ISSN 2039-1676


16 novembre 2010 |

Il progetto di riforma alla "231": che cosa cambia, che cosa manca

Note a margine del recente progetto di riforma del d.lgs. 231/2001, presentato dal Ministro della Giustizia Alfano

In occasione del convegno organizzato dall’associazione AREL (www.arel.it), e tenutosi a Roma il 7 luglio 2010, l’attuale Ministro della Giustizia On. Angelino Alfano presentava un progetto di riforma al d.lgs. 231/2001 che, come noto, disciplina la responsabilità da reato dell’ente. Tale progetto, recante la rubrica “schema di disegno di legge di modifica del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300” è stato dapprima distribuito fra gli atti del convegno, e di recente pubblicato sulla rivista Diritto Penale e Processo, con prime riflessioni del Prof. Giancarlo De Vero [1].
Si ritiene opportuno, a beneficio del lettore, allegare qui tale schema di disegno di legge, al quale verrà dedicata la nota di commento di seguito riportata.
 
SOMMARIO:
 
 
 
1. Premessa
 
Come noto, il Ministro della Giustizia nei primi giorni di luglio del 2010, ha presentato personalmente un progetto di riforma (di seguito, il Progetto) al d.lgs. 231/2001, che non ha mancato di suscitare immediate reazioni contrastanti: salutato con favore – com’era prevedibile – dal mondo delle imprese, ma già guardato apertamente con sospetto dall’Associazione Nazionale Magistrati, e addirittura etichettato come un provvedimento che introdurrebbe uno “scudo” – l’ennesimo – “per aziende e manager” [2].
 
Tale progetto di riforma, peraltro, è stato immediatamente seguito da un’altra proposta di legge presentata il 19 luglio 2010 dall’On. Della Vedova, della quale non ci occuperemo però in queste poche pagine – ad evidente testimonianza di un certo rinnovato fermento del legislatore nella materia della responsabilità dell’ente.
 
Ci sia consentito, allora, dedicare qualche personale considerazione al Progetto presentato dal Ministro Alfano, non prima di averne ripercorso i tratti essenziali.
 
2. Le nuove previsioni contenute nel Progetto
 
Due appaiono, a ben guardare, le proposte di modifica di maggior rilievo.
In primo luogo, il Progetto elimina l’inversione dell’onere della prova attualmente disposto all’art. 6 d.lgs. 231/2001 (di seguito, il Decreto) per reati commessi da soggetti in posizione “apicale”, prevedendo, analogamente a quanto già oggi accade in presenza di reati commessi da un “sottoposto”, che sia sempre la Pubblica Accusa a dover dimostrare la mancata adozione di un modello organizzativo, o la sua inefficace attuazione.
 
In secondo luogo, il Progetto prevede l’introduzione di un inedito meccanismo di “certificazione” dell’idoneità del modello organizzativo nel suo complesso o delle singole procedure, collegando al contempo all’ottenuta certificazione a concreti benefici per l’ente indagato/imputato.
 
Più precisamente, l’ente con il modello certificato eviterebbe, già nella fase delle indagini preliminari, l’applicazione delle misure cautelari interdittive, con la sola eccezione dei casi in cui “ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”.
La “regolare certificazione di idoneità del modello preventivo” comporterebbe inoltre – e soprattutto – l’esclusione della responsabilità dell’ente, a condizione però che “il modello concretamente attuato corrisponda al modello certificato e non siano sopravvenute significative violazioni delle prescrizioni che abbiano reso manifesta la lacuna organizzativa causa del reato per cui si procede”.
 
Per quanto qui preme rilevare, l’attività di certificazione verrebbe affidata a soggetti inseriti in un apposito “elenco dei soggetti abilitati”, sia pubblici che privati, tenuto presso il Ministero della Giustizia. Quest’ultimo, con un apposito regolamento di attuazione, dovrebbe infatti definire le caratteristiche di professionalità, indipendenza etc. dei soggetti che potranno ottenere l’abilitazione, in aggiunta ai “criteri generali per la certificazione di idoneità dei modelli, in particolare determinando il loro contenuto e le modalità di rilascio della certificazione, nonché l’efficacia a questa attribuita e la periodicità del rinnovo, tenendo conto anche dei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti”.
 
La serietà del ruolo di “certificatore”, secondo i dettami del Progetto, dovrebbe inoltre essere presidiata da un apparato sanzionatorio graduato in misura della gravità delle violazioni, che include anche un reato di nuovo conio.
 
Il testo prevede infatti una fattispecie delittuosa – che commina la reclusione da sei mesi a tre anni – per il certificatore che “con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alle sue funzioni, dichiarando falsamente la idoneità del modello preventivo dei reati da cui dipende la responsabilità dell’ente, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto profitto o arreca ad altri un danno ingiusto”.
Fuori dai casi sopra descritti, al certificatore che “con attestazione non conforme al vero, dichiari consapevolmente o con colpa grave che sussistono i presupposti dell’idoneità del modello” verrebbe invece sanzionato con la “sospensione fino a due anni dall’attività di certificazione e, nei casi più gravi, con l’interdizione definitiva”.
 
Altre novità previste dal Progetto – sulle quali, in questa sede, non ci soffermeremo – riguardano, essenzialmente, una maggior specificazione del contenuto dei modelli organizzativi e delle caratteristiche e del funzionamento dell’Organismo di vigilanza, che rappresentano una sostanziale cristallizzazione normativa delle best practices sinora maturate nel settore.
 
Per gli enti di piccole dimensioni – che il Progetto, a differenza del Decreto vigente, definisce espressamente come “i soggetti che, per due esercizi consecutivi, non hanno superato due dei limiti indicati dal primo comma dell’articolo 2435-bis del codice civile” – i compiti dell’Organismo di vigilanza potrebbero infine essere assolti non più, come oggi accade, dall’organo dirigente, ma da un “soggetto interno all’ente dotato di adeguate garanzie di indipendenza”, che svolgerebbe questo incarico direttamente o secondo le modalità fissate nel regolamento di attuazione emanato dal Ministero della Giustizia.
 
3. Che cosa cambia
 
Quali, dunque, le nostre impressioni sulle novità appena richiamate?
 
Innanzitutto, ci pare di poter affermare che il Progetto, nella sua formulazione attuale, ancorché introduca evidenti agevolazioni alle ragioni difensive delle imprese nei procedimenti penali, soprattutto in fase cautelare, non arrivi ad introdurre – come si era giustamente temuto – una vera e propria “patente di legalità” per le imprese, in presenza di modelli organizzativi certificati [3].
 
A fronte di una esigenza, declamata a gran voce, di “certezza” per le imprese nei benefici collegati all’adozione di un modello organizzativo, attorno alla quale graviterebbe l’intera riforma del d.lgs. 231/2001, è nostra convinzione che il Progetto – nelle pieghe della sua trama – si sforzi di contemperare esigenze diverse, inclusa la necessità di preservare un fondamentale vaglio del giudice penale sull’effettiva applicazione del modello certificato da parte dell’azienda chiamata a rispondere per la commissione di un reato.
 
Per un verso, riteniamo infatti che non si debba demonizzare di per sé l’idea di una preventiva certificazione del modello organizzativo, soprattutto tenuto conto che l’adozione del modello, negli ultimi anni, è venuto ad assumere un’importanza che esula dagli effetti di natura strettamente penalistica previsti dallo stesso d.lgs. 231/2001, ma che è possibile apprezzare già nell’operatività quotidiana dell’impresa nel mercato.
 
Si pensi, in particolare, all’obbligatorietà dell’adozione di un modello organizzativo per gli emittenti appartenenti al segmento STAR, introdotto nel 2007 nel Regolamento dei Mercati di Borsa Italiana S.p.A. (art. 2.2.3., comma 3, lett. j), oppure alla sempre più frequente attribuzione di punteggi superiori, nelle gare ad evidenza pubblica, alle imprese dotate di un modello organizzativo (adozione considerata addirittura obbligatoria, ad esempio, per le imprese che intendono operare in regime di convenzione con la Regione Calabria, ai sensi dell’art. 54 L.R. n. 15 del 2008).
 
Si tratta di ricadute legate all’adozione del modello organizzativo – e spesso dimenticate – diverse ed ulteriori rispetto a quelle di natura penale, che sono ad ogni evidenza in grado di creare vantaggi competitivi importanti, e che quindi pongono da tempo la questione – serissima – della effettiva diligenza con la quale l’impresa ha adottato ed implementato il proprio modello organizzativo, del quale poi l’impresa stessa comunque beneficia, come si è detto, per poter partecipare a gare pubbliche, oppure per far parte del segmento STAR.
 
Il rischio che si intravvede nel meccanismo attualmente vigente nelle quali sono le imprese stesse ad auto-attribuirsi il certificato – per così dire – di “società dotata di un modello organizzativo” è infatti quello che si creino distorsioni della concorrenza, a fronte di modelli che in concreto potrebbero essere di qualità ben diversa: anzi, si potrebbe affermare che, paradossalmente, in questo sistema auto-referenziale finiscano per risultare svantaggiate proprio quelle imprese che investono maggiori risorse aziendali per garantire il corretto aggiornamento e funzionamento del modello, rispetto a quelle che – per mutuare un’efficace espressione statunitense, normalmente riservata agli “abbellimenti” contabili– confezionano cattivi modelli organizzativi con mere finalità di window dressing.
 
A ben guardare, dunque, la prospettiva di una certificazione potrebbe rappresentare una concreta occasione per elevare gli standard di qualità nei modelli organizzativi, o quantomeno per evitare che si aggirino nel mercato poco che più che pezzi di carta – quali “parti generali” raffazzonate – presentati però dalle stesse imprese che li hanno partoriti con l’impropria etichetta di “modelli di organizzazione e di gestione”.
 
Altro discorso, naturalmente, se il Progetto mascherasse invece la volontà di sdoganare, sotto il marchio della certificazione, materiale scadente, e cioè modelli organizzativi geneticamente predisposti per non funzionare, con buona pace della tensione verso la legalità aziendale alla quale il d.lgs. 231/2001 dovrebbe essere orientato: un esito, però, che allo stato sembra trovare nel progetto indicatori di segno contrario (ad es. la cristallizzazione normativa delle best practices, e la stessa previsioni di sanzioni per i certificatori inclini alla promozione facile), e che suonerebbe come una sconfitta innanzitutto per lo stesso mercato, che nell’illegalità non può certo trovare alcun beneficio.
 
Ciò detto, e come già anticipato, il Progetto – al di là dei criteri che dovranno orientare la certificazione – non dimentica che, accanto all’idoneità del modello organizzativo, in senso “statico”, esiste un non meno importante momento “dinamico” della concreta attuazione del modello adottato: ed è su quest’ultimo versante che il Progetto affida al giudice penale il compito di accertare che il modello certificato non sia rimasto lettera morta, ma che abbia poi trovato una effettiva implementazione nella vita aziendale.
 
La previsione normativa (il nuovo art. 7-bis), in proposito, appare tuttavia nella sua attuale formulazione un po’ farraginosa, e sembrerebbe prevedere che il venire meno dei benefici della certificazione debba essere ancorato alla sussistenza di due condizioni cumulative: che il “modello concretamente attuato (non) corrisponda al modello certificato” e che siano “sopravvenute significative violazioni delle prescrizioni che abbiano reso manifesta la lacuna organizzativa causa del reato per cui si procede”.
 
Quest’ultima clausola, non del tutto limpida, sembrerebbe infatti attribuire rilevanza alla sola mancata attuazione del modello che risulti macroscopica ed evidente, alla luce della gravità delle violazioni del modello stesso che hanno reso possibile la commissione del reato: un ulteriore vincolo alla discrezionalità del giudice indubbiamente a favore delle imprese, ma che – nella prassi applicativa – potrebbe non avere impatti dirompenti, tenuto conto che molti procedimenti penali a carico di grandi imprese hanno fatto emergere non solo gravi lacune organizzative ed evidenti violazioni del modello, ma addirittura l’esistenza di politiche aziendali che finivano per incentivare comportamenti illeciti dei dipendenti.
 
Analoghe considerazioni valgono poi per le misure cautelari interdittive, che il Progetto vorrebbe scongiurare in presenza di modelli certificati, salvo che ricorrano imprecisate “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”: anche qui, si intravvede sullo sfondo la ricerca di un punto di equilibrio, da parte del legislatore, fra l’esigenza di non impedire tout court al giudice, ad esempio, di commissariare una società con modello certificato, e la diversa esigenza di riservare la scelta di misure cautelari interdittive – di impatto disastroso per un’impresa – a situazioni nelle quali non risulta esservi altra alternativa, con conseguenti maggiori oneri motivazionali a carico delle Procure richiedenti, e dei Gip chiamati alla decisione finale.
 
Una cautela che forse non appare del tutto eccessiva, tenuto conto che le cronache giudiziarie rimandano ben noti esempi di misure cautelari interdittive richieste a carico di società con un management completamente rinnovato, e ad anni di distanza dalla fine di ogni condotta illecita in contestazione.
 
Senz’altro da salutare positivamente è poi l’introduzione di un’appendice sanzionatoria riservata ai certificatori, ancorché desti non poche perplessità la scelta sulla configurazione delle singole fattispecie: riservare la sanzione penale soltanto a chi, oltre a certificare falsamente con dolo l’idoneità del modello, “procura intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto profitto o arreca ad altri un danno ingiusto” sembra infatti tradire un malcelato intento di limitare il più possibile la concreta applicazione della fattispecie penale; e del resto è sufficiente uno sguardo alla disciplina codicistica dei reati di falso per avere conferma di come risulti assolutamente originale un falso ideologico costruito come reato di evento a dolo intenzionale.
 
C’è da dire tuttavia che, quantomeno per le maggiori società internazionali di consulenza – le quali, per ovvie ragioni, saranno le prime candidate per l’ottenimento del “patentino” di certificatore –, anche una mera sospensione temporanea potrebbe risultare disastrosa in termini di immagine, con la conseguenza che la previsione di sanzioni ad hoc appare di per sé un deterrente irrinunciabile perché i certificatori prendano sul serio – o almeno lo si auspica – il proprio ruolo.
 
4. Che cosa manca
 
Sia consentita infine, a chiusura di questa breve nota, qualche riflessione sulle ulteriori previsioni che – ad avviso di chi scrive – potrebbero essere introdotte nel d.lgs. 231/2001, e che confidiamo contribuiscano ad arricchire il dibattito sul tema.
 
4.1. Una forma di cooperazione colposa del vertice responsabile della cattiva organizzazione?
 
Il sistema attuale, come noto, è imperniato sul principio che in presenza di reati commessi nell’interesse dell’ente, della “colpa di organizzazione” risponda soltanto la persona giuridica, e non le persone fisiche, ai vertici della società stessa, che pure, in quanto organi della medesima, della cattiva organizzazione dell’impresa siano i naturali e immediati responsabili.
 
Riteniamo utile quantomeno ragionare dell’opportunità di introdurre nel d.lgs. 231/2001 anche una fattispecie penale di natura colposa da riservare ai responsabili delle gravi lacune organizzative riscontrate nel procedimento penale a carico dell’ente.
 
Il problema, in particolare, si pone in presenza di un reato presupposto di natura dolosa.
 
Spesso ci si dimentica infatti che la “colpa di organizzazione” è rimproverabile alla persona giuridica solo per fictio iuris, ma che essa riposa, innanzitutto e necessariamente, sulla colpa naturalisticamente rimproverabile alla e/o alle persone fisiche che, entro la persona giuridica, hanno deciso di non predisporre alcun modello organizzativo finalizzato alla prevenzione di reati, o hanno proposto, deliberato ed attuato un modello di organizzazione carente rispetto agli standard normativamente giudicati doverosi.
 
Ci riferiamo, tanto per essere chiari, al contenuto materiale dell’obbligo che comunque grava sull’imprenditore – ancor prima e oltre il d.lgs. 231/2001 – di dare all’impresa un’adeguata organizzazione, anche al fine di prevenire la commissione di reati da parte dei suoi dirigenti/dipendenti.
 
Sul punto, ci chiediamo in particolare se sia equo che la responsabilità della persona giuridica, nell’attuale sistema, finisca in qualche modo per rappresentare una sorta di surrogato fittizio – quasi un comodo scudo – alla responsabilità delle persone fisiche che, non essendo corree nella commissione del reato presupposto, ne hanno pur reso possibile la verificazione con una condotta omissiva e colposa che rileverebbe solo quale responsabilità colposa riflessa della società da loro amministrata.
 
Se, come a noi pare, la non punibilità del crimen culpae di chi non ha provveduto a munire la persona giuridica di adeguato “scudo” organizzativo sembra difficile da giustificare sul piano dell'equità, ci si dovrebbe chiedere se tale scelta sia davvero efficace sul piano della prevenzione dei reati.
 
Le indagini spesso portano alla scoperta di fatti di reato cui sia ricollegabile anche una responsabilità per violazione della 231, anche anni dopo la loro commissione.
Si potrebbe, ad esempio, addirittura dubitare delle ragioni politico-criminali che giustifichino il perdurare dell'interesse punitivo dello Stato quando – soprattutto per le public companies – si possa agevolmente provare che la società abbia già mutato compagine azionaria e management, e che i precedenti azionisti abbiano già ormai incamerato eventuali vantaggi sotto forma di utili, ovvero abbiano già ottenuto gli altri immateriali benefici correlabili alla vaga nozione di interesse dei reati presupposto.
 
In casi come questi, la scure della 231 finisce con l’abbattersi esclusivamente su una persona giuridica che ha in comune con quella del tempo del reato poco più che il nome, e a cui potrebbe anche non essere più rimproverabile una qualche colpa, dal momento che il nuovo management potrebbe, sua sponte, aver riformato il modello di organizzazione e/o averlo correttamente ed efficacemente attuato, prima delle indagini ma pur sempre dopo i fatti di reato.
 
In casi come questi, la previsione della responsabilità della persona giuridica, ormai rinata a vita nuova ancor prima dell'avvio delle indagini, già non facile da giustificare, striderebbe e non poco con la pacifica non punibilità della colpa delle persone fisiche che erano apicali al momento dei fatti, cui la colpa di organizzazione della persona giuridica sia realmente (naturalisticamente) ascrivibile.
 
Il processo e le conseguenti sanzioni finirebbero per produrre solo a carico della persona giuridica pregiudizi diffusi e complessi nella platea degli stakeholders, ma non invece a carico di chi, persona fisica, soggetto apicale al momento dei fatti, tali pregiudizi abbia cagionato, proprio con una colpa di organizzazione che non andrà mai a scontare.
 
Ma anche al di fuori dei casi in cui vi è questa radicale trasformazione della società – casi che, forse a ragione, potrebbero essere definiti “limite” nella esperienza del capitalismo italiano, raramente così virtuoso e capace di autoriforma –, la previsione di una responsabilità concorrente della persona fisica non troverebbe, almeno ai nostri occhi, chiare controindicazioni.
 
Non mancano infatti argomenti – su un piano diverso (stavolta, per così dire, “garantistico”, per usare un pessimo neologismo politically correct), ma pur sempre correlato – che conducono a nostro avviso alla medesima conclusione.
 
Ci pare doveroso sottolineare che l'impunità dell'amministratore colto, si potrebbe dire, in colpa flagrante, ancorché il relativo addebito sia mosso alla società di cui egli era organo di vertice, finisce per alimentare degenerazioni della prassi applicativa dissonanti coi principi del diritto penale vigente.
 
Più in particolare, l’introduzione di una forma pur anomala di concorso colposo nel delitto doloso, almeno a parere di chi scrive, potrebbe contribuire a razionalizzare la tentazione, da sempre latente nella prassi giudiziaria penalistica, di dilatare impropriamente, secondo paradigmi semplificati di accertamento della responsabilità (“non poteva non sapere”, inosservanza dei doveri ecc.), i confini del dolo rimproverato agli amministratori di vertice della persona giuridica. Tentazione che trova origine, appunto, dalla volontà di porre rimedio, in maniera impropria, ad una situazione percepita come un’ingiusta impunità.
 
Per altro verso, la riforma qui sommessamente suggerita potrebbe, forse assai efficacemente, incentivare il management di vertice della persona giuridica a “prendere sul serio” l’attività di elaborazione e di concreta attuazione del modello organizzativo (assai più forse di quanto accadrebbe se venissero accolte le diverse proposte che suggeriscono la responsabilizzazione anche penale dei componenti dell’OdV).
 
La norma penale dovrebbe essere costruita, allora, in modo da evitare che la responsabilità possa esser fatta scivolare artificiosamente verso il basso della gerarchia aziendale, attraverso deleghe e subdeleghe. La previsione di una “non delegabilità” dell’obbligo aiuterebbe anche, sul piano simbolico, a ricordare che la prevenzione dei reati è una chiara e ineludibile mission del vertice dell’impresa, così come peraltro già accade per alcuni doveri indelegabili del datore di lavoro nella disciplina a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro.
 
Resta naturalmente aperta la questione della sanzione. Le alternative possibili potrebbero essere però molteplici: si potrebbe pensare, ad esempio, ad una fattispecie omissiva colposa (configurata come una sorta di crimen culpae), indipendente dalla gravità del delitto doloso presupposto; ovvero alla previsione di una congrua diminuzione della pena sancita per il corrispondente delitto doloso commesso dal dipendente o dall’apicale.
 
Quanto detto sinora, vale, ovviamente, solo per i casi in cui il reato presupposto della responsabilità 231, sia un reato doloso.
 
Rispetto ai reati di natura colposa – ad esempio violazioni della disciplina a tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro – già oggi si potrebbe concludere per una diretta responsabilità colposa del vertice aziendale per aver omesso di implementare nell’azienda un modello organizzativo idoneo a prevenire infortuni sul lavoro, concorrente, nella forma della cooperazione colposa, con l'autore o gli autori dell'evento ovvero a titolo di autonoma responsabilità per l'evento stesso: a condizione, beninteso, che la inadeguatezza del modello ovvero la sua carente attuazione sia stata una delle condizioni necessarie dell’evento, e che quest’ultimo rappresenti la realizzazione del rischio (o del maggior rischio) creato con la carenza organizzativa.
 
La questione merita, naturalmente, approfondimenti ulteriori – non affrontabili in questa sede –, anche tenuto conto del fatto che, per costruire responsabilità colpose del vertice per reati colposi dei dipendenti, difficilmente si potrà prescindere da un esame attento della situazione concreta (maggiore o minore “distanza” tra vertice aziendale e l’evento, dimensione dell’evento stesso ecc.).
 
4.2. Perché non incentivare il self-reporting delle imprese?
 
In secondo luogo, riteniamo senza dubbio opportuno che – così come accade da tempo nell’ordinamento statunitense, attraverso il meccanismo della culpability score – venga espressamente prevista una disciplina di favore per il self-reporting delle imprese, e cioè per la scelta di queste ultime di denunciare spontaneamente illeciti commessi, nel presente o nel passato, dai propri apicali/sottoposti, non appena ne emergano evidenze.
 
Se è pur vero, infatti, che la auto-denuncia di condotte illecite certamente potrebbe avere già oggi un impatto positivo nella valutazione dell’adeguatezza del modello organizzativo implementato dall’impresa, è però altrettanto evidente che – in mancanza di indicatori chiari da parte del Decreto – le aziende tendano del tutto comprensibilmente a temere un concreto effetto boomerang, e cioè a temere che la denuncia di fatti illeciti, magari commessi da una precedente gestione dell’impresa, finiscano per determinare effetti pregiudizievoli (soltanto) nel presente.
 
La riforma potrebbe dunque rappresentare l’occasione per introdurre anche nel nostro ordinamento un sistema premiale che – alla luce di un calcolo costi-benefici – induca le imprese a rendere più conveniente la strada della denuncia di reati commessi al loro interno.
 
È difficile, a nostro avviso, sottovalutare la portata di una riforma che premiasse davvero la spontanea denuncia, sul piano della concreta idoneità del Decreto a svolgere la funzione per la quale, in definitiva, esso è nato: ridurre, per davvero, i tassi di criminalità economica del nostro capitalismo.
 
Si può arrivare a dire che la mancata introduzione di una tale previsione ha probabilmente già oggi un effetto criminogeno, rendendo sempre più impenetrabile e “nera” la (tradizionalmente) altissima cifra oscura dei delitti dell'economia.
 
Attualmente, se un CEO di una società scopre, magari con l'ausilio di una funzione audit efficace e seria, un reato commesso da un dipendente, del quale non possa escludersi una correlazione anche mediata con l'interesse sociale (nella vaghissima e sempre opinabile accezione reperibile attualmente nella scarne elaborazioni dottrinali e giudiziarie), sarà tendenzialmente portato a “coprire” piuttosto che a “scoprire”, evitando sempre e comunque la denuncia in Procura.
 
Qualora quel CEO avesse invece il coraggio di procedere diversamente, oggi si troverebbe infatti addirittura esposto all'accusa tanto paradossale quanto concreta di aver agito – lui sì – contro l'interesse della società che amministra, per averne determinato la sottoposizione a un procedimento penale (con tutto ciò che ne deriva, anche in termini di danni d’immagine) e, magari, esposto la società a pesanti sanzioni.
 
Se questa è però la situazione, perché quel CEO dovrebbe preoccuparsi davvero che la società che amministra sia munita di un modello organizzativo davvero efficace? Perché dovrebbe volere davvero un modello che sia realmente efficace nella prevenzione ed emersione dei reati e delle prassi illecite aziendali se egli sa già in partenza che è quasi preferibile non scoprire nulla?
 
Se non ci inganniamo, è anche su temi come questi che si dovrebbe misurare il coraggio e la reale volontà di fare del Decreto un reale strumento di prevenzione di reati.

 

 


[1] Cfr. De Vero, Il progetto di modifica della responsabilità degli enti tra originarie e nuove aporie, in Dir. pen. proc., 2010, n. 10, p. 1137.
[2] Cfr. W. Galbiati, “Arriva lo scudo per aziende e manager. Il ministro Alfano annuncia la revisione della legge sulla responsabilità delle imprese”, in La Repubblica, 28 settembre 2010, p. 26. Sulla posizione del dott. Giuseppe Cascini, Segretario dell’ANM, v. S. Luciano, “La 231 verso la riforma bipartisan. Responsabilità oggettiva da correggere anche per la sinistra”, in ItaliaOggi, 30 settembre 2010, p. 9.
[3] In questo senso anche De Vero, Il progetto di modifica, cit., p. 1140 ss.