ISSN 2039-1676


11 giugno 2014 |

Suicidio di detenuto in carcere e responsabilità  civile del ministero della giustizia per carenze organizzative dell'amministrazione penitenziaria centrale e locale

Trib. Milano, sez. IX, 8 aprile 2014, Giud. Roia

Segnaliamo ai lettori che la sentenza qui commentata è stata parzialmente riformata dalla Corte d'appello di Milano con sentenza in data 11.12.2014., che su conforme richiesta del p.g. ha assolto da ogni addebito la prima imputata dott.ssa D.S.R., perché il fatto non costituisce reato.

1. Il signor CL, detenuto in esecuzione di misura cautelare in carcere presso la Casa Circondariale di Milano "San Vittore", è inviato alla Casa Circondariale di Pavia per allentare una situazione di tensione ambientale venutasi a creare all'interno della struttura penitenziaria. A causa dell'ingravescenza delle condizioni psichiche viene ritrasferito, il 30 luglio 2009, presso il carcere milanese per essere ricoverato presso idonea struttura psichiatrica giudiziaria. Il trasferimento temporaneo viene disposto senza preventiva verifica della possibilità di destinare il detenuto al centro medico.

Proprio a causa della mancanza di posti-letto presso il "Centro di osservazione neuro-psichiatrica" (CONP), a CL viene assegnata una sistemazione provvisoria in cella a basso rischio suicidario con sorveglianza a vista fino a nuova valutazione medica. Lo stesso giorno la psicologa del carcere adotta un provvedimento (che verrà eseguito il 10 agosto) con il quale revoca la sorveglianza a vista, verso la quale il detenuto, già noto per precedente carcerazione, aveva mostrato forte insofferenza, e dispone l'ubicazione in cella plurima di osservazione psichiatrica a medio rischio suicidario con "attenta sorveglianza". La riduzione del livello di sorveglianza sarebbe compatibile - secondo la professionista - con il quadro clinico del detenuto, affetto da disturbo di personalità, e con la valutazione sul livello di rischio suicidario, in considerazione del fatto che i gesti autolesivi di cui egli si sarebbe reso fino ad ora autore non sarebbero qualificabili con certezza come anticonservativi.

Il 4 agosto il detenuto viene visitato dalla psichiatra del carcere che, conoscendo la storia clinica pregressa e recente di CL, conferma la diagnosi. Viene modificata invece la terapia farmacologica nel tentativo di ricercare una compliance con il detenuto che aveva autonomamente deciso di sospendere l'assunzione dei medicinali. Il medico dichiara nel corso del processo che il giorno in cui visitò il paziente non era a conoscenza della decisione della psicologa di modificare l'ubicazione del detenuto.

Dopo la visita psichiatrica, CL si lesiona lo stesso giorno due volte. Il giorno 8 agosto la psicologa dopo un colloquio con il paziente conferma in sintonia con la psichiatra diagnosi e valutazione del rischio suicidario. Il 12 agosto CL, due giorni dopo il cambio di cella, si toglie la vita mediante impiccamento.

 

2. Vengono chiamate a rispondere del delitto di omicidio colposo ai sensi degli artt. 113 e 589 c.p. la psichiatra e la psicologa in servizio presso la Casa Circondariale di Milano, in virtù della posizione di garanzia della vita e delle salute psico-fisica delle persone recluse che il personale sanitario condivide con quello dell'amministrazione penitenziaria[1].

 

3. Orienta il ragionamento del Tribunale di Milano un principio generale di diritto, valido in qualsiasi contesto sanitario (ospedaliero, residenziale, penitenziario), secondo cui per un'adeguata presa in carico del detenuto affetto da malattia mentale, funzionale a salvaguardarne interessi primari come la vita o l'incolumità psico-fisica, le esigenze di cura vanno, se necessario, bilanciate con le esigenze di sorveglianza sulle irregolarità comportamentali eventualmente indotte dalla condizione di sofferenza psichica.

Anche nel particolare contesto carcerario Ë— osserva condivisibilmente il Tribunale di Milano Ë— la legittimità dell'intervento sanitario è condizionata al consenso del paziente, e nei limiti in cui ciò sia possibile l'agire medico deve essere orientato alla realizzazione di un'alleanza terapeutica con la persona reclusa. Il rispetto della dignità umana e del diritto all'autodeterminazione del detenuto in ambito sanitario esclude, pertanto, che il controllo possa normalmente declinarsi in pratiche estreme di prevenzione della morte, coercitive o ulteriormente segreganti, come ad esempio la coercizione fisica o la contenzione meccanica, l'isolamento o la sorveglianza a vista H 24[2]. Consenso e alleanza terapeutica non assurgono però a valori assoluti, potendo al contrario essere validamente derogati in situazioni di stretta necessità per la protezione di interessi primari dello stesso paziente o di altri detenuti.

 

4. La sentenza assolve la psichiatra in servizi presso la Casa Circondariale di Milano ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p. per la presenza di una prova insufficiente sul piano dell'esigibilità di una condotta alternativa idonea ad impedire l'evento, e precisamente perché non è possibile affermare «con alto grado di probabilità, che il mantenimento della terapia farmacologica ... fosse un atteggiamento esigibile a quale momento, e soprattutto, idoneo a scongiurare l'evento mortale in presenza delle altre situazioni stressanti costituite dalla collocazione nelle celle plurime del CAR e della detenzione in quell'ambiente milanese che era diventato per la parte lesa, sul piano della percezione soggettiva, fortemente ostile».

 

5. Della morte del detenuto viene giudicata penalmente responsabile la psicologa, condannata alla pena (condizionalmente sospesa) di otto mesi di reclusione ed al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale con una provvisionale immediatamente esecutiva di euro 529.000, in solido con il responsabile civile, Ministero della Giustizia, ex art. 2049 c.c.

Si rimprovera alla psicologa non già di aver modificato l'ubicazione del detenuto in cella con inferiore livello di sorveglianza (da "sorveglianza a vista" ad "attenta sorveglianza") in attesa che si liberasse un posto nel settore CONP, bensì di aver tenuto, pur in presenza di «ulteriori tre episodi auto lesivi [a lei noti] posti in essere da CL, in un contento ambientale divenuto difficile ... a causa delle relazioni complesse con i detenuti e il personale di polizia e con una deriva psicotica comunque accertata dalla [psichiatra]», un "atteggiamento di tipo attendista" censurabile sul piano della imperizia e della negligenza. In particolare, la professionista avrebbe colpevolmente omesso di rivalutare la situazione personale del detenuto e si sarebbe astenuta dall'adottare con urgenza qualsiasi «tipo di intervento, anche di tipo decisamente sollecitatore nei confronti dei soggetti responsabili delle strutture, quali il richiedere una visita psichiatrica per valutare a questo punto l'efficacia della terapia [farmacologica] adottata dalla dr.ssa M. ..., il coinvolgere la responsabile del reparto dr.ssa C., o la stessa dr. M., per sollecitare il ricovero presso il CONP dove CL sarebbe stato finalmente "monitorato", l'attivarsi per richiedere un ricovero in una struttura sanitaria ospedaliera o giudiziaria»; soprattutto si contesta alla psicologa, trattandosi di azione personalmente esigibile, il non aver "messo in sicurezza" il detenuto attraverso la predisposizione di un «totale controllo» con sorveglianza a vista H 24, almeno per un periodo di tempo limitato in attesa dell'adozione di una delle misure sanitario-trattamentali sopraindicate.

 

6. L'Amministrazione penitenziaria viene condannata ex art. 2049 c.c. non solo per il fatto illecito della psicologa ma anche per le numerose deficienze evidenziate a tutti i livelli, centrale e locale, nella gestione «inaccettabile» di un detenuto in gravi condizioni cliniche.

Alla Amministrazione Penitenziaria centrale si contesta un approccio burocratico e gravemente negligente nelle modalità del trasferimento di una persona per motivi di salute, e in specie il fatto che detto trasferimento alla Casa Circondariale di Milano sia avvenuto in assenza di una preventiva verifica della disponibilità di posti presso il centro medico (n.d.r.: per di più in una struttura che costituisce un'area di osservazione e trattamento psichiatrico importante per l'intero circuito penitenziario lombardo), e che il provvedimento amministrativo di trasferimento del detenuto sia stato portato a conoscenza degli operatori penitenziari dell'istituto di ricezione nel momento stesso dell'arrivo.

Viene inoltre affermata la responsabilità dell'amministrazione penitenziaria anche in relazione alla scarsa professionalità mostrata dall'agente di polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza nel raggio in cui era detenuto CL, in occasione di un gravissimo episodio, giudicato dalla sentenza "verosimile". L'agente di custodia, di fronte alla richiesta di CL di incontrare un medico, rafforzata dalla minaccia di tagliarsi, avrebbe risposto con la frase «prendi pure una corda ed impiccati». La provocazione dell'agente, segno di insensibilità umana e arretratezza culturale, è ritenuta priva di rilevanza sul piano causale rispetto al proposito suicidario del detenuto[3].

La sentenza stigmatizza, a prescindere dalla eventuale rilevanza sul piano della responsabilità penale, l'operato del personale sanitario, a tutti i livelli nella struttura organizzativa, della Casa Circondariale di Milano "San Vittore". Alla Direzione rimprovera, in particolare, d'aver omesso di vigilare sulla gestione di un detenuto connotata da importanti manchevolezze: superficialità nella presa in carico del paziente, in una situazione caratterizzata peraltro da divisione di ruoli poco chiara in merito a chi spettasse seguire sul piano psichiatrico l'evoluzione del quadro sintomatologico dopo la visita del 4 agosto, e passività dei responsabili dei reparti e dei medici, che hanno avuto contatto con il detenuto, nel rinvenire con urgenza una collocazione nel settore psichiatrico CONP o al limite nel CDT (Centro Diagnostico Terapeutico), eventualmente attraverso lo spostamento di un altro detenuto.

 

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Brucianti questioni etiche concernenti il conflittuale rapporto tra cura e controllo si aprono quando l'assistenza della persona sofferente si svolge all'interno di un sistema integrato di cura e punizione come il carcere, in cui il sapere medico e psicologico deve in qualche modo contribuire a dare risposte a problemi di buona organizzazione (anche della sicurezza interna).

In un ordinamento ispirato al rispetto dei diritti fondamentali della persona, la legittimità di un dato sistema di controllo all'interno di contesti di cura non si misura in termini di efficacia preventiva e impeditiva delle situazioni di pericolo, quanto piuttosto - in linea con la copiosa giurisprudenza costituzionale sulla legittimità delle misure di sicurezza per infermi di mente (es. Corte cost. 324/1998 e 253/2003) - sulla base della capacità di contemperare finalità di cura e controllo, in un equilibrato bilanciamento in cui la condizione di "malato" non venga interamente assorbita da quella di "detenuto", all'interno di un modello di presa in carico del detenuto-paziente adeguato dal punto di vista sanitario.

Occorre, quindi, contrastare la diffusione in carcere di pratiche mediche di tipo ambulatoriale-emergenziale, per cui lo specialista psichiatra interviene nelle manifestazioni eclatanti della sofferenza con un modello di consulenza clinica fortemente tecnicizzato, e fondamentalmente finalizzato alla somministrazione di farmaci. Questo modello d'intervento sanitario rischia di validare una divisione dei compiti tra professionisti di salute mentale (psichiatri, psicologi, educatori, assistenti sociali), in cui «non vi è traccia alcuna di approccio integrato, multidisciplinare, neanche l'ombra di équipe integrate»[4]. Si tratta di un modello organizzativo della sanità penitenziaria da respingere, fondato su una rigida distinzione tra intervento di psichiatria, di salute mentale e riabilitazione psicosociale, in cui la formalistica divisione di ruoli tra professionisti ostacola - come sembrerebbe essersi verificato proprio nella vicenda in esame - un'adeguata circolazione e condivisione a tutti i livelli del personale sanitario di informazioni rilevanti sulle condizioni di salute delle persone detenute.

Anche per questo motivo, si lascia apprezzare la condanna del Ministero della Giustizia, in veste di responsabile civile, per il suicidio del detenuto, in quanto - si auspica - idonea, almeno sulla carta, a stimolare una riorganizzazione della pratica penitenziaria all'interno della Casa Circondariale di Milano "San Vittore" funzionale a una migliore protezione del diritto alla vita e alla salute delle persone recluse.


[1]  Sulla condivisione tra servizi sanitari e Amministrazione Penitenziaria del ruolo di garante nel campo della salute delle persone detenute, si veda M.L. Fadda, La tutela del diritto alla salute dei detenuti, in Riv. it. med. leg., 2012, p. 613 ss. Ha riconosciuto la configurabilità di una posizione di garanzia in capo agli agenti di custodia in relazione al suicidio del detenuto, Cass., sez. I, 8 maggio 2009, n. 22373, in www.iusexplorer.it.

[2] Considerazioni analoghe, di recente, in P. Gonnella, Carceri. I confini della dignità, Milano, 2014, p. 82 s.

[3] Per una narrazione documentata di vicende di abusi e soprusi su persone detenute a opera di agenti di polizia penitenziaria, si vedano L. Manconi e V. Calderone, Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldrovandi al processo per Stefano Cucci, Milano, 2013; e L. Cardinalini, Impìccati! Storie di morte nelle prigioni italiane, Roma, 2010.

[4] S. Verde, Il carcere manicomio. Le carceri in Italia fra violenza, pietà, affari e camicie di forza, Roma, 2011, p. 45.