penalmente responsabile per un fatto che nel momento in cui l’ha commesso non era punito come reato, la Suprema Corte avrebbe dovuto seguire un iter argomentativo leggermente diverso.
 
Più precisamente, trovandosi al cospetto di un caso di overruling negativo – pur in assenza di una disciplina normativa ad hoc nel nostro sistema penale – la Cassazione prima di enunciare il nuovo e contrapposto principio di diritto con le relative motivazioni avrebbe dovuto necessariamente confutare il precedente.
 
Nel caso di specie, invece, essa si è limitata semplicemente ad illustrare le nuove ragioni addotte a supporto della conclusione opposta, trascurando del tutto il problema (cruciale, come si è visto) della compatibilità con il divieto di analogia di tale soluzione interpretativa che era stato alla base della precedente decisione e confutando, solo superficialmente, gli altri argomenti in quella medesima sede addotti dalla Cassazione.
 
 
5. Quale rimedio?
 
Alla luce di quanto visto, sembra davvero che la Corte in questa circostanza sia pervenuta ad una conclusione in punto di diritto decisamente censurabile.
 
Ciò nonostante la questione può ancora considerarsi ‘aperta’ non solo in generale per il futuro, non essendo per fortuna tale precedente in alcun modo vincolante per la giurisprudenza che dovesse nuovamente confrontarsi con essa, ma anche nello specifico per il caso in esame. Tale decisione, nonostante provenga dalla Suprema Corte, potrà ancora essere confutata, dal momento che è stata emessa in sede cautelare ed il processo penale è ancora in corso di svolgimento.
 
Il decreto legislativo n. 231/2001, infatti, detta una specifica disciplina proprio per eventualità di questo tipo, in cui il giudicato cautelare della Cassazione sia poi smentito dal giudice (anche di prime cure) del processo di cognizione.
 
Ed infatti, ai sensi dell’art. 66 d.lgs. n. 231/2001, è riconosciuta la possibilità per quest’ultimo di pronunciare una sentenza di proscioglimento comprensiva dell’indicazione esplicita della causa nel dispositivo nei casi in cui constati che l’illecito amministrativo contestato all’ente non sussista e, contestualmente, ai sensi dell’art. 68 quella di dichiarare nella medesima sentenza “la cessazione delle misure cautelari eventualmente disposte”.
 
La speranza, quindi, è che nel caso in questione il tribunale di merito, approfondendo meglio l’argomento su basi probatorie più solide, ribalti le affermazioni della Suprema Corte e prosciolga l’impresa individuale ritenendola estranea alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 231/2001 per i soli enti collettivi.


[1] F. Galgano, Il rovescio del diritto, Milano, 1991, 23.
[2] Cass., Sez. VI, 3 marzo, 2004, n. 18941, in Cass. pen., 2004, 4047 ss. con nota di P. Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità alle imprese individuali della responsabilità da reato prevista per gli enti collettivi: spunti di diritto comparato. Sul punto sia consentito rinviare al nostro Profili pratici della questione circa la natura giuridica della responsabilità da reato degli enti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 151 ss.
[3] La Corte di Cassazione, con una pronuncia di poco precedente, ha sancito l’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 anche alle società con partecipazione pubblica, mista o totale, esercenti attività economiche. Infatti, per Cass., Sez. IV, 10 gennaio 2011, n. 234, in Dir. & Giust., 14 gennaio 2011, nonché in Guida dir., 2011, n. 5, 101, con nota di R. Bricchetti, “anche l’ente pubblico economico cui è affidata la gestione del servizio di smaltimento rifiuti è soggetto alle norme sulla responsabilità amministrativa degli enti, inclusa l’applicabilità della misura cautelare della sanzione interdittiva dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi e sussidi e la revoca di quelli già concessi. La natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esonero dalla disciplina in questione; deve necessariamente essere presente anche la condizione dell’assenza di svolgimento di attività economica da parte dell’ente medesimo”.
[4] La sentenza, è stata già pubblicata in Guida dir., 2011, n. 20, 76; nonché in Dir. & Giust., 30 aprile 2011, con un primo breve commento redazionale.
[5] Com’è noto, tale articolo che ha dilatato l’ambito oggettivo di incidenza del decreto 231 è stato introdotto nell’onnicomprensivo e disorganico “pacchetto sicurezza” del 2009 e, precisamente, dall’art. 2, comma 29, l. 15 luglio 2009, n. 94.
[6] Sul punto sia consentito rinviare al nostro Profili pratici, cit., 155 ss.
[7] In dottrina, la non estensibilità del decreto n. 231 anche alle imprese individuali è stato reputato un aspetto talmente scontato da non meritare di esser preso in seria considerazione. In alcuni dei più recenti lavori in materia di responsabilità da reato degli enti, infatti, non c’è alcun accenno ad esso (G. de Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, 121 ss.; A. D’Avirro-A. Di Amato, La responsabilità da reato degli enti, Padova, 2009); mentre in altri ci sono solo rapidi riferimenti al fine di ribadirlo (O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di G. Lattanzi, Milano, 2005, 34; A. Manna, Lineamenti generali del diritto penale d’impresa, in Corso di diritto penale dell’impresa, a cura di Id., Padova, 2010, 48; M. Pelissero, La responsabilità degli enti, in F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, I, 13ª ed., a cura di C.F. Grosso, Milano, 2007, 857 s.).
[8] G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di diritto Penale, 3ª ed., Milano, 2009, 54 ss.
[9] Con riferimento ad un’altra recente decisione della Suprema Corte analoghe considerazioni critiche in materia di applicazione analogica di disposizioni normative del d.lgs. n. 231/2001 sono svolte da M. Scoletta-P. Chiaraviglio, Corruzione internazionale e sanzioni interdittive per la persona giuridica: interpretazione estensivo-integratrice o sentenza “additiva” in malam partem, in Soc., 2011, 699.
[10] Peraltro, in una recentissima decisione delle Sezioni Unite penali, 23 giugno 2011 (non ancora depositata), in questa rivista, 27 giugno 2011, con nota redazionale di G. Leo, è stato espressamente scandito il valore vincolante svolto anche in questa materia dal principio di legalità. In tale pronuncia, infatti, la S.C., facendo leva proprio su tale fondamentale principio, ha sancito che non sussiste la responsabilità da reato dell’ente in riferimento ai fatti criminosi di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione contemplati dall’art. 174-bis d.lgs. n. 58 del 1998 (TUIF) poi formalmente abrogato dal d.lgs. n. 39 del 2010, in quanto questo articolo non è incluso nell’elenco dei reati presupposto previsti dall’art. 25-ter del d.lgs. n. 231 del 2001.
[11] Dello stesso avviso sono A. Manna, Lineamenti generali del diritto penale d’impresa, cit., 48; M. Pelissero, La responsabilità degli enti, cit., 858, i quali ritengono che l’inclusione a livello interpretativo delle ditte individuali nello spettro del d.lgs. n. 231 determinerebbe una indebita estensione analogica in malam partem dell’art. 1.
[12] Così Cass. civ., 17 gennaio 2007, n. 977. In termini sostanzialmente identici cfr. F. de Siati, Sub art. 2563 c.c., in Codice civile commentato, a cura di G. Alpa-V. Mariconda, Milano, 2009, 2931.
[13] Testualmente M. Del Conte, Sub art. 2082 c.c., in Codice civile commentato, cit., 33; in senso analogo cfr. anche Cass. civ., 2 marzo 1973, n. 573, in G.c.m.a., 1973, 3.
[14] Cass. civ., 30 gennaio 1997, n. 965.
[15] Cass. civ., 6 febbraio 2002, n. 1593.
[16] Sul punto cfr. P. Comoglio, Sub art. 2214, in Codice civile commentato, cit., 705, il quale osserva che “Proprio alla luce di tale funzione, la personalità dell’obbligo opera in modo differente, a seconda che si tratti di impresa individuale oppure di impresa collettiva (società, associazione). Nel primo caso, l’obbligo ricade personalmente sullo stesso imprenditore (e sull’institore, ove questi sia stato nominato ai sensi dell’art. 2205 c.c.), mentre nel secondo esso grava personalmente sugli amministratori, sui direttori generali (ove vi siano) e sui liquidatori (durante la liquidazione), ma non sui soci, né sui sindaci, né sulle società di revisione”.
[17] Così Cass. civ., S.U., 27 ottobre 2006, n. 23073.
[18] Come già aveva rivelato la Corte nella precedente sentenza, sebbene nel testo del d.lgs. n. 231/2001 manchi ogni riferimento al problema della possibilità di includere tra i suoi destinatari anche le imprese individuali, una risposta molto chiara la si rinviene attraverso il canone ermeneutico dell’interpretazione storica e la lettura dei lavori preparatori. Nella Relazione allo schema del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, in Guida dir., 2001, n. 21, 19, era espressamente specificato, infatti, che, tra le ragioni dell’emanazione della riforma vi era quella della consapevolezza di “pericolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa”; e che destinatario della stessa era l’ente collettivo, inteso “quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell’interesse dell’ente”.
[19] Sottolinea tale aspetto M. Pelissero, La responsabilità degli enti, cit., 858.
[20] Peraltro, per una parte della dottrina il principio del ne bis in idem sostanziale sarebbe violato anche dalla applicazione di questa nuova normativa agli enti collettivi a base personale ristretta. Sul punto cfr. O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, cit., 29 e ss.; C. Piergallini, L’apparato sanzionatorio, ivi, 203.
[21] Sul punto si rinvia a C. De Maglie, L’etica e il mercato, Milano, 2002, 245 ss., nonché, sia consentito, al nostro ‘Crisi’ del diritto penale e prospettive di riforma. La responsabilità (penale?) delle persone giuridiche, in Il nuovo sistema sanzionatorio del diritto penale dell’economia: depenalizzazione e problemi di effettività, a cura di A. De Vita, Napoli, 2002, 192 ss.
[22] Così P. Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità, cit., 4049.
[23] Avanza questa possibile soluzione de iure condendo P. Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità, cit., 4051.
[24] In tal senso cfr. M. Pelissero, La responsabilità degli enti, cit., 857; nonché P. Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità, cit., 4050.