ISSN 2039-1676


16 maggio 2012 |

Confisca degli "ecomostri" di Punta Perotti: la Corte di Strasburgo condanna l'Italia a versare alle imprese costruttrici 49 milioni di euro a titolo di equa riparazione

Nota a Corte EDU, sez. II, sent. 10 maggio 2012, ric. n. 75909/01, Sud Fondi e altri c. Italia

Giunge al suo epilogo l'interminabile vicenda degli "Ecomostri" di Punta Perotti: con la sentenza Sud Fondi e altri c. Italia - che può leggersi in calce al presente documento - la Corte europea, lo scorso 10 maggio 2012, si è, infatti, pronunciata sulla richiesta di risarcimento presentata dalle società costruttrici Sud Fondi, Mabar e Iami per la confisca dei terreni siti in Bari presso la zona costiera di Punta Perotti e del complesso immobiliare che su di essi insisteva, riconoscendo alle imprese costruttrici, a titolo di equa riparazione ex art. 41 Cedu, 49 milioni di euro complessivi, a fronte di una richiesta da parte delle ricorrenti di 571 milioni di euro.

La sentenza che qui si segnala fa seguito alla precedente pronuncia Sud Fondi e altri c. Italia del 20 gennaio 2009, con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato il nostro Paese per la violazione degli artt. 7 (che riconosce il principio di legalità in materia penale) e 1 Prot. 1 (che sancisce invece il diritto di proprietà) Cedu in relazione alla confisca degli "Ecomostri" di Punta Perotti. Si tratta invero di una pronuncia ben nota, della quale pare comunque opportuno ripercorrere brevemente gli snodi principali prima di esaminare in maniera specifica la pronuncia con cui  la Corte europea ha accordato alle parti lese un'equa soddisfazione a fronte della riconosciuta violazione dei loro diritti fondamentali.

I responsabili delle società costruttrici, rinviati a giudizio per una serie di illeciti penali tra cui il reato di lottizzazione abusiva per aver edificato, previo rilascio del permesso di costruire da parte del Comune di Bari, un vasto complesso immobiliare nella zona di Punta Perotti, venivano infine assolti nel 2001 dalla Corte di cassazione ex art. 5 c.p., per assenza dell'elemento soggettivo dovuta ad un errore inevitabile sulla legge penale determinato dalla estrema complessità della legislazione regionale applicabile al caso di specie. La Suprema corte confermava, peraltro, la confisca urbanistica, prevista dall'art. 19 l. 47/1985 (ora dall'art. 44, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, c.d. testo unico dell'edilizia), dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere che su di essi insistevano, in ossequio all'orientamento all'epoca dominante in giurisprudenza, secondo il quale la confisca urbanistica ha natura amministrativa (e non penale) e deve pertanto ritenersi  applicabile sulla base dela mera sussitenza materiale del fatto, e dunque anche in caso di assoluzione "perché il fatto non costituisce reato", a prescindere dalla affermazione di una piena responsabilità penale degli autori.

Con la pronuncia resa nel gennaio del 2009 i giudici di Strasburgo, affermata la natura sostanzialmente "penale" della confisca urbanistica, ritenevano che la sua applicazione nel caso concreto fosse in contrasto con l'art. 7 Cedu, dal momento che la base legale dell'infrazione (la norma precetto che configurava il reato di lottizzazione abusiva) non rispondeva - come riconosciuto dalla stessa Corte di cassazione italiana - ai requisiti di accessibilità e prevedibilità per il destinatario della norma, il quale pertanto non si trovava in condizioni, al momento del fatto, di prevedere che gli sarebbe stata inflitta una sanzione. Per le medesime ragioni, essi riscontravano altresì una violazione dell'art. 1 Prot. 1 Cedu, sottolineando come l'ingerenza nel diritto di proprietà dei ricorrenti doveva ritenersi priva di una base legale conforme ai requisiti convenzionali di accessibilità e prevedibilità.

Ciò posto, la Corte europea si riservava di liquidare i danni materiali subiti dai ricorrenti entro sei mesi dalla pronuncia, in attesa di un eventuale accordo tra le parti.

A seguito della pronuncia della Corte europea del gennaio 200, la Corte di cassazione, con sentenza dell'11 maggio 2010, riconosceva la legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri a richiedere la revoca della confisca urbanistica in sede esecutiva in forza dell'art. 5, comma 3, lett. a-bis, della legge n. 400/1988 (così ribaltando la decisione adottata dal GIP di Bari con sentenza del 26 ottobre 2009), e rinviava gli atti al Gip di Bari, il quale il 4 novembre 2010 disponeva la restituzione alle imprese costruttrici delle aree edificate, che nel frattempo erano state trasformate in un parco pubblico.

Nondimeno, le imprese costruttrici adivano una seconda volta la Corte europea dei diritti dell'uomo, chiedendo un'equa soddisfazione ex art. 41 Cedu, dal momento che a loro avviso che la restituzione dei terreni da parte dell'amministrazione comunale non aveva permesso che una parziale riparazione della violazione degli artt. 7 e 1 Prot. 1 Cedu riscontrata dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del gennaio 2009: da un lato, infatti, gli edifici esistenti al momento della confisca erano stati demoliti senza che venisse loro riconosciuto alcun indennizzo; dall'altro, i terreni restituiti erano stati trasformati in un parco pubblico, attualmente utilizzato dalla comunità.

La Corte europea, dichiarato ricevibile il ricorso, invitava quindi le imprese ricorrenti e il governo convenuto a trovare un'intesa, il cui mancato raggiungimento rendeva inevitabile una nuova pronuncia dei giudici europei. 

Con la sentenza del 10 maggio 2012, la Corte ha in via preliminare rammentato che dall'accertamento da parte della Corte europea di una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli deriva per lo Stato convenuto l'obbligo giuridico di riparare alle suddetta violazione, ripristinando quanto più possibile la situazione precedentemente esistente. Al riguardo, se è vero, da un lato, che il diritto di Strasburgo riconosce agli Stati contraenti la libertà di scegliere i mezzi per conformarsi ad una sentenza della Corte che accerti una violazione convenzionale, dall'altro, laddove il diritto nazionale non permette o permette solo un risarcimento parziale per le conseguenze della violazione, la Corte può accordare alla parte lesa, ai sensi dell'art. 41 Cedu, un'equa soddisfazione.

In merito alla quantificazione del danno, la Corte ha anzitutto sottolineato il carattere radicalmente arbitrario della confisca dei terreni dei ricorrenti sia ai sensi dell'art. 7 che dell'art. 1 Prot. 1 Cedu, per le ragioni poc'anzi esaminate: ciò distingue il caso di specie dai casi - spesso esaminati dalla Corte proprio con riferimento al nostro paese - in materia di inadeguato indennizzo per una espropriazione in sé legittima ovvero di "espropriazione indiretta" avviata con procedura d'urgenza e sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità. L'indennizzo da riconoscere deve, pertanto, riflettere in questo caso l'idea di una cancellazione totale delle conseguenze della misura ablativa.

La Corte sottolinea in proposito che la restituzione dei terreni ai ricorrenti ha costituito solo un risarcimento parziale a fronte della violazione da parte dello Stato italiano dei loro diritti, sottolineando che gli edifici ivi edificati sono stati nel frattempo demoliti senza che alle imprese sia stato riconosciuto alcun indennizzo. I costi sostenuti dalle imprese per la costruzione degli edifici devono dunque costituire una componente essenziale della restitutio in integrum cui i ricorrenti hanno diritto.

In secondo luogo, la Corte osserva che non tutti i terreni sono stati a tutt'oggi restituiti ai ricorrenti, e che in particolare quelli oggetto di due specifici piani di lottizzazione sono stati ceduti alla città di Bari, che non ha ancora provveduto a riconsegnarli ai ricorrenti. Rispetto a questi terreni, la Corte ritiene di dover indennizzare il pregiudizio derivante dall'indisponibilità assoluta di tali terreni da parte delle società ricorrenti, calcolato a partire dal momento della confisca.

Un analogo indennizzo è, infine, riconosciuto per l'indisponibilità della restante parte di terreni la cui proprietà è stata formalmente restituita alle società ricorrenti, le quali si trovano tuttavia nell'impossibilità di utilizzarli essendo essi stati trasformati in parco pubblico.

Così fissati i criteri per la valutazione dell'equa soddisfazione, la Corte procede alla liquidazione degli indennizzi dovuti alle società ricorrenti, e ingiunge al governo italiano, con una c.d. misura individuale ai sensi dell'art. 46 Cedu, di rinunciare alle domande giudiziali, ad oggi pendenti nei confronti dei ricorrenti, di rimborso dei costi sostenuti dalla pubblica amministrazione per la demolizione degli edifici e per la riqualificazione dei terreni: pretesa questa evidentemente illegittima agli occhi della Corte, stante l'arbitrarietà della confisca ordinata nei confronti dei ricorrenti. Una tale rinuncia - conclude la Corte -, unitamente alla corresponsione dell'indennizzo liquidato in sentenza, sarà dunque idonea a riparare interamente il pregiudizio subito dai ricorrenti.