24 gennaio 2013 |
Ma quando gesticolare integra un "modo scomposto"? Qualche breve osservazione sulla rilevanza delle abitudini in un "curioso caso di colpa generica"
A proposito di Cass. pen., Sez. IV, 9.2.2012 (dep. 21.6.2012), n. 24993, Pres. Brusco, Rel. Foti, ric. Quercia
1. Su un marciapiede è in atto una movimentata (in senso letterale) conversazione tra quattro conoscenti e una signora, vedendo il passaggio ostruito, decide di scendere sul ciglio della strada per passare loro accanto. In quel mentre un brusco movimento col braccio di uno dei quattro le cagiona una brutta lesione all'occhio. La signora querela il gesticolatore. Versa in colpa il gesticolatore?
La Corte di cassazione, pur annullando il giudizio di merito ai soli effetti civili, con la sua sentenza conferma, come segnalato nella nota di presentazione della sentenza pubblicata in questa Rivista (clicca qui per accedervi), «l'irrilevanza dell'abitudine (di ciò che "si usa fare") al fine dell'individuazione delle regole cautelari (attività rispetto alla quale rileva invece ciò che "si deve fare" in una data situazione, e che un agente modello avrebbe fatto)».
É un caso che offre numerosi spunti di riflessione e che mette in discussione assunti consolidati. La vicenda è, infatti, interessante perché (mi) fa venire più di un dubbio che anche per questa tipologia di comportamenti si debba affermare l'irrilevanza delle abitudini ai fini dell'individuazione delle regole cautelari (e quindi della misura oggettiva della colpa).
Questi miei dubbi dipendono dalle specificità dell'abitudine qui in oggetto (gesticolare), che non penso autorizzino ad applicare automaticamente anche per siffatta attività gli assunti sull'irrilevanza delle prassi (ciò che si usa fare) ai fini della definizione delle regole cautelari, e, quindi, dell'imputazione colposa.
Qui abbiamo a che fare, infatti, con un'attività informale solo all'apparenza, ma in realtà altamente codificata.
Le "mosse" del gesticolatore costituiscono le parole di questa forma di linguaggio: possono variare da contesto a contesto, ma sono minuziosamente (pur se inconsciamente) formalizzate. I gesti che facciamo quando "parliamo con il corpo" sono per definizione relazionali e, quindi, orientati ad uno scopo comunicativo. La conseguenza è che per massimizzare questo scopo, cioè la loro idoneità ad essere compresi all'interno del "circolo di rapporti" in cui si collocano, devono rispettare dei codici molto precisi.
Ad esempio, il codice gesticolatorio dell'avvocato in udienza al tribunale di Milano, quello del tifoso sugli spalti dello stadio di Roma e quello del gruppo di amici su una strada della Puglia, rispondono tutti a specifiche e distinte regole, molto più precise di quanto siamo indotti a credere (e non importa se la persona che veste, di volta in volta, i panni del tifoso romanista, dell'avvocato del foro di Milano e dell'amico pugliese per strada dovesse essere sempre la stessa) che vanno puntigliosamente osservate se si intende perseguire la finalità intrinseca ad ogni linguaggio, che è di comunicare.
In altre parole, come a nessun avvocato difensore in udienza verrebbe a mente di "battere il cinque" con gli altri difensori e con l'imputato qualora, in sede di controesame di un teste dell'accusa, avesse "segnato un punto" (ad esempio facendolo cadere in contraddizione), così a nessuno verrebbe a mente, nel corso di una conversazione per strada con un gruppo di amici di gesticolare con i gomiti attaccati al busto e gli avambracci rivolti verso il basso oppure, sugli spalti dello stadio, quando la propria squadra del cuore, nel corso di un acceso derby, dovesse avere segnato un goal, di alzare le braccia ed esultare solo dopo avere appurato che non vi sia nessuno nelle immediate vicinanze. Stringenti (e, a volte, discutibili) regole sociali marginalizzerebbero immediatamente, con specifici e ben immaginabili epiteti, chi dovesse avere tenuto questi prudenti, ma ben bizzarri comportamenti.
Insomma, a me sembra che, per un'attività strutturalmente relazionale e comunicativa come il gesticolare, osservanza degli usi (altamente) codificati e corretto modo di esercizio dell'attività stiano e cadano assieme.
2. Questo comporta un'immediata ricaduta penalistica secondo cui per questo genere di condotte al diritto, una volta appurato che la condotta sia effettivamente riconducibile ad una consolidata abitudine, compete solo la decisione se considerarla lecita o meno. Non può però il diritto pretendere di ri-codificare le regole (cautelari) di esercizio di siffatte attività, stabilendo come si gesticola in modo composto.
Leggendo e rileggendo la sentenza non mi sembra quindi che in questo caso la questione stia nell'individuazione delle regole cautelari attraverso cui gesticolare in maniera (penalmente) lecita. A me sembra insomma che qui il discrimine non passi tra «ciò che "si usa fare"» e «ciò che si "deve fare"» ma, dico io, tra ciò che "si può fare" (perché si usa fare) e ciò che "non si deve fare" (nonostante si usi fare).
In altri termini, non credo che al centro ci sia la ricerca modale di quali siano le regole cautelari da imporre ab externo all'attività del gesticolare, ma la ben diversa questione[1] di quali siano i comportamenti abitudinari, su cui incombe un obbligo di astensione, da quelli, invece, su cui tale obbligo di astensione non sussiste (proprio in virtù della loro diffusione sociale).
Sgombriamo quindi il campo da questo equivoco: per queste tipologie di ipotesi a mio avviso è fuorviante pensare che si possano ricodificare per via giudiziale le corrette forme gesticolatorie. Queste sono predefinite: al giudice occorrerà valutare solo se sono lecite o meno, e, soprattutto, in virtù di quali argomenti.
Posta la questione in questi termini lo scenario cambia. Al centro della vicenda non c'è più la questione se «allargare repentinamente le braccia in modo scomposto» sia di per sé condotta lecita che si possa tenere «su un'affollata pubblica via», bensì comprendere se l'evento lesivo cagionato da questo comportamento, intrinsecamente pericoloso, se effettuato nel corso di una conversazione gesticolatoria in atto, fosse comunque prevedibile.
Nel rispondere a questa domanda a mio avviso la questione della diffusività di quel comportamento assume un ruolo centrale nell'imputazione colposa.
Si aprono infatti due strade. O il fatto che il comportamento sia espressione di un uso non rileva oppure rileva.
3. Sulla strada della non rilevanza si pone la Corte di cassazione.
Il primo corollario è che se gli usi non rilevano dovremo coerentemente affermare che non è discriminante in termini di colposità «allargare repentinamente le braccia» su un angusto e affollato marciapede mentre si sta camminando da soli ovvero farlo in una situazione "codificata", come quella in causa. E già questo mi fa storcere non poco il naso.
Se neghiamo infatti rilevanza agli usi in una situazione in cui la condotta sia effettivamente espressiva di una diffusa abitudine di tipo relazionale e formalizzata, l'impianto accusatorio finisce per nascondere sotto al tappeto elementi centrali dell'imputazione colposa.
La Corte parla giustamente di prevedibilità ed evitabilità, e, a questo punto, affiniamo anche il giudizio chiamando in soccorso l'agente modello[2]. Però attenzione, perché se questi usi non rilevano, cambia la trama: l'attività posta in essere diviene a-specifica, l'agente modello si trasforma (non più il gesticolatore ideale emergente dal circolo di rapporti di quegli amici di quel paese della puglia, ma il passante ideale). E nessun passante modello e/o uomo ragionevole si sognerebbe mai di aprire le braccia in modo repentino su un affollato marciapiede. Morale: in questo caso se non diamo rilevanza agli usi possiamo aggiungere tutti i test di prevedibilità ed evitabilità che vogliamo, tutti gli agenti modello che ci pare, ma in ogni caso finiamo sempre dritto alla condanna, perché è fuor di dubbio che di per sé allargare repentinamente le braccia su un affollato marciapiede è condotta produttiva di eventi lesivi giudicati prevedibili ed evitabili.
Ad onore del vero va tuttavia sottolineato che la Suprema Corte sembra riconoscere uno spazio di rilevanza all'uso, però lo fa nel quadro di un ragionamento di marca prettamente civilistica (o, quantomeno, penalisticamente inaccettabile).
La Cassazione dice infatti che gesticolare di per sé è lecito, ma nei limiti del criterio del neminem laedere. Il messaggio, però, posto in questi termini è tutto schiacciato sul giudizio ex post (o "senno di poi" che dir si voglia): "gesticola in modo innocuo, perché se fai male a qualcuno ti riterrò in colpa".
Immediata la ricaduta in termini di prevedibilità ed evitabilità anche se svolta sulla base dell'agente modello scolpito sul calco del gesticolatore. Se il criterio è il neminem laedere il "gesticolatore modello" è un personaggio di pura fantasia inventato dalla Cassazione, un soggetto che potrà gesticolare solo se lo fa in modo non pericoloso, non usando quindi quei codici corporali di per sé dotati di sufficiente carica lesiva dal potere cagionare una lesione[3].
Insomma, se l'abitudine di gesticolare rileva nella misura in cui non si riveli pericolosa questo, nell'economia di un giudizio di imputazione colposa di un evento in cui quel pericolo si è concretizzato, è solo un modo più articolato per dire che l'abitudine non rileva. Qui l'agente modello non sarà più il passante ideale, ma un gesticolatore ideale, che tuttavia è tale perché pone in essere comportamenti non pericolosi.
Morale: visto che, per le ragioni che ho sottolineato, le regole cautelari non possono proprio inventarsi un gesticolatore modello che tiene i gomiti attaccati al busto e gli avambracci verso il basso, l'unico gesticolatore modello imposto dal neminen laedere, a ben vedere, è quello che non gesticola.
La ricaduta è immediata. Il test di prevedibilità del gesticolare spogliato di una riflessione sulla rilevanza degli usi si traduce in un giudizio di prevedibilità così artificiale che a me sembra debba qualificarsi per quello che senza tanti giri di parole è: un giudizio di prevedibilità in astratto.
4. Se invece accettiamo che gli usi per queste ipotesi rilevano le cose cambiano.
Il proscenio del giudizio colposo sarà riservato ad argomenti posti ai margini dall'impostazione che ne nega la rilevanza.
Innanzitutto, e soprattutto, occorrerà valutare se la condotta posta in essere sia o meno conforme all'uso del gesticolare o se, invece, l'imputato abbia tenuto un comportamento difforme rispetto a quei codici di comportamento. Qui, sulla base delle indicazioni offerte dalla sentenza non è possibile rispondere in modo certo (nonostante i due giudizi di merito sembrino rispondere affermativamente). Giusto per proseguire nel ragionamento ipotizziamo quindi che quel gesto sia conforme al tipico gesticolare di quella zona della Puglia (mi ripeto: anche se non è possibile affermare che le cose stiano effettivamente così).
Poi diviene centrale e non marginale il comportamento della vittima. Chi - per dirlo con Goffman - ha violato le regole «dell'interazione sociale non focalizzata»?[4] É lecito inferire che l'imputato fosse di spalle alla povera signora (è stata colpita con dorso della mano con un movimento a tutto braccio) e che quindi l'imputato non la avesse vista. Quest'ultima, d'altra parte, non aveva segnalato la sua presenza. Al tempo stesso la colorita conversazione tra i quattro amici era già in atto.
Si tratta, quindi, di giudicare un conflitto di reciproche aspettative sociali frustrate. La vittima non pensava che si sarebbe verificato quell'allargamento del braccio, l'imputato non pensava che nel corso di una discussione gesticolatoria qualcuno sarebbe entrato inavvertitamente dentro il 'cilindro di pertinenza' in cui la comunicazione gestuale aveva luogo.
Versa in colpa il gesticolatore per avere fatto affidamento su questa sua personale aspettativa? La risposta a mio avviso dipende da una complessa serie di fattori che vanno valutati con il prisma della tipicità colposa, che pretende che una regola cautelare per essere tale debba essere riconoscibile ex ante dall'agente.
In primo luogo occorre interrogarsi sull'effettivo tasso di pericolosità intrinseca di quell'uso, così come registrabile ed avvertito sulla base dell'esperienza. E, a ben vedere, già la valutazione del grado di diffusività dell'abitudine ci offre qualche indicazione. Per le abitudini relazionali formalizzate il grado di diffusività dei comportamenti codificati solitamente si traduce anche in una loro gestione della pericolosità. Nel caso del gesticolare a me sembra sia così ed infatti penso di non sbagliare nell'immaginare che il tasso di incidenti prodotto da questa attività sia estremamente basso. Immediata la ricaduta in termini di prevedibilità: chi gesticola in modo conforme all'uso poteva, sulla base dell'esperienza, considerare prevedibile un evento come quello verificatosi?
Per rispondere alla domanda occorre però chiedersi anche quanto possa farsi affidamento sulla regola che consiglia di non avvicinarsi ad un gruppo di gesticolatori o di farlo solo dopo avere avvertito della propria presenza. Ed anche qui è sempre la diffusione di quel comportamento a irradiarsi sulla prevedibilità di un evento del genere. Data la diffusione di quel comportamento, questo ha prodotto questa regola sociale (non sconfinare dentro lo spazio di rappresentazione scenica occupato da un gruppo impegnato in una conversazione gestuale, o farlo dopo avere avvertito della propria presenza), che ha immediati effetti in punto di prevedibilità dello spettro di eventi lesivi prodotti dal proprio gesticolare.
Faccio un esempio. Restiamo in Puglia e restiamo per strada. Due persone cominciano a suonare il tamburello. Qualche passante si è messo spontaneamente a ballare la tarantella sul marciapiede. Poco dopo sopraggiunge un pedone che non si arresta e "sconfina", dentro l'ideale territorio di pertinenza che i danzatori sulla base di un'interazione sociale non focalizzata hanno già tracciato; a seguito di una improvvisa piroetta (un tipico passo di tarantella), il pedone viene colpito in pieno volto dal gomito sporgente di uno degli improvvisati ballerini. Naso fratturato. Quest'ultimo è in colpa? Era per lui prevedibile ed evitabile l'evento? L'evitabilità denudata dagli usi anche qui impone una sola regola (non piroettare a gomiti alzati per strada che - predicherebbe la Cassazione - non è il salotto di casa o la pista da ballo). La prevedibilità anche è sicuramente soddisfatta se ciò che ci chiediamo è se sia prevedibile che dal piroettare improvvisamente con le braccia staccate dal corpo possano derivare incidenti ai malcapitati passanti. Se invece ci chiediamo se, nel corso di una tarantella e alla luce di quelle che sono le cadenze tipiche di questo ballo, sia prevedibile che qualcuno riporti delle lesioni perché avvicinandosi improvvisamente da dietro è entrato dentro lo spazio di pertinenza le cose cambiano.
Il problema, per il gesticolare come per la tarantella improvvisata è sempre il solito. Le aspettative di comportamento in pubblico dipendono da una fitta trama di interazioni sociali il cui grado di diffusione ha immediate ricadute in punto di prevedibilità: è possibile tenere conto degli usi per queste situazioni? O, viceversa, è realmente possibile costruire un giudizio di prevedibilità in concreto senza dare rilevanza per queste ipotesi alla diffusione sociale di un dato comportamento? La domanda è retorica.
Una battuta finale. Comunque la si metta, questo caso molto probabilmente trova il suo snodo essenziale nell'assai diffusa (in)osservanza di un'altra abitudine: il gesticolatore si è scusato con la malcapitata signora e/o è andato i giorni successivi a farle visita?
Ci metto una mano sul fuoco (due no, ma una si) che non ci è andato, e che se lo avesse fatto non staremo qui a riflettere su questa storia.
[1] A mio avviso è persuasivo il rilievo secondo cui «sul piano deontologico, la prescrizione di un divieto comportamentale e il suggerimento con cui può essere proficuamente svolta l'attività vietata sono tra loro alternativi quando (e solamente quando) convergono verso uno stesso preventivo». Così F. Giunta, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 88.
[2] Un bell'affresco sull'agente modello, istruttivo ed equilibrato, è tracciato da F. Basile, Fisionomia e ruolo dell'agente-modello ai fini dell'accertamento processuale della colpa generica in Scritti in Onore di Mario Pisani, 2010, ora anche in questa Rivista, 13 marzo 2012; in particolare v. p. 18 s., anche se il ragionamento offerto dall'autore sulla rilevanza dei deficit culturali nella definizione dell'agente modello o nella valutazione della misura soggettiva della colpa mi sembra solo parzialmente applicabile all'attività qui in esame. Nel caso in questione il problema non è la rilevanza o meno di deficit di conoscenze del soggetto agente derivante da limiti comuni al suo "circolo di rapporti", bensì la rilevanza da attribuire al grado di diffusione e sedimentazione delle abitudini di comportamenti relazionali di tipo spontaneo, ma formalizzati, al fine di valutare se siano proprio le abitudini a "decidere" quali regole governino l'interazione sociale in un luogo aperto al pubblico e - quindi - a determinare la prevedibilità di un evento come quello in concreto realizzatosi. In altre parole, secondo il mio modo di vedere, nel caso dei deficit la questione è soggettiva e siamo di fronte ad un problema di rimproverabilità (colpevolezza), nel caso qui in esame la questione è oggettiva (meglio: intersoggettiva) e siamo di fronte ad una questione di normatività (tipicità). Poi, si può considerare (come il sottoscritto) che la colpa rilevi in una duplice dimensione o meno, e si può riconoscere che la colpa svolga una ineludibile funzione tipizzante (come il sottoscritto) o meno, ma non è certo questa la sede per provare ad intervenire su questioni di tale portata (su entrambe - misura soggettiva della colpa e tipicità colposa e rapporto tra regole cautelari e giudizio di prevedibilità evitabilità - v. oggi D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, passim e in partt. p. 135 s., 279 s. e 462 s.). Cercando un punto di condivisione penso tuttavia che, indipendentemente dall'abito concettuale adottato, nessuno neghi che vi sia una differenza tra il problema di comprendere se sia oggettivamente riconoscibile la pericolosità di una determinata interazione e quello di giudicare se una determinata attività, riconoscibile ai più come pericolosa, ma non dal soggetto agente, sia a lui per questa ragione non rimproverabile.
[3] Infatti, la predica conclusiva della Cassazione secondo cui «la strada non è il salotto di casa», oltre che moralista è anche contradditoria, perché se ci riflette un istante ci si rende conto che con questa decisione, fissando nel neminen laedere, il limite di liceità al gesticolare la Cassazione afferma necessariamente che la condotta resterebbe illecita, anche se quella lesione fosse stata cagionata "nel salotto di casa".
[4] Tra i suoi scritti v. E. Goffman, Il comportamento in pubblico. L'interazione sociale nei luoghi pubblici, Torino, 1971 (1963).