ISSN 2039-1676


31 ottobre 2013 |

Il caso Horvatić c. Croazia: inutilizzabilità  per la decisione di prove scientifiche raccolte in sede d'indagine senza la garanzia del contraddittorio

C. eur. dir. uomo, Sez. I, sent. 17 ottobre 2013, pres. Berro-Lefèvre, Horvatić c. Croazia, ric. n. 36044/09

 

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1. Con la sentenza Horvatić c. Croazia, la Corte europea ha sottolineato come costituisca un'importante garanzia dell'equo processo l'opportunità per l'accusato di contestare l'autenticità delle prove ottenute nel corso di attività investigative a cui alla difesa non sia stato consentito di partecipare, tanto più quando manchi una dettagliata verbalizzazione di tali operazioni. Viene così alla memoria un caso, all'epoca "coraggioso" (considerata l'impostazione del c.p.p. 1930), in cui il Tribunale di Milano prosciolse l'accusato dal reato di detenzione di stupefacenti, in quanto la droga fu rinvenuta sulla sua auto a seguito di una perquisizione effettuata dopo un intervallo temporale nel corso del quale l'imputato (accompagnato nella Questura di Milano su un'auto della polizia, mentre la sua veniva lì condotta da un sottufficiale di polizia) perse l'opportunità di controllare eventuali manipolazioni probatorie compiute in sua assenza (per un approfondimento della vicenda, v. G.i. Trib. Milano, 12 settembre 1973, Carollo, in Riv. pen., 1974, p 894 ss.).

 

2. Ma vediamo più in dettaglio la vicenda sottoposta allo scrutinio della Corte europea. Il ricorrente è sospettato di aver commesso una rapina in banca. Al fine di ottenere delle prove che consentano d'identificare il rapinatore nella persona del ricorrente, a quest'ultimo viene chiesto di consegnare gli abiti indossati, che vengono quindi sequestrati: dell'operazione è redatto verbale. La polizia preleva anche campioni di capelli e unghie del ricorrente, senza però procedere alla verbalizzazione di quest'attività. In assenza di una puntuale documentazione, è poi contestato lo sviluppo dei passaggi successivi: secondo il ricorrente, dopo averlo allontanato, i poliziotti provvedono autonomamente a "impacchettare" i vestiti e i reperti organici; secondo il Governo, l'"impacchettamento" è eseguito da tecnici, alla presenza di un ufficiale di polizia e del ricorrente. Questi campioni sono poi inviati al Centro di analisi forense, il quale, comparandoli con i vestiti indossati dal rapinatore (rinvenuti nel corso di una perquisizione precedente), rileva su questi ultimi tracce organiche riconducibili al ricorrente.

Alla conclusione delle indagini, il ricorrente è rinviato a giudizio. Egli nega tutte le accuse nei suoi confronti e lamenta (ribadendo quanto già sostenuto in indagine) il rischio che le modalità con cui sono stati ottenuti e "impacchettati" i campioni poi utilizzati per le analisi forensi abbiano determinato una manipolazione della prova. Inoltre, rileva l'incompleta verbalizzazione delle attività investigative. Infine, chiede l'esame degli esperti forensi che hanno analizzato i campioni, al fine di dimostrare la probabile contaminazione tra i reperti prelevati e i vestiti indossati dal rapinatore (determinata propria dall'errato modus procedendi degli agenti di polizia). Il giudice rigetta però le richieste del ricorrente, ritenendole irrilevanti, e lo condanna. La sentenza è poi confermata negli ulteriori gradi di giudizio.

 

3. Davanti alla Corte europea, il ricorrente asserisce l'iniquità del procedimento ai sensi dell'art. 6 comma 1 Cedu. Due sono gli aspetti che vengono in rilievo: anzitutto, lamenta come l'operazione di "impacchettamento" dei vestiti e degli altri campioni organici sia avvenuta senza la sua presenza e in modo tale da poter aver determinato una contaminazione fra gli elementi probatori; sottolinea poi come, nonostante i suoi reiterati reclami in merito alla possibile manomissione della prova da parte della polizia, i giudici nazionali abbiano sistematicamente ignorato questa linea difensiva e si siano rifiutati di esaminare gli agenti di polizia e gli esperti investiti dell'analisi dei campioni.

Anzitutto, la Corte europea rammenta che, sebbene lo scopo primario dell'art. 6 Cedu sia quello di assicurare un processo equo davanti a un tribunale competente, al fine della determinazione della fondatezza di ogni accusa criminale, non ne consegue l'inoperatività della norma in sede d'indagine. Infatti, l'art. 6 Cedu può essere rilevante già prima del rinvio a giudizio, se e nella misura in cui l'equità del successivo processo rischi di essere seriamente compromessa da una sua violazione iniziale: l'affermazione ribadisce un concetto già noto alla giurisprudenza europea. Ad esempio, in tema di diritto all'assistenza difensiva, i giudici di Strasburgo hanno osservato come la mancata presenza del difensore nel corso dell'interrogatorio di polizia svoltosi nelle primissime fasi del procedimento pregiudichi irrevocabilmente il carattere equo del processo, non costituendo rimedi sufficienti né il riconoscimento della difesa tecnica nel successivo sviluppo procedimentale né la natura contraddittoria del dibattimento (cfr. il leading case rappresentato da sent. 24 novembre 1993, Imbrioscia c. Svizzera, § 36; poi confermato da un orientamento ormai consolidato, di cui si rammenta, ex pluribus, grande camera, sent. 27 novembre 2008, Salduz c. Turchia, § 50).

Di conseguenza, per determinare se un procedimento sia stato nel suo complesso equo, occorre accertare il rispetto del diritto di difesa, verificando, in particolare, se all'accusato sia stata offerta l'opportunità di contestare l'autenticità delle prove e di opporsi al loro uso: infatti, anche le modalità di raccolta delle prove devono essere rispettose della fairness processuale. A tal riguardo, numerose sono le pronunce europee in cui viene affermato questo principio: cfr., in tema di prove vietate, sez. I, sent. 25 febbraio 2010, Lisica c. Croazia, § 49; sez. V, sent. 30 giugno 2008, Gäfgen c. Germania, § 97; grande camera, sent. 8 gennaio 2008, Bykov c. Russia, § 90; sez. V, sent. 1° marzo 2007, Heglas c. Repubblica Ceca, § 85; grande camera, sent. 11 luglio 2006, Jalloh c. Germania, § 95; sez. III, sent. 12 maggio 2000, Khan c. Regno Unito, § 34.

 

4. Riguardo alla specifica vicenda, i giudici di Strasburgo osservano come l'accusato, sin dalle fasi iniziali del procedimento, abbia lamentato la sua assenza nel corso dell'operazione d'"impacchettamento" dei campioni e il rischio di manomissione delle prove a causa del modo di procedere della polizia. Secondo la Corte europea, in mancanza di una chiara e completa verbalizzazione, le allegazioni del ricorrente (e la sua richiesta d'interrogare i tecnici forensi che avevano proceduto all'analisi dei campioni) non potevano ragionevolmente essere respinte senza un esame approfondito delle circostanze attraverso cui la prova era stata ottenuta e conservata. Né sembra che la domanda del ricorrente fosse superflua, in quanto, se fondata, avrebbe rafforzato la posizione della difesa o addirittura condotto all'assoluzione: infatti, il risultato delle analisi dei campioni si è rivelato determinante per la condanna (nella giurisprudenza europea il carattere decisivo della prova ottenuta con modalità irrituali è spesso risolutivo per l'accertamento della violazione: cfr., a titolo esemplificativo, sez. III, sent. 30 giugno 2009, Viorel Burzo c. Romania, § 141; sez. V, sent. 1° marzo 2007, Heglas c. Repubblica Ceca, § 90; sez. IV, sent. 5 novembre 2002, Allan c. Regno Unito, § 52; sent. 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c. Portogallo, § 38-39; sent. 12 luglio 1988, Schenk c. Svizzera, § 48), mancando qualsiasi altra prova diretta che identificasse il ricorrente come l'autore della rapina. Rigettando le richieste difensive, la corte nazionale ha negato all'accusato l'opportunità di contestare effettivamente l'autenticità delle prove e di opporsi ad esse. Ne deriva che il diniego dei giudici nazionali di esaminare le richieste dell'accusato, in assenza di una dettagliata documentazione delle attività investigative contestate, ha determinato una violazione dell'equità processuale di cui all'art. 6 comma 1 Cedu