ISSN 2039-1676


25 giugno 2014 |

Risponde di estorsione la prostituta che minaccia il cliente costringendolo a pagare la prestazione? A proposito del concetto di ingiustizia del profitto

Nota a Trib. Roma, 7 maggio 2014, Pres. Liotta, Est. Di Nicola

Il presente contributo è ora pubblicato nel n. 3-4/2014 della nostra Rivista trimestrale. Clicca qui per accedervi.

 

1. Un uomo contatta una giovane prostituta nigeriana al fine di consumare un rapporto sessuale al prezzo concordato di 100 euro; dopo aver consumato il rapporto sessuale non corrisponde quanto concordato e sparisce abbandonando la donna in un supermercato, dove questa aveva chiesto di essere accompagnata per comprare dei generi alimentari.

La prostituta, in possesso del numero di telefono del cliente, tenta quindi di recuperare il denaro inviando alcuni sms dal contenuto minatorio: "devi sapere che io ti conosco e che so chi sei e dove abiti; se tu non vieni a portarmi i 100 euro per la scopata che hai fatto avrai un sacco di problemi...Ti do tre giorni per portarmi i miei soldi. Conosco tua figlia, la tua macchina, la tua casa. Ti do l'opportunità di risolvere la situazione prima che inizino i veri problemi. Voglio dirti che io non sono sola...tu stai delirando, se non mi porti i soldi verrò a casa tua quando meno te l'aspetti".

L'uomo denuncia ai carabinieri le richieste estorsive della donna, tacendone il motivo e fingendo di conoscere la stessa solo per averle prestato soccorso alcuni giorni prima. I carabinieri organizzano così un appostamento nel luogo concordato per la consegna della somma di denaro, e, dopo aver fotocopiato le banconote, procedono all'arresto in flagranza della donna, chiamata a rispondere davanti al Tribunale di Roma del delitto di estorsione (aggravato perché commesso da più persone: la prostituta, infatti, si è fatta aiutare da un amico a tradurre in italiano gli sms minatori).

 

2. Il Tribunale di Roma, con la sentenza che può leggersi in allegato, ha escluso la configurabilità dell'estorsione - punita, nella contesta ipotesi aggravata (art. 629, co. 2 c.p.), con la reclusione da sei a venti anni - e ha condannato la giovane prostituta (e il suo amico, concorrente nel reato) a quattro mesi di reclusione per l'assai meno grave delitto di violenza privata ex art. 610 c.p. (concedendo peraltro la sospensione condizionale della pena).

A risultare decisiva per la mutata qualificazione giuridica del fatto - e, in particolare, per escludere l'estorsione - è la negazione del carattere "ingiusto" del profitto perseguito dalla prostituta (l'ingiustizia del profitto, come è noto, è elemento costitutivo del delitto di cui all'art. 629 c.p.; mentre la figura generale della violenza privata - il prototipo della violenza/minaccia-mezzo di coazione - prescinde da tale elemento).

 

3. Si tratta di una conclusione non nuova, seppure non incontrastata; del tutto inedito è invece il percorso argomentativo seguito dal Tribunale di Roma per pervenirvi, con un'articolata motivazione.

Procedendo per gradi - e con estrema sintesi - ricordiamo al lettore quel che insegna da tempo autorevole dottrina, e che si legge ad esempio nel Manuale di Antolisei: nell'ambito dei delitti contro il patrimonio si deve considerare ingiusto "soltanto il profitto che non è in alcun modo, e cioè né direttamente né indirettamente, tutelato dall'ordinamento giuridico"[1].

Orbene, secondo la tesi tradizionale - tra i penalisti e ancor prima tra i civilisti - l'utilità economica concordata per prestazioni sessuali a pagamento non è direttamente tutelata dall'ordinamento: ad essa non corrisponde, infatti, un diritto azionabile in giudizio. La pretesa di cui si tratta non è munita di azione - come si precisa anche in giurisprudenza - perché trae origine da un contratto avente causa illecita in quanto contrario al buon costume[2].

Sempre secondo l'impostazione tradizionale, alla medesima utilità economica, derivante dalla prostituzione, va peraltro riconosciuta una tutela indiretta, sub specie di concessione della soluti retentio, analogamente a quanto dispone l'art. 2034 c.c. per le obbligazioni naturali (ad es., per la somma corrispondente a un credito di gioco). Ai sensi dell'art. 2035 c.c., infatti, "chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato". Sarebbe questo il caso, anche e proprio, della prostituzione: il cliente della prostituta che abbia spontaneamente pagato la prestazione sessuale non può ripetere la somma pagata, che la prostituta può pertanto legittimamente trattenere[3].

La conclusione, sempre secondo la tesi tradizionale, che si rifà al criterio scolpito da Antolisei, è nel senso di escludere l'ingiustizia del profitto conseguente alla prostituzione, proprio perché tale attività riceve una tutela indiretta da parte dell'ordinamento giuridico. Ne consegue che gli atti di violenza o di minaccia realizzati dalla prostituta per costringere il cliente a pagare la prestazione (ovvero posti in essere dal cliente per costringere la prostituta a rinunciare al pagamento della prestazione stessa) non integrano:

a) l'estorsione, per difetto del requisito dell'ingiusto profitto realizzato dall'agente[4];

b) l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.), per difetto, per l'appunto, di una pretesa azionabile in giudizio[5].

Quegli atti, invece, come già Antolisei concludeva[6], non sono peraltro penalmente irrilevanti, ben potendo integrare la violenza privata (art. 610 c.p.).

 

4. Non si tratta, peraltro, come si accennava, di un orientamento incontrastato: parte della dottrina e della giurisprudenza, infatti, ritiene ingiusto il profitto - e integrato il delitto di estorsione - ogni qualvolta l'agente miri ad ottenere l'adempimento di un'obbligazione naturale, ovvero il corrispettivo per una prestazione contraria al buon costume: il pagamento di una somma di denaro derivante dal gioco d'azzardo[7], dalla cessione di stupefacenti[8] o, per l'appunto, da rapporti sessuali a pagamento[9]. Sulla scia di un'argomentata tesi contraria a quella di Antolisei, sostenuta da Ragno[10], si nega infatti rilievo alla tutela indiretta rappresentata dalla solutio retentio, attraverso la quale l'ordinamento riconosce una pretesa - a trattenere quanto corrisposto per l'obbligazione naturale o contraria al buon costume - solo dopo che una delle parti abbia spontaneamente adempiuto. Prima di quel momento l'ordinamento non riconosce alcuna tutela, della quale dovrebbe pertanto ritenersi priva la pretesa della prostituta al corrispettivo per la propria prestazione; con la conseguenza che il relativo profitto dovrebbe considerarsi ingiusto.  

 

5. Nel contesto del quadro degli orientamenti qui abbozzato, la sentenza del Tribunale di Roma qui annotata inaugura una terza via (il futuro dirà se avrà seguito): perviene alla medesima conclusione indicata già da Antolisei (configurabile la violenza privata e non l'estorsione, per difetto del requisito dell'ingiustizia del profitto), attraverso però un percorso argomentativo inedito e affatto diverso, sviluppato in un'ampia e articolata motivazione., che di seguito compendiamo.

Il Tribunale contesta la tesi, consolidata in dottrina e giurisprudenza, che esclude qualsiasi valore giuridico alla pretesa della prostituta rispetto al compenso pattuito, qualificando il rapporto con il cliente come prestazione contraria al buon costume ai sensi dell'art. 2035 c.c. Si tratterebbe di una tesi, secondo il Tribunale, "che trova origine in assetti giuridici che appaiono ampiamente superati", come mostrerebbe il riconoscimento, in numerose fonti sovranazionali, di un vero e proprio "diritto alla sessualità", comprensivo del "diritto alla scelta di vendere la propria prestazione sessuale" (p. 25 della sentenza annotata). Si legge in particolare nella motivazione della sentenza (p. 26) che "acquistare servizi sessuali a pagamento non implica un conflitto con i diritti umani delle persone coinvolte nella prostituzione se queste operano autonomamente e consapevolmente, in quanto esiste anche un diritto all'esercizio dell'attività di prostituzione allorché questa ponga al centro la libertà di scelta della prostituta e preveda un sistema volto a facilitare l'abbandono volontario di tale attività". La conclusione cui perviene la sentenza annotata è netta, e sarebbe imposta da un'interpretazione del diritto civile conforme ai principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 3 Cost (p. 30): "la prostituta ha diritto di essere retribuita ed il profitto che ne consegue è giusto" (p. 26); "è quindi da ritenersi contraria al buon costume e causa 'immorale', nel nostro sistema ordinamentale, non la prestazione sessuale che avviene riservatamente a pagamento tra adulti, liberi e consenzienti [come nel caso di specie, n.d.r.], ma la condotta del cliente che pretende da una prostituta giovane, straniera, e di certo vittima di sfruttamento, la prestazione sessuale come gratuita in considerazione proprio della disparità sociale, economica e di genere tra i due soggetti del rapporto" (p. 32).

Il Tribunale conclude quindi (p. 35 s.) nel senso che: tra le prestazioni contrarie al buon costume ai sensi dell'art. 2035 c.c. non è ricompreso l'esercizio della prostituzione in quanto tale; "non è ingiusto il profitto per il solo fatto che la pretesa sulla quale detto profitto si fonda è una pretesa fino ad oggi non tutelata dall'ordinamento per una certa interpretazione offerta del buon costume allorché si tratti della prestazione sessuale di una prostituta non pagata"; il profitto della prostituta "va legittimamente preteso da questa", pur nelle forme dovute che non trasmodino in violenza o minaccia" (p. 36). Di qui la derubricazione del fatto da estorsione a violenza privata.

 

6. Nel riconoscere il diritto della prostituta al compenso per le proprie prestazioni, il Tribunale, pur consapevole del contrario e dominante orientamento, finisce per suggerire la via dell'azionabilità del diritto stesso (p. 36). Senonché, a rigore, se si ammette la possibilità per la prostituta di adire il giudice civile per ottenere il proprio compenso, il fatto deve essere qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.), e non come violenza privata.

 

7. Tirando le fila, a noi pare che l'interessante sentenza del Tribunale di Roma pervenga a un esito condivisibile sotto il profilo della giustizia sostanziale: escludere un delitto così grave, come l'estorsione, a fronte della richiesta, con violenza o minaccia, di somme di denaro che una donna ridotta dalla povertà a vendere il proprio corpo pretende come corrispettivo. E' un esito sul quale indubbiamente ha influito, nel caso di specie, il comportamento del 'cliente', che - ad avviso del Tribunale - pur non di non pagare 100 euro per il rapporto consumato è giunto a denunciare per estorsione e a far arrestare la prostituta, e poi a rendere dichiarazioni ritenute false al Tribunale (che ha pertanto trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica); comportamento del quale il Tribunale - si noti - ha tenuto conto altresì in sede di commisurazione della pena per il ritenuto delitto di violenza privata, e di concessione della sospensione condizionale della pena. Senonché, a noi pare, l'esito di giustizia sostanziale cui evidentemente ha mirato il Tribunale può essere raggiunto più agilmente seguendo la tesi tradizionale di cui si è detto, che risale almeno ad Antolisei e che la giurisprudenza, anche di legittimità, ha più volte percorso. Con ciò - beninteso - non si vuole certo negare l'importanza di battaglie civili per il riconoscimento dei diritti delle prostitute, per le quali la sentenza annotata, anche grazie al particolare sforzo argomentativo e alla ricostruzione del quadro delle fonti sovranazionali in materia, potrà certo assumere rilievo; il nostro dubbio è però che non sia questa la sede per condurle.

 


[1] F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, XIV ed., Milano, Giuffrè, 2002, p. 284. V. anche G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo I, I delitti contro il patrimonio, VI ed., 2014, p. 39: "il profitto è definibile ingiusto tutte le volte in cui il suo perseguimento prescinde da una pretesa giuridicamente riconosciuta, in forma sia diretta sia indiretta"; F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, II, IV ed., Padova, Cedam, 2012, p. 44: "il profitto deve ritenersi giusto quando si fonda su una pretesa comunque riconosciuta dal diritto, sia in modo diretto...sia in modo indiretto": Nello stesso senso, in giurisprudenza, Cass. Sez. VI, 16 ottobre 1990, n. 2460, Rasi, in Ced Cassazione n. 186472.

[2] Cfr., tra le altre, Cass. Sez. II, 10 dicembre 1971, n. 4003, Giachi, in Ced Cassazione n. 121242; Cass., Sez. I, 16 novembre 1970, n. 2290, Bell, ivi, n. 117285. Nella giurisprudenza civile, per l'affermazione della contrarietà della prostituzione al buon costume v., da ultimo, Cass. civ., Sez. V, 13 maggio 2011, n. 10578, in Ced Cassazione n. 618085 e, in precedenza, Cass. civ., Sez. III, 1° agosto 1986, n. 4927, ivi, n. 447616.

[3] Cfr. Cass. Sez. II, 10 dicembre 1971, n. 4003, Giachi, cit.; Cass. Sez. III, 10 ottobre 1972, n. 5171, Italiano, in Ced Cassazione n. 124475.

[4] Cass. Sez. II, 5 marzo 2001, n. 9348, Vegliante, in Riv. pen., 2001, p. 444.

[5] A tale ultimo proposito v. ad es. Cass. Sez. II, 10 dicembre 1971, n. 4003, Giachi, cit.; Cass., Sez. I, 16 novembre 1970, n. 2290, Bell, cit.

[6] F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, cit., p. 285.

[7] Cass. Sez. II, 23 settembre 2003, n. 41453, El Khattabi, in Ced Cassazione n. 227674; Cass. Sez. II, 31 gennaio 2013, n. 7972, De Maio, ivi, n. 254995.

[8] Cass. Sez. VI, 16 ottobre 1990, n. 2460, Rasi, cit.

[9] Cass. Sez. II, 10 ottobre 1972, n. 5171, Italiano, cit.

[10] G. Ragno, Il delitto di estorsione. Lineamenti dommatici, Milano, Giuffrè, 1966, p. 217 s. La tesi è stata da ultimo sviluppata da C. Baccaredda, S. Lalomia, I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in G. Marinucci, E. Dolcini (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte speciale, vol. VIII, Padova, Cedam, 2010, p. 5854 s.