27 febbraio 2012 |
La Corte di Strasburgo condanna ancora l'Italia per gli insufficienti standard di assistenza sanitaria in carcere
Nota a Corte EDU, sez. II, sent. 7 febbraio 2012, ric. n. 2447/05, Cara-Damiani c. Italia
Con la pronuncia che può leggersi in allegato, la Corte EDU ha trattato il caso del Signor Cara-Damiani[1], cittadino italiano ultrasessantenne e affetto da paraparesi agli arti inferiori nonché da diversi disturbi cardiaci e intestinali. Il ricorrente, condannato tra il 1994 e il 1996 alla complessiva pena di 19 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio (12 anni e 8 mesi) e traffico d'armi (7 anni), è stato detenuto dal 2003 al 2010 nel carcere di Parma. A causa delle sue patologie, il Signor Cara-Damiani, fin dall'inizio della detenzione, era impossibilitato a muoversi autonomamente. Costretto infatti su una sedia a rotelle dal 1997, egli necessitava inoltre della possibilità di effettuare esercizi e movimento con cadenza quotidiana. Il regime di isolamento nel quale era detenuto e la presenza di barriere architettoniche (prima fra tutte la carenza di toilette appositamente dedicate ed attrezzate per disabili), avevano comportato delle importanti difficoltà di movimento al ricorrente.
Proprio per avere la possibilità di seguire un programma riabilitativo e in vista dell'apertura di una sezione specializzata per detenuti paraplegici, il Signor Cara-Damiani è stato trasferito al carcere di Parma nel 2003. Il programma riabilitativo è tuttavia cessato nel giugno 2004; la sezione specializzata è stata viceversa inaugurata, per ingenti tagli di spesa, solo nell'aprile 2005 e con limitazioni di organico e il Signor Cara-Damiani vi è stato trasferito solo nel dicembre 2006.
Nel corso della detenzione, diversi medici avevano inoltre rilevato l'incompatibilità dello stato di salute del ricorrente con la detenzione presso il carcere di Parma (o con la detenzione tout court). Il giudice dell'esecuzione aveva invece ritenuto di concedere la misura della detenzione domiciliare solo nel marzo 2008, a seguito di alcuni interventi chirurgici, anche d'urgenza, subiti dal ricorrente nonché a seguito dell'individuazione - da parte dello stesso ricorrente e dei suoi familiari - di idonea struttura riabilitativa presso Villanova sull'Arda. Revocata la detenzione domiciliare nel settembre 2010 e ricondotto in carcere il ricorrente, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha riconfermato il beneficio dal novembre dello stesso anno, affermando - tra l'altro - che le condizioni di detenzione del ricorrente avrebbero potuto comportare una condanna dell'Italia da parte della Corte EDU sulla base dell'art. 3 Cedu.
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Il ricorrente si duole della mancata concessione delle misure della sospensione facoltativa dell'esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, nonché della mancata azione dell'Autorità in suo favore a fronte del permanere dei gravi disagi cui era sottoposto a causa della propria disabilità.
La Corte richiama preliminarmente i propri principi in materia. Un "trattamento degradante", per ricadere nell'applicazione dell'art. 3 Cedu, deve attenere un "minimo di gravità" variabile in base alle condizioni individuali, al sesso, all'età, alla durata del trattamento e ai suoi effetti (par. 65). Inoltre, non può dedursi dalla Convenzione un generico dovere di rimettere in libertà o garantire ricovero in struttura ospedaliera esterna ad ogni detenuto che soffra di gravi patologie (par. 67). Tuttavia, l'art. 3 Cedu impone in ogni caso agli Stati di proteggere l'integrità fisica delle persone private della libertà (par. 67). Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che "mantenere in detenzione una persona tetraplegica o in ogni caso gravemente handicappata, in condizioni inadatte al suo stato di salute, costituisce trattamento degradante" ai sensi dell'art. 3 Cedu (precedenti: Price c. Royaume-Uni, no 33394/96, par. 30, 19 luglio 2001; Vincent c. France, no 6253/03, par. 103, 24 ottobre 2006; Hüseyin Yıldırım c. Turquie, no 2778/02, par. 83, 3 maggio 2007). Ciò anche alla luce dei tre criteri individuati nel caso Sakkopoulos c. Grecia (no 14249/04, 22 febbraio 2007): (a) la condizione del detenuto, (b) la qualità delle cure fornite e (c) l'opportunità di mantenere la detenzione con riguardo allo stato di salute.
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È opportuno precisare che dalla lettura della pronuncia non emergono prima facie elementi per comprendere se la Corte abbia censurato l'operato delle singole autorità interne che si siano occupate del caso del Signor Cara-Damiani o se viceversa ad essere criticato sia il sistema di ordinamento penitenziario previsto nella nostra legislazione. Tuttavia, il seppur breve richiamo alla normativa interna (e precisamente all'art. 147, co. I, n. 2), c.p. - rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena per gravi condizioni di infermità fisica del detenuto) nonché la considerazione per cui lo stato di salute del detenuto è effettivamente preso in considerazione da diverse disposizioni legislative (tra le altre: artt. 4bis, 11, 13, 47ter e 47quinquies ord. pen., nonché artt. 146 e 147 c.p.[2]), porta a concludere che la Corte abbia inteso censurare l'operato delle singole autorità (dalle direzioni carcerarie alla magistratura di sorveglianza) che hanno determinato e condotto la detenzione del ricorrente. La sentenza, in altre parole, appare censurare l'Italia "in punto di fatto" più che "in punto di diritto", lamentando la mancata applicazione di norme esistenti.
Giova tuttavia un'ulteriore precisazione. Dal punto di vista della Corte EDU non pare dirimente l'alternativa tra carcerazione e misure diverse: la Corte, preso atto della permanenza del Signor Cara-Damiani all'interno della struttura carceraria, censura l'inadeguatezza del trattamento sanitario ivi garantito (ancorandolo allo standard del trattamento di cui il ricorrente avrebbe usufruito all'esterno), senza suggerire allo Stato l'adozione di misure diverse. Resta pertanto allo Stato la scelta se garantire un adeguato trattamento sanitario all'interno dei penitenziari ovvero ricorrere a mezzi diversi: ciò che conta è tutelare la salute del detenuto, ovunque egli si trovi.
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La pronuncia si segnala infine per l'opinione concorrente dei giudici JoÄienÄ—, Berro-Lefèvre e KarakaÅŸ: essi, pur partecipando al giudizio di unanimità, hanno contestato lo standard richiesto al par. 66 per le cure che lo Stato è tenuto a fornire ai detenuti, che a loro parere non può essere "di un livello comparabile a quello che le autorità dello Stato sono tenute a fornire alla generalità della popolazione" ma, conformemente alla costante giurisprudenza della Corte, "deve tenere conto delle esigenze pratiche della carcerazione".
[1] Il medesimo ricorrente aveva introdotto altra azione presso la Corte EDU, per il periodo di detenzione 1994-2000, n. 35995/97, decisa con sentenza di rigetto per manifesta infondatezza del 28 marzo 2000 ("La Corte nota che la patologia del ricorrente è stata diagnosticata nel 1994 e che non vi sono elementi ... che indichino che le malattie di cui soffre siano da imputare alla sua detenzione in quanto tale. ... È vero che alcune défaillances da parte delle Autorità appaiono evitabili e assai criticabili, ... e tuttavia tali inadempimenti, anche se riprovevoli, non sono sufficienti di per sé, tento conto della situazione del ricorrente considerata nel suo complesso, per concludere che le autorità italiane abbiano mancato in maniera sostanziale al loro dovere di proteggere la salute del ricorrente e tale da chiamare in causa la responsabilità dello Stato italiano sul terreno dell'art. 3 della Convenzione")
[2] Al caso del ricorrente, per quanto desumibile dai riferimenti contenuti nella pronuncia, avrebbe potuto essere applicato il meccanismo di sospensione di cui all'art. 147 c.p., ovvero la detenzione domiciliare ex art. 47ter, co. 1ter, ord. pen..