ISSN 2039-1676


27 marzo 2013 |

A proposito del volume di D. Tega, I diritti in crisi - Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Giuffré, 2012, pp. 1-214

Recensione

 

1. Il titolo dello studio di Diletta Tega può risultare provocatorio: è possibile che nel momento storico in cui sta definitivamente prendendo forma quella che già Norberto Bobbio aveva denominato l'età dei diritti, si registri anche una loro crisi? L'interrogativo diviene tuttavia certamente meno provocatorio, e rinvia a complesse problematiche capaci di toccare gli stessi equilibri del sistema costituzionale, se si ha riguardo ad un'accezione del termine crisi che evochi uno smarrimento di identità, piuttosto che un inesorabile declino. È questa, in effetti, la prospettiva d'indagine accolta nel corso della trattazione sino alle conclusioni, in cui si osserva come la fase storica attuale mostri certamente una "nuova vitalità" dei diritti dell'uomo ma, altresì, come l'"instabile equilibrio" tra sistemi di tutela, se affrontato dalle Corti senza la consapevolezza della diversità del loro ruolo, possa effettivamente condurre ad una perdita di spessore delle prerogative fondamentali dell'individuo. Ma procediamo con ordine.

 

2. La riflessione di Tega muove da una puntuale osservazione della progressiva attrazione della materia dei diritti dell'uomo nell'orbita del costituzionalismo multilivello e nel "triangolo delle Bermuda" del dialogo tra Corte europea, Corte di giustizia e Corti costituzionali nazionali, in un'analisi in cui vengono sin da subito presentati i principali interrogativi che scaturiscono da tale processo: quale rango ed efficacia deve essere riconosciuta ai precedenti dei giudici sovranazionali? Qual è il ruolo ricoperto da tali istituzioni e sulla base di quale legittimazione? Soprattutto: si assiste ad una reale valorizzazione (cross-fertilization) delle prerogative individuali fondamentali o, piuttosto, ad un'estensione "orizzontale" delle competenze delle Corti europee che, nel loro attivismo, si pronunciano oramai anche sulle più diverse questioni etico-sociali oggetto del dibattito pubblico negli ordinamenti nazionali? (pp. 23 ss.)

Sullo sfondo, inevitabilmente, rimane il lento declino della sovranità statuale  (in particolare, del ruolo dei legislatori nazionali) e l'accentuazione, nell'international constitutionalism, della tradizionale contrapposizione tra le pretese universalistiche dei diritti dell'uomo ed il principio democratico (pp. 28-41). Si tratta di una dinamica che, d'altra parte, non viene data per scontata, soprattutto allorché, nel prosieguo dell'indagine, si segnala l'emersione della critica anglosassone del "bringing the rights back home" nella quale, oltre alla richiesta di codificazione del concetto di "margine di apprezzamento nazionale" e di implementazione del suo utilizzo, si affaccia addirittura l'ipotesi di emanazione di un nuovo UK Bill of Rights che soppianti lo Human Rights Act del 1998, con il quale i diritti Cedu erano stati incorporati nell'ordinamento britannico (pp. 139-145). 

 

3. Nello scenario tratteggiato, come già è potuto emergere, un ruolo protagonistico viene riconosciuto alla Corte europea dei diritti dell'uomo, anche alla luce del rango sovralegislativo che non solo la Convenzione, bensì la stessa interpretazione che ne viene data dai giudici di Strasburgo, ha acquisito nell'ordinamento italiano. Tale processo viene minuziosamente ricostruito e scandito nelle quattro fasi che hanno portato la giurisprudenza costituzionale da una tradizionale impostazione "dualistica" del rapporto tra ordinamenti all'apertura (attraverso il canale dell'art. 117 Cost.) al "pluralismo costituzionale" che caratterizza le sentenze "gemelle" del 2007, confermata (con importanti precisazioni volte ad escludere ogni eventuale c.d. "comunitarizzazione" della Cedu) nelle più recenti pronunce (pp. 69-99). Viene sottolineato, in particolare, il ruolo centrale che la Corte costituzionale ha saputo ritagliarsi rispetto alla valutazione di compatibilità delle soluzioni adottate dai giudici di Strasburgo con le peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi, condizione essenziale per l'instaurazione di una reale "cooperazione" tra le Corti.

L'indagine si concentra quindi sull'evoluzione del giudizio della Corte europea, tocca il tema dello sviluppo di peculiari tecniche ermeneutiche da parte dei giudici di Strasburgo (tra le quali, in particolare, l'elaborazione del fondamentale canone del "margine di apprezzamento nazionale") e si sofferma, infine, sul progressivo spostamento dell'oggetto del sindacato dalle c.d. gross violations - che, sebbene permangano specialmente in talune zone di confine del Consiglio d'Europa (ad es. Cecenia, Kurdistan), vengono ritenute in sostanziale diminuzione - alle questioni più delicate e dibattute negli ordinamenti nazionali (dai temi della non discriminazione, della riservatezza e della libertà di autodeterminazione sessuale sino alle più attuali questioni di bioetica). Si tratta, d'altra parte, proprio dei casi in cui il sindacato dei giudici di Strasburgo è andato incontro alle critiche più aspre, filtrate nelle stesse posizioni assunte da diverse rappresentanze governative nei recenti incontri organizzati per discutere il "futuro" della Corte, ed ha originato contrapposizioni (votazioni a stretta maggioranza, opinioni dissenzienti) o revirements in seno allo stesso organo europeo.

L'Autrice si sofferma, in particolare, su recenti hard cases considerati altamente "sintomatici" in ragione dei temi affrontati e dell'impatto che hanno avuto, direttamente o indirettamente, sull'ordinamento italiano, con la precisa intenzione di mostrare - piuttosto che la correttezza o l'erroneità delle diverse soluzioni - gli inconvenienti derivanti da itinerari argomentati nei quali si scorge un giudice che ha "dimenticato" il proprio ruolo (pp. 120-127). Se, infatti, nella pronuncia sul divieto di aborto previsto nella legislazione irlandese si rileva una certa "tenuta" del margine di apprezzamento nazionale ed un apprezzabile equilibrio nella posizione assunta dai giudici di Strasburgo, uno sguardo critico viene appuntato all'approccio che caratterizza il primo intervento (poi ribaltato dalla Grande Camera) sulla vexata quaestio dell'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche italiane (caso Lautsi c. Italia), colpevole di aver indebitamente trascurato la nozione di "laicità" elaborata dalla Corte costituzionale. Analoghe considerazioni, d'altra parte, vengono formulate in relazione al caso S.H. c. Austria in materia di fecondazione assistita, dove ancora una volta è stata la Grande Camera a sconfessare i percorsi argomentativi "avventurosi" della Prima sezione con una pronuncia che, in quanto ius superveniens, ha avuto peraltro l'effetto di "paralizzare" le questioni di legittimità della disciplina italiana che nel frattempo erano state sollevate da diversi Tribunali proprio sulla base dell'art. 117 Cost. (come segnalato a pp. 154 ss.).

 

4. Di fronte a tali manifestazioni della crisi dei diritti, Tega auspica l'instaurazione di un "circuito cooperativo" tra le Corti in cui queste, proprio attraverso l'utilizzo del margine di apprezzamento nazionale, sappiano coltivare le convergenze, piuttosto che esasperare le divergenze, tra i diversi ordinamenti e tendere così a quel "pluralismo ordinato" efficacemente teorizzato da Mireille Delmas-Marty. Accanto ai legislatori nazionali, il cui ruolo non viene disconosciuto, l'Autrice guarda quindi con favore soprattutto all'intercessione delle Corti costituzionali nazionali ed alla loro capacità non solo di recepire, ma anche di influenzare, le posizioni di Strasburgo - come dimostrano i termini delle sentenze "gemelle" o del Bundesverfassungsgericht nel Görgüglü Beschluβ - così da superare definitivamente la logica che vuole Argentoratum locutum, iudicium finitum (pp. 128-152).

In tale cooperazione dialogica, d'altra parte, vengono coinvolti anche i giudici ordinari che, tanto nell'attività di interpretazione conforme della legislazione interna, quanto nella denuncia della sua illegittimità costituzionale, sono chiamati ad una maggiore consapevolezza del reale significato dei dicta di Strasburgo, anche alla luce dello stretto collegamento con le peculiarità del caso concreto da cui scaturiscono, e ad evitare manipolazioni o strumentalizzazioni dei precedenti della Corte europea volte in realtà a far filtrare determinate opzioni valoriali (pp. 160-168, con particolare riferimento critico alla rilettura data dalla Corte di cassazione della sentenza Schalk e Kopf c. Austria in tema di riconoscimento delle unioni omosessuali).

 

5. In conclusione, si deve sottolineare come l'indagine di Tega si riveli particolarmente ricca di indicazioni e spunti anche per il penalista italiano il quale, oramai, deve confrontarsi quotidianamente con l'impatto del multilevel constitutionalism sulla branca criminale (cfr., da ultimo, V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 839 ss.).

Non è un caso che, nelle battute finali del percorso intrapreso, l'Autrice si soffermi proprio sul tema della riapertura del processo penale dovuta ad una violazione dei diritti dell'imputato la quale, peraltro, oramai concerne non solo le ipotesi di lesione delle prerogative processuali, ma anche l'inosservanza delle garanzie sostanziali "reinterpretate" a Strasburgo (come dimostra il "dispositivo" della sentenza C. cost. n. 113/2011 in tema di revisione). La vicenda dei "fratelli minori" di Scoppola (ora all'attenzione della Corte costituzionale) è, in fondo, l'ulteriore dimostrazione della retrocessione anche sul piano teorico dell'"intangibilità" del giudicato penale (cfr. G. Ubertis, Diritti umani e mito del giudicato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 787 ss.), chiamato ad arretrare anche di fronte alle pretese di soggetti che non possono vantare il "titolo" rappresentato dalla sentenza favorevole di Strasburgo (su tale vicenda, cfr. F. Viganò, Figli di un dio minore? Sulla sorte dei condannati all'ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte Edu in Scoppola c. Italia, in Dir. pen. cont., 10 aprile 2012.

Ma, a ben vedere, la denuncia della crisi dei diritti fondamentali apre importanti momenti di riflessione soprattutto allorché si volge lo sguardo a quel processo di attrazione del diritto penale nella dimensione "universalistica" dei diritti (cfr. F.C. Palazzo, Il diritto penale tra universalismo e particolarismo, Napoli, 2011, 26 ss., con riferimento al tema parallelo dell'istituzionalizzazione della giustizia penale internazionale) che si manifesta, sul piano degli oggetti di tutela, nella oramai nota affermazione di "obblighi di protezione penale" elaborati dalla Corte europea (sulla quale, con diverse prospettive, cfr. F. Viganò, L'arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2645 ss.; S. Manacorda, "Dovere di punire"? Gli obblighi di tutela penale nell'era della internazionalizzazione del diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1364 ss.). L'idea, per certi versi suggestiva (soprattutto alla luce dei casi di grave ingiustizia in cui è stata valorizzata), che gravi violazioni di diritti dell'uomo impongano un intervento punitivo dello Stato effettivo e proporzionato si scontra, infatti, proprio con il problema della "rarefazione" della categoria di riferimento, la quale ha precise ricadute sulla conseguente possibilità di circoscrivere un nucleo di diritti "fondamentali tra i fondamentali" meritevoli di tutela penale "obbligatoria".

Dopotutto, sin dalla prima storica pronuncia X e Y c. Paesi Bassi, gli "obblighi di tutela penale" abbracciano anche quella che l'Autrice considera la vera clausola "aperta" della Convenzione (pp. 182 ss.), ossia quell'art. 8 Cedu in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare dal quale la Corte europea ha saputo distillare una gamma vasta ed eterogenea di prerogative individuali di c.d. "nuova generazione" (in proposito, cfr. l'inquadramento problematico di M. Cartabia, L'universalità dei diritti umani nell'età dei "nuovi diritti", in Quad. cost., 2009; diversi "nuovi diritti" derivati dall'art. 8 Cedu, peraltro, risultano già oggi "assistiti" da positive obligations, anche se non ancora "penali", a carico dello Stato). In tale prospettiva, non si può tantomeno sottovalutare la prossima entrata in vigore di un "autonomo" divieto di discriminazione (ossia rilevante, a differenza dell'art. 14 Cedu, indipendentemente da una lettura "combinata" con una delle altre disposizioni della Convenzione) - definito da Tega come autentico "grimaldello" capace di consentire l'ingresso nel sindacato di Strasburgo di ogni posizione soggettiva tutelata in ambito nazionale od eurounitario - se non altro alla luce del fatto che proprio dall'idea di "irragionevole discriminazione" è scaturita la prima pronuncia di legittimità costituzionale con effetti in malam partem (sentenza C. cost. n. 394/2006 sulle cc.dd. "norme di favore").

Il settore penale, in definitiva, pare destinato a rappresentare uno dei principali campi di sperimentazione del dialogo "cooperativo" tra Corti auspicato dall'Autrice (sull'impatto del pluralismo normativo sul diritto penale, in particolare, cfr. la recente indagine di C. Sotis, Le "regole dell'incoerenza", Roma, 2012); un dialogo dal quale, in effetti, difficilmente potrà rimanere del tutto emarginato quel principio della riserva di legge parlamentare che, pur avendo da tempo dismesso la tradizionale veste vetero-illuministica, rinvia ad istanze di democraticità che, ancorché sostanzialmente neglette a Strasburgo (in particolare, come noto, nella giurisprudenza sull'art. 7 Cedu), manifestano tuttora una certa vitalità negli ordinamenti continentali (si pensi al Lissabon Urteil del Bundesverfassungsgericht) e negli stessi ambienti di common law (sulla conseguente problematica "giustiziabilità" degli obblighi di tutela penale di matrice Cedu, in particolare, cfr. V. Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012, 91 ss.).