ISSN 2039-1676


10 dicembre 2010 |

Sulla molestia tramite e-mail

Nota a Cass. pen., sez. I, ud. 17 giugno 2010, n. 24510

In tema di molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.), secondo un orientamento giurisprudenziale confermato dalla sentenza che si annota,  l’evento immateriale – o psichico – del turbamento del soggetto passivo costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per integrare il predetto reato; devono infatti concorrere, alternativamente, gli ulteriori elementi che connotano la condotta del soggetto attivo, tipizzati dalla norma incriminatrice: la pubblicità (o l’apertura al pubblico) del teatro dell’azione ovvero – per quel che qui interessa –  l’utilizzazione del “telefono” come mezzo del reato.
 
Con la pronuncia in rassegna la Suprema Corte opera un’importante actio finium regundorum, stabilendo che il rispetto del canone di tassatività della fattispecie penale non possa dilatare oltre misura la dizione dell’art. 660 c.p., ricomprendendovi anche le molestie perpetrate mediante lo strumento informatico e, in particolare, la posta elettronica (e-mail).
 
In particolare, si evidenzia che l’esigenza di espandere la tutela del bene protetto (della tranquillità della persona) incontra il limite coessenziale della legge penale costituito dal principio di stretta legalità e di tipizzazione delle condotte illecite, sancito dall’art. 25 co. 2 Cost. e dall’art. 1 c.p.
 
Le conclusioni cui perviene la Suprema Corte sono – ad avviso di chi scrive – giuridicamente ineccepibili: al giudice penale non è consentito espletare un ruolo di “supplenza legislativa” ampliando oltre l’area dell’interpretazione estensiva il comando legislativo in materia penale, pena la violazione del principio di legalità.
 
I giudici di legittimità, pur apprezzando per l’intento di tutela del bene giuridico lo sforzo ermeneutico del giudice di primo grado – che ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 660 commesso col mezzo della e-mail –, non hanno potuto non rimarcare che il testo dell’art. 660 c.p. non include nell’alveo della punibilità le condotte commesse mediante l’utilizzo delle nuove tecnologie (partendo dalla condivisibile constatazione di ordine tecnico che l’accesso ad Internet – oggi – non dipende dal “mezzo del telefono”, al quale la Suprema Corte ha peraltro da tempo equiparato, per la sostanziale analogia tecnica, lo strumento del citofono: capofila Cass. pen., sez. VI, 5 maggio 1978, n. 8759, Ced Cassazione, n. 139560).
 
Ben diverso è il caso – già affrontato e risolto dai supremi giudici negli anni addietro – della condotta molesta esercitata mediante invio di sms, avendo la Cassazione opportunamente precisato che il destinatario dei messaggi di testo è necessariamente costretto a percepirli, entrando questi automaticamente nella propria sfera di conoscibilità e, per ciò solo, arrecando fastidio e disagio (Cass. pen., sez. III, ud. 26 marzo 2004, n. 28680, Ced Cassazione, n. 229464).