9 maggio 2017 |
Una recente indagine su modelli organizzativi 231 e anticorruzione
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1. Su gentile concessione degli autori e dei committenti, pubblichiamo sulla nostra rivista gli esiti di una recente indagine condotta in collaborazione fra Confindustria e TIM, in materia di adozione del modello di organizzazione e di gestione ai sensi del d.lgs. 231/2001 nelle piccole e medie imprese, e dell’effettiva diffusione di tale strumento anche ai fini della prevenzione di fenomeni corruttivi.
Si tratta di una ricerca di indubbio interesse, per almeno due ordini di considerazioni.
Innanzitutto, perché a fronte di riflessioni sempre aperte su una eventuale riforma del d.lgs. 231/2001, appare quanto mai prezioso un approccio che tenga conto della conoscenza empirica di quale sia lo stato dell’arte: quale il grado di diffusione dei rimedi apparecchiati dal d.lgs. 231 nell’ormai lontano 2001 e più in generale la cultura della compliance aziendale rispetto a strumenti di prevenzione della commissione di reati; quale la percezione dei rischi rispetto ad un’effettiva applicazione di sanzioni pecuniarie o interdittive ai sensi del d.lgs. 231/2001; quale il comportamento atteso (o dichiarato) da una impresa a fronte della commissione di reati nel suo interesse; quale la propensione delle imprese a sanzionare i trasgressori del modello organizzativo, laddove naturalmente sia stato adottato.
In secondo luogo, perché l’indagine, seppure condotta su un campione ristretto, rimanda l’immagine di un Paese nel quale, a fronte di un sistema imprenditoriale storicamente caratterizzato da piccole e medie imprese, oltre i tre quarti di queste ultime non hanno ancora adottato un modello organizzativo, pur a fronte di una trasversale elevata percezione di rischi corruttivi da parte delle stesse.
Il che, come esattamente rilevato dagli autori dell’indagine, già di per sé evidenzia come soprattutto a livello di piccola e piccolissima impresa non vi sia alcuna percezione dell’effettiva utilità dell’adozione di un modello organizzativo come strumento di prevenzione di rischi corruttivi.
2. Senza voler ripercorrere tutti i dati evidenziati dall’indagine, per i quali rinviamo naturalmente alla lettura del documento allegato, sia consentito allora evidenziare soltanto gli esiti più significativi.
Come anticipato, soltanto il 36% del campione di imprese analizzato ha adottato ad oggi un modello di organizzazione e di gestione, con significative differenze però fra le imprese di medie dimensioni e le piccole/piccolissime imprese. Se infatti emerge, come era prevedibile, che le imprese con più di 250 dipendenti o con fatturato superiore a 250 milioni di euro hanno tutte il modello organizzativo, al contempo si evince che se il fatturato è al di sotto dei 2 milioni di euro soltanto una impresa su sette è dotata di modello organizzativo, mentre questo strumento risulta pressoché sconosciuto alle microimprese con meno di dieci dipendenti.
Interessante anche evidenziare che, pur a fronte di una percentuale di presenza di modelli organizzativi ancora piuttosto bassa in questo specifico segmento di imprese, circa la metà dei modelli organizzativi in questo campione è stato adottato fra il 2008 e il 2013, e cioè soltanto dopo l’introduzione nel catalogo dei reati per i quali può essere chiamato a rispondere l’ente dei delitti (colposi) in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Da questo dato sembra pertanto lecito desumere che il motore fondamentale per l’adozione di un modello di organizzazione e di gestione non è tanto la gravità del reato presupposto, quanto la percezione del concreto rischio di apertura di un procedimento penale a carico dell’impresa. In questa prospettiva si spiega infatti perché le imprese abbiano reagito all’introduzione come reati presupposto della fattispecie penali in materia di lesioni colpose gravi e omicidio colposo, posto che non vi è impresa – indipendentemente dalle dimensioni – che non debba fare seriamente i conti con il concreto rischio del verificarsi di infortuni sul lavoro, e del relativo rischio di trovarsi coinvolta direttamente in un procedimento penale.
Detto altrimenti, il rischio penale – anche solo in termini di apertura di una indagine – connesso ad un infortunio sul lavoro è stato considerato elevato e fisiologico per un’impresa, mentre ad ogni evidenza il diverso rischio, ad esempio, del coinvolgimento in procedimenti penali per fatti corruttivi è stato vissuto da molte piccole imprese come remoto o trascurabile, e comunque tale da non giustificare i costi connessi all’adozione ed attuazione di un modello organizzativo.
In questa prospettiva, è opinione di chi scrive che un altro potente incentivo all’adozione di modelli organizzativi sarebbe l’estensione della responsabilità dell’ente ai reati tributari, che al pari dei delitti in materia di salute e sicurezza sul lavoro vengono tipicamente percepiti da ogni impresa come ad elevato rischio di determinare anche solo l’apertura di procedimenti penali. D’altra parte questa estensione sarebbe coerente con la decisione del legislatore di incentivare l’adozione di “sistemi di controllo del rischio fiscale” nell’ambito della c.d. “cooperative compliance” di cui al d.lgs. 128 del 2015.
3. Altro aspetto interessante, e per certi versi sorprendente, che emerge dallo studio in esame è che molti dei modelli organizzativi (o presunti tali) adottati dalle imprese intervistate sono privi di un elemento essenziale, in quanto previsto dall’art. 6 d.lgs. 231/2001, per essere considerati idonei in un eventuale procedimento penale.
In particolare, emerge che circa un quinto dei modelli organizzativi adottati è completamente privo di un sistema disciplinare finalizzato a sanzionare le eventuali violazioni del modello; e che circa il 23% dei modelli indirizza le sanzioni previste soltanto ai c.d. sottoposti, e non viceversa alle funzioni apicali.
Queste gravi lacune sono probabilmente espressione della nascita di un mercato al ribasso nella predisposizione dei modelli 231 – considerato evidentemente allettante soprattutto per le piccole imprese, particolarmente sensibili, come emerge dallo studio, al costo del modello organizzativo – con la conseguenza che anche i modelli adottati tradiscono una certa approssimazione nella gestione della prevenzione del rischio reato.
4. Indubbiamente interessante è anche la risposta alla domanda circa l’eventuale comportamento dell’impresa se scoprisse che un dipendente ha commesso un reato presupposto che ha comportato vantaggi per l’impresa stessa (ad esempio ha ottenuto un appalto mediante pratiche corruttive).
A questa domanda, metà del campione ha risposto che denuncerebbe il responsabile, mentre un quinto del campione ha risposto che si limiterebbe ad applicare una sanzione disciplinare senza rivolgersi all’autorità giudiziaria.
A fronte di una possibile richiesta indebita di denaro da parte di un pubblico ufficiale, il 64% delle imprese ha risposto che rifiuterebbe la richiesta, mentre soltanto il 27% denuncerebbe l’accaduto all’autorità giudiziaria.
A fronte di questi dati, emerge dunque che vi è una larga parte delle imprese che, alla possibile evidenza di pratiche o richieste illecite, non contempla l’idea di presentare una denuncia, verosimilmente per il timore che la stessa impresa, soprattutto in presenza di reati già commessi, possa essere coinvolta nel procedimento penale avviato su iniziativa della stessa società, ottenendo pertanto più svantaggi che vantaggi dell’iniziativa giudiziaria.
5. Questo scenario sembra un’ulteriore conferma dell’opportunità di introdurre, in prospettiva di riforma del d.lgs. 231/2001, meccanismi premiali di self reporting, noti in altri ordinamenti, sulla cui necessità ci eravamo già soffermati in un altro contributo su questa Rivista (v. Santa Maria – Vizzardi, Il progetto di riforma alla “231”: che cosa cambia, che cosa manca. Nota a margine del recente progetto di riforma del d.lgs. 231/2001, presentato dal Ministro della Giustizia Alfano, 16 novembre 2010), affinché vi sia un concreto incentivo per le imprese a denunciare fenomeni illeciti, contribuendo a rendere il d.lgs. 231/2001 un reale ed efficace strumento sociale di prevenzione.
In questa direzione, peraltro, sarebbe opportuno riprendere e completare i lavori della Commissione di studio istituita nel 2016 dal Ministero della Giustizia e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.