ISSN 2039-1676


24 luglio 2015 |

Aberratio ictus plurioffensiva e tentativo di omicidio: quando a essere uccisa è la vittima designata e ferita la vittima colpita per errore

Corte d'assise d'appello di Milano, 16 ottobre 2012, Pres. est. Conforti, Imp. Brancato

 

1. La Corte d'assise d'appello di Milano - chiamata a pronunciarsi quale giudice di rinvio a seguito della sentenza di annullamento della Corte di cassazione - ha parzialmente riformato la decisione resa nei precedenti gradi del giudizio di merito nei confronti di due soggetti, padre e figlio, già condannati per omicidio volontario in danno della vittima designata attinta al collo da un colpo di pistola, e tentato omicidio per aberratio ictus in danno di un terzo soggetto raggiunto accidentalmente al polpaccio da uno dei colpi indirizzati alla prima vittima.

In particolare, applicando i principi di diritto affermati dalla Cassazione nel giudizio rescindente, la Corte milanese ha riqualificato il fatto commesso ai danni della vittima colpita per errore in termini di lesioni personali dolose gravi, osservando che «le modalità del ferimento e il contesto in cui questo è avvenuto escludono che il fatto valutato nella sua oggettività ed autonomia rispetto all'azione omicidiaria» posta in essere nei confronti del primo soggetto, «possa essere ricondotto all'ipotesi di cui agli artt. 56, 575 c.p., difettando, in concreto, i requisiti qualificanti del delitto tentato, ovvero l'idoneità degli atti posti in essere a determinare l'evento e l'inequivoca direzione degli stessi al raggiungimento dell'obbiettivo».

 

2. Questa, in sintesi, la dinamica del fatto come ricostruita dai giudici di merito.

La sera del 22 giugno 2008, durante la competizione tra Italia e Spagna valida per il campionato europeo di calcio, all'interno di una pizzeria nasceva tra uno degli imputati e la vittima un alterco con insulti, minacce e spintoni reciproci. Il gestore del locale, che era intervenuto a dividere i due contendenti, udiva l'imputato conversare brevemente al telefono cellulare, in lingua tedesca, con il figlio. Quest'ultimo, subito dopo, arrivava sul luogo senza però trovare la vittima che nel frattempo aveva lasciato la pizzeria. I due, padre e figlio, si allontanavano quindi dal locale. Dopo aver accompagnato la fidanzata a casa, la vittima vi faceva ritorno per assistere al finale della partita. Più tardi, anche i due imputati tornavano sul luogo e, dopo essersi imbattuti nella persona offesa, rinnovavano con questi la discussione.

Il padre, d'improvviso, estraeva una pistola da dietro la schiena e mirando al volto esplodeva due colpi in rapida successione da distanza ravvicinata e con il braccio teso. Uno dei colpi attingeva al collo la vittima, determinandone la morte quasi immediata. L'altro colpo attingeva invece un altro soggetto seduto su una panchina a diversi metri di distanza, cagionando una lesione al polpaccio destro, con frattura del perone giudicata guaribile in quaranta giorni e non comportante pericolo di vita.

 

3. Conviene, innanzitutto, ripercorrere il complesso iter processuale che ha condotto alla sentenza ora pubblicata.

In esito a giudizio abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di Genova riconosce la penale responsabilità di entrambi gli imputati per i delitti di omicidio volontario, nei confronti della vittima designata, e di tentato omicidio, ai danni del soggetto colpito accidentalmente. In relazione al ferimento di quest'ultimo, il giudice di prime cure - ritenuto che la seconda vittima fosse stata colpita per errore, in conseguenza dell'accasciarsi del soggetto contro cui erano indirizzati entrambi i colpi esplosi dall'imputato - ravvisa un'ipotesi di aberratio ictus plurioffensiva (art. 82 co. 2 c.p.), nella quale l'agente deve rispondere dell'evento non voluto come se fosse voluto. Nel caso di specie, va dunque ritenuto sussistente il dolo omicida anche con riferimento alla vittima non presa di mira, con conseguente condanna degli imputati a titolo di tentato omicidio stanti l'idoneità e la non equivocità degli atti, dimostrate della micidialità dell'arma usata (pistola semiautomatica) e della parte di corpo attinta.

Applicando la diminuente per il rito, il giudice di prime cure condanna conseguentemente il padre - autore materiale - alla pena di trent'anni di reclusione, e il figlio - riconosciuto concorrente materiale, per aver fornito l'arma, e morale, per aver istigato il padre nei momenti immediatamente precedenti gli spari - alla pena di dieci anni e otto mesi di reclusione.

 

 

4. La Corte d'assise d'appello di Genova conferma integralmente le statuizioni e l'iter argomentativo della sentenza di primo grado, limitandosi a rideterminare la pena inflitta al padre.

Avverso la sentenza d'appello propongono quindi ricorso per cassazione entrambi gli imputati lamentando, tra l'altro, l'errata qualificazione come tentato omicidio delle lesioni cagionate alla seconda vittima, da considerare sorrette da mera colpa.

 

5. La Corte di cassazione ritiene fondate alcune delle doglianze sollevate dalla difesa degli imputati e accoglie parzialmente i ricorsi, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte milanese per un nuovo giudizio.

La Suprema Corte ravvisa anzitutto una carenza motivazionale in ordine alla configurazione del concorso morale e materiale del figlio, la cui posizione viene annullata con rinvio. Di particolare interesse, poi, è l'accoglimento del motivo di ricorso, dedotto dalla difesa del padre, relativo alla quantificazione della pena per il reato aberrante e alla qualificazione del fatto come tentato omicidio.

La Corte ha affrontato lo specifico tema dell'aberratio plurioffensiva ex art. 82 co. 2 c.p. osservando che tale disciplina, prevedendo un aumento di pena sino alla metà, «risulta derogatoria, in melius - giacché comunque consiste in un evento aggiuntivo generato dalla medesima azione - rispetto al concorso formale», che prevede la possibilità di aumentare la pena sino al triplo.

Nel concorso formale è normativamente previsto, al terzo comma dell'art. 81 c.p., che l'aumento non possa superare, comunque, il cumulo materiale dei reati commessi. Tale limite, osserva la S.C., non può non valere anche nell'ipotesi di aberratio ictus plurilesiva, giacché «sarebbe davvero paradossale, e certo non interpretazione costituzionalmente orientata ritenere che nell'ipotesi di aberratio plurilesiva, forma di commissione gratificata dal legislatore di meno severa considerazione, non valesse il limite del comma 3 dell'art. 81 c.p.».

Si deve dunque concludere che l'aumento di pena per il reato meno grave non potrà comunque essere superiore a quanto edittalmente previsto ove tale fatto fosse considerato nella sua autonomia. Il giudice dovrà procedere, con valutazione incidentale, quoad poenam, alla qualificazione del fatto minore «su una piattaforma psicologica che non può prescindere dall'intenzionalità della complessiva azione, ma che nell'oggettività dell'evento sia riconducibile a coerente riconoscimento della realtà come in concreto incisa dall'azione stessa».

Nel caso di specie, osservano in conclusione i giudici di legittimità, il reato meno grave, vale a dire il ferimento del soggetto non preso di mira, non può essere automaticamente qualificato come tentato omicidio solo perché evento accessorio a una volontà omicida, ma si deve indagare se in concreto l'azione sia stata oggettivamente idonea a provocare l'evento maggiore.

Ove non lo sia stata, non si potrebbe configurare il tentativo di omicidio ma il meno grave reato di lesioni personali, comunque volontarie perché sorrette da un atteggiamento psicologico unitario che non può degradare a colpa. La pena irrogabile ex art. 82 co. 2 c.p., in questo caso, non potrebbe poi superare il limite edittale previsto per tale fattispecie (anni sette di reclusione se le lesioni sono aggravate ai sensi dell'art. 583 co. 1 c.p.). Limite che sarebbe stato invece superato dalla Corte territoriale che ha determinato l'aumento di pena per il reato aberrante in anni dieci e mesi sei di reclusione, pari esattamente alla metà della pena inflitta per il reato più grave di omicidio doloso (anni ventuno di reclusione).

 

6. Seguendo il dictum della Cassazione, la Corte d'assise d'appello di Milano con la sentenza qui pubblicata escude che il ferimento della vittima non presa di mira possa essere ricondotto all'ipotesi delittuosa del tentativo di omicidio - mancando sia il requisito dell'idoneità degli atti posti in essere a determinare l'evento, sia il requisito dell'inequivoca direzione degli stessi al raggiungimento dell'obiettivo - e riqualifica il fatto in termini di lesioni personali aggravate.

Per un verso, osserva la Corte milanese, la circostanza che la vittima occasionale si trovasse a notevole distanza dallo sparo, che sia stata attinta al polpaccio riportando lesioni che non hanno comportato pericolo di vita, che i due colpi siano stati esplosi senza modifica di traiettoria raggiungendo la vittima non presa di mira solo in quanto il bersaglio, colpito al collo, accasciandosi, ha lasciato libera la traiettoria del secondo proiettile, portano a ritenere che l'azione fosse inidonea a causare l'evento morte. Per altro verso, la notevole distanza a cui si trovava la vittima, la sicura destinazione del colpo ad altro bersaglio e la direzione dello stesso verso gli arti inferiori, portano i giudici a escludere anche l'univoca direzione degli atti alla soppressione della vittima occasionale, soggetto estraneo alla vicenda e in nessuna relazione con l'imputato.

Il ferimento del soggetto nei cui confronti non era diretta l'offesa, conclude la Corte, «si configura sotto il profilo oggettivo in termini di mera lesione dell'integrità fisica dello stesso, sorretta sul piano psicologico - per l'effetto traslativo che si determina in forza del disposto dell'art. 82 c.p., indipendentemente dall'effettiva natura dell'elemento soggettivo che ha animato la condotta [...] - dal dolo» proprio dell'azione omicida nei confronti della vittima designata.

La riqualificazione del fatto incide anche sulla quantificazione della pena che la Corte ridetermina in anni sedici e mesi sei di reclusione, fissando in particolare l'aumento di pena per il reato aberrante ai sensi dell'art. 82 co. 2 c.p. in anni due e mesi sei di reclusione (sicuramente inferiore alla pena che, in applicazione dei parametri fissati dall'art. 133 c.p., sarebbe stata irrogata in caso di autonomo giudizio per il reato di lesioni dolose aggravate e dunque più favorevole all'imputato).

Infine, quanto al posizione del figlio, l'insussistenza di un quadro probatorio idoneo a configurare un suo apporto all'azione criminosa del padre, sia in termini di concorso materiale che morale, induce la Corte d'assise d'appello a pronunciare sentenza di assoluzione.