ISSN 2039-1676


4 marzo 2013 |

La Corte costituzionale su contumacia e consenso dell'imputato minorenne ai fini della pronuncia della sentenza di irrilevanza del fatto

Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 24, Pres. Gallo, Rel. Frigo (non è costituzionalmente illegittimima la previsione che il consenso del minore per la sentenza di irrilevanza del fatto, in sede di udienza preliminare, debba essere dato personalmente)

1. La Corte costituzionale si pronuncia nuovamente sulla disciplina della sentenza di non luogo a procedere, emessa nell'ambito del rito minorile, per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto.

L'art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 448 del 1988 prevede la possibilità che il giudice pronunci, in sede di udienza preliminare, una «sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall'art. 425 del codice di procedura penale o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto». In applicazione dei principi del giusto processo, la legge n. 63 del 2001 aveva interpolato la disposizione con l'introduzione del consenso del minore, in precedenza non previsto, ai fini dell'emanazione del provvedimento proscioglitivo. Come noto, la modifica ha creato difficoltà esegetiche e suscitato dubbi di legittimità, in particolare per due ordini di ragioni.

Anzitutto, l'elemento negoziale incideva su tutti gli epiloghi favorevoli: pertanto, non si poteva prescindere dal presupposto consensuale anche ai fini di una pronuncia assolutoria o meramente dichiarativa, con la conseguenza che, nell'ipotesi di contumacia o assenza, il giudice non poteva in alcun modo prosciogliere l'imputato e doveva, quindi, disporre il rinvio a giudizio. Inoltre, la novella aveva irragionevolmente circoscritto il consenso al solo primo comma: analogo istituto non era stato previsto per le sentenze di condanna a pena pecuniaria o sanzione sostitutiva diminuita previste dal secondo comma del medesimo articolo. Il portato di una simile asimmetria era evidente: a fronte di un eccessivo garantismo in relazione al proscioglimento, si manifestava un assai discutibile abbassamento del livello di tutela apprestato per l'esito sfavorevole per il minore [1].

A fare chiarezza sui rilievi critici espressi dagli interpreti era intervenuta la Corte costituzionale, la quale aveva dapprima escluso la logica negoziale con riguardo alle sentenze di proscioglimento che non presuppongano un accertamento di responsabilità (Corte cost., sent. 16.5.2002, n. 195) e poi esteso l'ambito di applicazione del requisito adesivo, con provvedimenti di manifesta inammissibilità o infondatezza «su base interpretativa», anche in relazione alle sentenze di condanna diminuita di cui all'art. 32, comma 2, d.P.R. n. 448 del 1988 (Corte cost., ord. 11.6.2003, n. 208 e ord. 2.4.2004, n. 110; di recente i medesimi principi sono stati altresì ribaditi da Corte cost., sent. 27 giugno 2012, n. 165).

La sentenza in esame rappresenta un ulteriore tassello di un travagliato iter e si pone in linea di continuità con i precedenti tentativi di bilanciamento di un delicato istituto.

 

2. Nel caso di specie, il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale per i minorenni di Roma sollevava una questione di legittimità dell'art. 32, comma 1, d.P.R. n. 448 del 1988, in riferimento agli artt. 3, 24, 31, comma 2, e 111, comma 2, Cost., nella parte in cui «esclude che, in caso di contumacia dell'imputato, il consenso alla definizione del processo nell'udienza preliminare possa essere validamente prestato dal difensore non munito di procura speciale». Infatti, la disposizione, pur in assenza di un esplicito riferimento al consenso prestato "personalmente" o "a mezzo di procura speciale", è stata interpretata nel senso che la decisione di permettere una definizione nell'udienza preliminare rappresenta un diritto personalissimo dell'imputato. Pertanto, nell'ipotesi di contumacia del prevenuto che non abbia conferito procura speciale al difensore, è esclusa la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto o per perdono giudiziale, con ciò imponendosi il rinvio a giudizio.

A parere del rimettente, la norma si porrebbe, dunque, in contrasto anzitutto con l'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento tra l'imputato che ha deciso di presenziare al suo processo e colui che ha ritenuto invece di restare contumace.

Inoltre, tale disciplina violerebbe l'art. 24 Cost., poiché la rappresentanza dell'imputato da parte del difensore si vedrebbe menomata di una facoltà in assenza di previsione legislativa: là dove il legislatore ha voluto riservare al solo imputato (e al difensore munito di procura speciale) l'esercizio di taluni diritti, lo ha detto espressamente; viceversa, tale specificazione non risulta nel testo dell'art. 32, comma 1, d.P.R. n. 448 del 1988. Di più: il consenso richiesto sarebbe di natura strettamente tecnico-giuridica, pertanto negare al difensore la possibilità di acconsentire per il suo assistito rappresenterebbe una lesione del diritto alla difesa tecnica. Peraltro, l'imputato avrebbe comunque la possibilità di proporre opposizione, ai sensi dell'art. 32, comma 3, d.P.R. n. 448 del 1988, ove ritenesse di non ratificare la decisione del legale (possibilità estesa anche nei confronti delle sentenze di non luogo a procedere nelle quali la responsabilità è «ontologicamente presupposta» o «logicamente postulata» da Corte cost., sent. 11.3.1993, n. 77).

La disposizione sarebbe altresì in contrasto con l'art. 111 Cost., nella parte in cui sancisce il principio di ragionevole durata, poiché allungherebbe i tempi di permanenza del minore all'interno del processo.

Infine, la norma costituirebbe una lesione dell'art. 31, comma 2, Cost. il quale, in linea con le statuizioni delle Carte internazionali, è preordinato a proteggere «l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». In quest'ottica, il rito minorile dovrebbe essere disegnato in modo da agevolare il reinserimento sociale del minore e, a questo fine, dovrebbero trovare precipua attenzione quegli istituti vòlti alla più celere definizione del procedimento.

 

3. Nel dichiarare la questione non fondata, la Consulta ha preso le mosse dalla modifica legislativa del 2001 e dalle successive pronunce giurisprudenziali. Ha chiarito, inoltre, che la questione non riguarda la legittimità costituzionale del consenso, bensì le sue modalità di prestazione: infatti, il giudice a quo lamentava il fatto che l'assenso preventivo fosse stato costruito come un diritto personalissimo dell'imputato.

Fatta questa premessa, la Corte costituzionale ha affrontato, seppure in modo stringato, le specifiche censure avanzate dal ricorrente. Anzitutto, ha ritenuto non sussistente l'asserita violazione dell'art. 3 Cost.: il prevenuto ha certamente il diritto di non presenziare al processo, tuttavia tale opzione non è scevra di implicazioni; è precluso all'imputato contumace il compimento di quegli atti per i quali è prevista la sua presenza [2]. Se questo è vero per il rito ordinario, lo è a maggior ragione per il procedimento minorile, in considerazione della possibilità per l'imputato di "recuperare" il medesimo esito favorevole in sede dibattimentale: pertanto, la contumacia comporta l'impossibilità di definizione anticipata nell'ambito della sola fase dell'udienza preliminare.

Il Giudice delle leggi ha, inoltre, escluso che possa ritenersi leso il principio di cui all'art. 24 Cost. La configurazione del consenso quale atto riservato all'imputato personalmente o al suo difensore munito di procura speciale è perfettamente legittima. Le sentenze di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale o irrilevanza del fatto sono da considerarsi delle cripto-condanne, posto che presuppongono l'accertamento della responsabilità del soggetto; va da sé che l'utilizzazione di materiale investigativo ai fini della pronuncia di una sentenza che postula la colpevolezza del prevenuto, ancorché per stabilire la sua esenzione da pena, in tanto è legittima in quanto si fondi su una volontà in tal senso manifestata da parte dell'imputato stesso. Tant'è che parte della giurisprudenza ha operato un parallelo con i procedimenti a "prova contratta" del rito ordinario (giudizio abbreviato e applicazione della pena su richiesta delle parti) [3]. Quanto al rimedio dell'opposizione, menzionato dal ricorrente, la Corte ha "liquidato" la questione limitandosi ad affermare che si tratta di uno strumento, «con ogni evidenza, disfunzionale e asistematico». Un'affermazione, quest'ultima, che è probabilmente destinata ad alimentare i perduranti contrasti esegetici sul tema della convivenza tra previo consenso e possibilità di successiva opposizione [4].

Infine, la Corte ha affermato l'infondatezza delle doglianze relative agli artt. 111, comma 2, e 31, comma 2, Cost., operando un bilanciamento di esigenze: da un lato, è sicuramente vero che il procedimento approntato dal d.P.R. n. 448 del 1988 deve essere ispirato alla maggiore sollecitudine nella sua definizione, sì da consentire la rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale; dall'altro, tuttavia, è innegabile, e deve considerarsi prevalente, l'esigenza di demandare personalmente all'imputato la scelta di rinunciare a una delle garanzie fondamentali del giusto processo, qual è la formazione della prova nel contraddittorio delle parti. Pertanto, dall'impossibilità di acquisire il consenso dell'imputato a causa della sua contumacia non emerge alcuna violazione dei parametri costituzionali, poiché le aspirazioni connesse alle peculiarità della condizione del minorenne devono cedere il passo di fronte alla necessità di non fondare un accertamento di responsabilità su risultanze investigative.

 

4. La pronuncia in epigrafe si inserisce coerentemente nel quadro interpretativo delineato negli anni ad opera della stessa Corte costituzionale. Nondimeno, essa non sopisce tutte le perplessità destate dalla disciplina della sentenza di non luogo a procedere nel rito minorile. In particolare, rimane aperta la questione dell'assenza di coordinamento tra la disciplina della sentenza per irrilevanza del fatto emessa nell'udienza preliminare e quella della medesima pronuncia in sede di indagini preliminari. Mentre per la prima è necessario il consenso - e la Corte ribadisce che deve essere espresso personalmente -, per la seconda il riferimento è alle disposizioni dell'art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988: qualora dunque il pubblico ministero chieda al giudice il provvedimento proscioglitivo, questi decide in camera di consiglio «sentiti il minorenne e l'esercente la potestà dei genitori, nonché la persona offesa dal reato» (comma 2).

Secondo l'opinione dottrinale prevalente, le due pronunce sarebbero assimilabili: l'identità dei presupposti comporta una sostanziale corrispondenza dei provvedimenti. La sentenza per irrilevanza del fatto, pronunciata tanto nelle indagini quanto nell'udienza preliminare, postula l'accertamento della responsabilità del minore; e tale accertamento non può che fondarsi sulle risultanze investigative, le quali, quindi, verrebbero utilizzate ai fini di una pronuncia che, seppure priva di significative conseguenze per il minore, presuppone comunque la sua responsabilità [5].

Tuttavia, vanno segnalate due pronunce della Corte costituzionale che sembrano offrire una diversa prospettiva. Si allude anzitutto all'ordinanza n. 103 del 1997, in cui la Corte, chiamata a verificare la legittimità dell'art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, ha sostenuto che questa norma, nella parte in cui consente la celere estromissione del minore dal processo, attua i principi sanciti dall'ordinamento interno e dalle Convenzioni internazionali in materia minorile. Per di più, ha sostenuto in termini generali che «l'esigenza primaria del recupero del minore prevale sul presunto interesse a ottenere una formula di proscioglimento più favorevole». Ebbene, entrambe le considerazioni si espongono a censure. Sotto il primo profilo, le Convenzioni internazionali [6] fanno comunque salvo il riconoscimento al minore delle garanzie spettanti agli accusati in generale. E in quest'ottica rilevano i diritti di difesa e il principio del contraddittorio sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che non possono essere obliterati. Sul secondo versante, l'affermazione della Corte pare opinabile: l'interesse del minore a vedersi riconosciuto innocente non può retrocedere rispetto all'interesse a uscire dal circuito processuale. Proprio sul piano educativo sarebbe difficile giustificare il proscioglimento per irrilevanza del fatto al minore che quel fatto non ha commesso.

La seconda decisione che parrebbe escludere un'assimilazione tra le due pronunce in parola è la sentenza n. 311 del 1997, nella quale il Giudice delle leggi sembrava ravvisare una distinzione in ragione della fase nella quale la sentenza per irrilevanza viene emessa. Secondo la Corte, il giudice chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari dovrebbe valutare «in astratto e assumendo l'ipotesi accusatoria, per l'appunto, come mera ipotesi, e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l'imputato ne porta la responsabilità». Peraltro, una simile impostazione è oggi difficilmente riproponibile: è infatti assai difficile dubitare della natura di cripto-condanna della declaratoria per irrilevanza, a maggior ragione dopo l'intervento della sent. n. 195 del 2002 e dei rilievi svolti sull'accertamento di responsabilità presupposto da talune tipologie di decisioni [7].

È da notare, tra l'altro, che le pronunce sono precedenti alla modifica del 2001 che ha introdotto il consenso per la sentenza nell'udienza preliminare, nonché alla riforma dell'art. 111 Cost. Ed è la stessa Corte costituzionale che successivamente ha mutato prospettiva: già la sentenza n. 195 del 2002 e la stessa pronuncia in esame esprimono chiaramente l'impostazione per la quale la supremazia delle esigenze del minore non può spingersi sino ad affievolire le garanzie defensionali riconosciute all'imputato.

 

5. Una volta chiarito che la fase nella quale viene emesso il provvedimento non ne cambia la sostanza, poiché la commissione del fatto viene comunque accertata e addebitata al minore, va ribadita l'incoerenza sistematica in ordine al presupposto negoziale quale requisito per la pronuncia della declaratoria di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto.

Né pare prospettabile un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988 [9]; pare infatti arduo dedurre dall'obbligo di «sentire» il minore la necessità di un consenso. Da un canto, la presenza del minore non è obbligatoria (tanto più che non è nemmeno possibile ricorrere all'accompagnamento coattivo, prospettabile invece in sede di udienza preliminare) e, dall'altro, sul piano letterale, non pare si possa desumere dal termine "sentire" la necessità di una vera e propria manifestazione di volontà. Semmai, il giudice potrà valutare l'eventuale dissenso del prevenuto che sia comparso ed, eventualmente, decidere di restituire gli atti al pubblico ministero [10].

In conclusione, dunque, sembra difficile superare l'irragionevolezza nella disciplina dell'art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988. Non resta dunque che auspicare un intervento del legislatore o, più verosimilmente, della Corte costituzionale [11].

 

[1]       Le criticità sono state alquanto discusse dagli studiosi. Sia sufficiente richiamare C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005, 277 ss.; M.G. Coppetta, Il consenso dell'imputato minorenne alla sentenza di non luogo a procedere, in Giur. cost., 2002, 1552 ss.; F. Eramo, L'udienza preliminare nel processo minorile, in Giusto processo e prove penali, Milano, 2001, 233 ss.; V. Patanè, Consenso del minore alla definizione anticipata tra esigenze di garanzia del contraddittorio e di ragionevole durata, in Cass. pen., 2002, 3405 ss.; L. Tricomi, Solo il consenso del minore esaurisce il processo, in Guida dir., 2001, f. 13, 68 ss.; F. Verdoliva, Consenso preventivo dell'imputato alla definizione del processo: un'altra occasione persa da parte della Corte costituzionale, in Dir. pen. proc., 2002, 972 ss.

[2]       Si veda Corte cost., sent. 21.11.2006, n. 384, ove la Corte, in tema di procedimento nei confronti di imputati maggiorenni, spiega come «l'impossibilità di proporre la richiesta di rito speciale [...] consegua ad una duplice, volontaria scelta dell'imputato medesimo: quella di rimanere contumace in detta udienza e quella di non conferire una procura speciale al difensore, che lo abiliti, in via preventiva, a presentare la richiesta di rito alternativo in sua assenza».

[3]       In questo senso, Cass., Sez. VI, 31.3.2009, n. 14173, in Ced Cass. n. 243687 (in motivazione); Cass., Sez. II, 10.6.2004, n. 26325, in Ced Cass., n. 229722 (in motivazione).

[4]       Com'è noto, la questione divide gli studiosi. Da un lato, c'è chi ritiene che a seguito della novella del 2001 dovrebbe ritenersi superata la possibilità di proporre opposizione, estesa anche alle sentenze di non luogo a procedere dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 77 del 1993, poiché, a ragionare diversamente, si accetterebbe una "duplicazione dei rimedi". Dall'altro lato, si è sostenuta la cumulabilità dei due istituti, attesa la loro diversità strutturale. In dottrina, basti richiamare C. Cesari, Le clausole di irrilevanza, cit., 391 ss.; M.G. Coppetta, Il consenso dell'imputato minorenne, cit., 1558 s.; M. Daniele, Il consenso dell'imputato minorenne alla definizione del processo in udienza preliminare, in Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R.E. Kostoris, Torino, 2002, 282; F. Eramo, L'udienza preliminare, cit., 236 ss.

[

5]         In questo senso, tra i tanti, C. Cesari, Le clausole di irrilevanza, cit., 284; C. Cesari, Per un "giusto processo minorile": riflessioni a margine di una riforma mancata, in Leg. pen., 2004, 172; M.G. Coppetta, Il consenso dell'imputato minorenne, cit., 1559 s.; M. Costantini, Consenso dell'imputato minorenne ed epiloghi dell'udienza preliminare, in Leg. pen., 288 s.; G. Giostra, Punti fermi in tema di giusto processo penale minorile, in Giur. it., 2004, 3 s.; V. Patanè, Consenso del minore, cit., 3414 s.; S. Quattrocolo, Esiguità del fatto e regole per l'esercizio dell'azione penale, Napoli, 2004, 317; D. Vigoni, L'ambito della declaratoria per irrilevanza del fatto: dalle indagini al giudizio di appello, in Cass. pen., 2004, 2164 s. Rileva l'incongruenza anche F. Verdoliva, Consenso preventivo dell'imputato, cit., 973, il quale però ritiene, in un'ottica inversa, che sia la modifica del 2001 ad essere «non solo extravagante rispetto al sistema costruito dall'art. 27 proc. pen. min., ma anche irrazionale e contraddittoria».

[6]       In ambito internazionale spiccano le "Regole di Pechino" delle Nazioni Unite del 1985, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, nonché le Raccomandazioni emanate dal Consiglio d'Europa in materia di giustizia minorile.

[7]       In termini critici rispetto a questo profilo della sentenza n. 311 del 1997, si veda M. Costantini, Consenso dell'imputato minorenne, cit., 288; P.P. Rivello, Una particolare incompatibilità per l'udienza preliminare nel rito minorile, in Giur. cost., 1997, 2933 s.

[8]       D. Vigoni, L'ambito della declaratoria, cit., 2164.

[9]       In senso contrario, C. Cesari, Le clausole di irrilevanza, cit., 284 s.; V. Patanè, Consenso del minore, cit., 3414, le quali abbracciano una lettura costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 27 e 32 d.P.R. n. 448 del 1988 che fa leva sulla necessità del consenso anche per il provvedimento pre-processuale in considerazione della sottesa identità di ratio.

[10]     In questo senso, si veda S. Quattrocolo, Esiguità del fatto, cit., 317.

[11]     In questo senso sembra orientata D. Vigoni, L'ambito della declaratoria, cit., 2165. Si veda, altresì, S. Quattrocolo, Esiguità del fatto, cit., 317, la quale, ferma la possibilità di sentire il minore, ritiene che l'interpretazione conforme non possa giungere a configurare il consenso quale requisito indefettibile.