13 febbraio 2014 |
Sui rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone: un revirement giurisprudenziale
Nota a Cass., Sez. II, ud. 04.12.2013 (dep. 19.12.2013), n. 51433, Pres. Petti, Rel. Rago, ric. Fusco (ove la violenza e/o la minaccia, anche se particolarmente intense o gravi, siano effettuate al solo fine di esercitare un preteso diritto, pur potendo l'agente ricorrere al giudice, non è configurabile l'estorsione bensì l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p.)
1. La sentenza annotata affronta il problema del criterio di distinzione tra i delitti di estorsione (art. 629 c.p.) e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) che si pone nella prassi dei casi di coartazione del soggetto passivo tesa, almeno apparentemente, a realizzare un preteso diritto dell'agente. La sentenza, che si legge in allegato, si segnala per l'abbandono del tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui si configura il più grave delitto di estorsione quando la violenza o la minaccia siano talmente gravi da esorbitare dal livello ragionevolmente compatibile con l'esercizio, seppur arbitrario, delle proprie ragioni, presentandosi come del tutto sproporzionate rispetto al fine del conseguimento del preteso diritto[1]. Nella pronuncia in esame la Suprema Corte torna a sposare, infatti, l'orientamento più risalente secondo il quale l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e l'estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l'elemento intenzionale, non essendo in alcun modo rilevante, al fine della delimitazione dei rispettivi ambiti di applicazione delle incriminazioni in esame, l'intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia.
Opportuno, per meglio comprendere il problema in esame, richiamare brevemente le fisionomie delle due fattispecie delittuose. Nell'estorsione il soggetto passivo è costretto, con violenza o minaccia, a fare o ad omettere quanto imposto dall'agente, che persegue un ingiusto profitto. Nell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone comune all'estorsione sono le modalità alternative della condotta - violenza o minaccia - ma differenti sono gli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie: a) il fine di far valere un preteso diritto; b) la possibilità di ricorrere al giudice; c) l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni a fronte di un terzo che, a torto o a ragione, si opponga alla suddetta pretesa.
2. La fattispecie al vaglio della Corte di cassazione è la seguente: il Tribunale del Riesame di Messina sostituiva la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari nei confronti di F.I., indagato del reato di estorsione perché, con minaccia consistite nel cospargere di benzina un'autovettura di proprietà di L.E. e nel fargli trovare vicino una bottiglia contenente liquido infiammabile, costringeva quest'ultimo a pagargli delle spettanze lavorative arretrate ed a sottoscrivere un verbale con i sindacati per la concessione della cassa integrazione.
Il Tribunale del Riesame ha adottato la propria decisione sul presupposto che il fatto integri il delitto di estorsione e non quello di "ragion fattasi" in relazione al quale non è notoriamente consentita la custodia cautelare. A tale conclusione i giudici siciliani sono pervenuti utilizzando proprio il criterio sopramenzionato, avendo infatti ravvisato nel caso di specie una condotta caratterizzata da una forza intimidatoria esorbitante rispetto ad ogni ragionevole intento di realizzazione di un preteso diritto.
Contro la decisione del Tribunale del Riesame proponevano ricorso per Cassazione tanto l'indagato quanto il P.M.; quest'ultimo, in particolare, sostenendo che la gravità della condotta posta in essere dall'indagato avrebbe dovuto indurre il Tribunale a confermare la custodia cautelare in carcere. Investita del ricorso, la S.C. si è posta il problema, logicamente preliminare, di verificare se nel caso sottoposto al suo giudizio sia configurabile un'estorsione, ovvero un fatto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, in relazione al quale - ribadiamo - la legge non consente alcuna misura cautelare.
Questa, in particolare, la questione di diritto esaminata dalla S.C.: "se e in che limiti la gravità della minaccia o della violenza, posta in essere da chi faccia valere una legittima pretesa deducibile davanti al giudice, costituisca elemento del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni".
3. È d'immediata evidenza la rilevanza del problema: non è in gioco la mera applicabilità delle misure cautelari, ma anche e soprattutto l'enorme divario delle conseguenze sanzionatorie per i due reati: mentre l'estorsione è punita con la reclusione da cinque a dieci anni (da sei a venti nell'ipotesi aggravata ex art. 629, co. 2 c.p.), oltre alla congiunta pena pecuniaria, l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone - a confronto un reato bagatellare - è punito con la reclusione fino a un anno.
Il problema si pone in quanto, come osserva la Cassazione, "potendo le azioni materiali previste dalle suddette norme coincidere" è necessario "identificare la linea di confine fra i due reati".
4. La Cassazione richiama in proposito l'elaborazione giurisprudenziale in materia, ricordando come per decenni sia la dottrina sia la giurisprudenza, conformemente a un primo orientamento, hanno sempre ritenuto che le due figure di reato si distinguessero non per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l'elemento intenzionale: nell'estorsione l'agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nella ragion fattasi invece, l'agente è animato dal fine di esercitare un preteso diritto nella ragionevole convinzione, anche errata, dalla sua sussistenza, pur se contestata o contestabile.
In motivazione si sottolinea, tuttavia, l'emersione di un secondo e più recente orientamento: "nell'ultimo decennio, pur non smentendosi la suddetta affermazione, si è incominciato ad affermare il principio secondo il quale nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la minaccia e la violenza non sono fini a se stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell'agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongono come elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza"[2]. In seno a tale orientamento, si è successivamente precisato che "quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell'altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell'ingiustizia. In determinate circostanze e situazioni, pertanto, anche la minaccia dell'esercizio di un diritto, in sé non ingiusta, può diventare tale, se le modalità denotano soltanto una prava volontà ricattatoria, che fanno sfociare l'azione in mera condotta estorsiva"[3]. Secondo questo indirizzo, dunque, la minaccia e la violenza, nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sono finalizzate a far valere il preteso diritto e di conseguenza non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate o gratuite di violenza per le quali si ricadrebbe in una condotta estorsiva[4].
Questo secondo orientamento giurisprudenziale non ha mancato tuttavia di essere sottoposto a critiche. In dottrina si è infatti sottolineato come una presa di posizione di questo tipo, che introduce un criterio di differenziazione basato sull'intensità della violenza, si pone innanzitutto in contrasto con il principio di legalità perché si fa infatti leva su un elemento - l'intensità della violenza o della minaccia - estraneo alla previsione legale[5]. Nello stesso senso si è sottolineato anche che oltre a non essere fondato su alcun dato testuale, l'orientamento giurisprudenziale in parola finisce d'altra parte per rimettere alla discrezionale valutazione dell'organo giudicante la valutazione sui confini tra le due fattispecie, gravida di conseguenze dal punto di vista sanzionatorio[6].
5. In questo contesto giurisprudenziale si inserisce la sentenza in commento, che si discosta dal più recente orientamento affermatosi in giurisprudenza, ritornando al primo e più risalente indirizzo e recependo così le critiche formulate in dottrina[7]. Nella sentenza annotata si legge infatti che "l'intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia non è un elemento del fatto idoneo ad influire sulla qualificazione giuridica del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il quale si distingue dal reato di estorsione per l'elemento intenzionale". Si ribadisce infatti che "nell'estorsione, l'agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nell'esercizio arbitrario, invece, l'agente è animato dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile". Pertanto, "ove la violenza e/o la minaccia, anche se particolarmente intense o gravi, siano effettuate al solo fine di esercitare un preteso diritto, pur potendo l'agente ricorrere al giudice, non è mai configurabile il diverso delitto di estorsione che ha presupposti giuridici completamente diversi".
A questa conclusione la Cassazione giunge attraverso un'articolata motivazione, che fa leva su tre diversi argomenti.
a) Una prima argomentazione chiama in causa la ratio della disposizione. A detta dei giudici di legittimità la ratio della norma risiede nel divieto di farsi giustizia da sé: il legislatore ha inteso sanzionare il farsi giustizia da sé con violenza o minaccia e non tanto la modalità con la quale l'agente persegue il suo scopo; si spiega così il motivo per cui la pena prevista per il reato in esame è relativamente modesta rispetto a quella stabilita per il reato di estorsione. La Cassazione afferma infatti che "per il legislatore, invero, ciò che rileva è il diverso disvalore che sta alla base del comportamento dell'agente, perché una cosa è che la violenza o minaccia - qualunque sia la forma e la intensità - venga esercitata per un preteso diritto, altra e ben diversa cosa è che quella stessa violenza o minaccia sia esercitata per procurarsi un ingiusto profitto". A questa stregua dunque non vi è ragione per pensare che l'esiguità della pena prevista per il reato di ragion fattasi si giustifichi per la minor intensità della violenza o della minaccia.
b) In secondo luogo la Cassazione fa riferimento ad un persuasivo argomento di carattere testuale: richiama infatti il terzo comma dell'art. 393 c.p., che prevede una circostanza aggravante se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi. Corretta ci sembra a questo proposito l'affermazione della S.C., secondo cui "nonostante sia del tutto evidente che la minaccia o la violenza commessa con armi costituisca, sicuramente, una delle più gravi ed invasive forme di coartazione della volontà altrui, il legislatore ha previsto, in continuità con la tradizione storica, solo un aggravamento di pena e non il diverso reato di estorsione"[8].
c) Da ultimo, la S.C. fa leva su un argomento di carattere sistematico. L'art. 581 co. 2 c.p. stabilisce che la norma incriminatrice delle percosse non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato. Orbene, secondo la sentenza annotata "la semplice percossa non è punibile restando assorbita nella violenza e quando la violenza trasmoda in altri reati (lesioni, omicidio, sequestro di persona ecc..) l'agente risponderà, in concorso con il reato di cui all'art. 393 c.p., degli altri ed eventuali reati commessi contro la persona della parte offesa". E "poiché negli artt. 392-393 c.p. i sostantivi "violenza e minaccia" sono adoperati sic et simpliciter senza alcuna altra aggettivazione, non è consentito all'interprete, in ossequio al principio cardine di legalità, procedere ad un'interpretazione in malam partem della suddetta normativa e cioè ritenere che ogniqualvolta l'agente abbia posto in essere minacce o violenze particolarmente gravi, il suddetto comportamento trasmodi nel reato di estorsione".
D'altra parte - ci sia consentita l'osservazione - non è presente nell'art. 393 c.p. una formula analoga a quella presente nell'art. 581, co. 2 c.p. che manifesti la volontà del legislatore - in presenza di una violenza o di una minaccia che sia elemento costitutivo di altri reati - di far rimanere assorbito il reato di ragion fattasi.
Infatti quando il legislatore ha voluto dare rilevanza al grado di violenza, lo ha specificatamente indicato, per esempio nel reato di violenza privata (art. 610 c.p.) dove la pena è aumentata, se ricorrono le condizioni di cui all'art. 339 c.p., o nel reato di minaccia (art. 612, comma 2 c.p.) dove, analogamente, se la minaccia è grave o è fatta in uno dei modi indicati nell'art. 339 c.p., si inasprisce la cornice edittale.
6. Conclusivamente, secondo la S.C., l'intensità della violenza non è decisiva, ma può tutt'al più rappresentare un utile "indizio"[9] dal quale inferire che l'agente, con il proprio comportamento minatorio o violento, intende perseguire un fine ulteriore e diverso rispetto al semplice conseguimento della pretesa legittima[10].
Come acutamente fatto notare in dottrina[11], mentre nell'orientamento giurisprudenziale abbandonato dalla sentenza annotata la gravità della violenza o della minaccia rilevava alla stregua di una "massima d'esperienza qualificatoria" secondo la quale "chi esercita arbitrariamente il proprio diritto non può che farlo con modalità soft, tanto che si deve qualificare automaticamente come estorsione la condotta di chi persegue un proprio diritto con manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza", l'attuale filone interpretativo, riaperto dalla sentenza annotata, valorizza il dato fattuale della modalità della condotta posta in essere dall'agente esclusivamente in chiave probatoria, quale elemento utile al fine dell'accertamento del dolo.
Secondo la sentenza annotata dunque il criterio discretivo tra le due figure di reato è rappresentato dall'elemento intenzionale, da ricostruire, alla luce delle circostanze del caso concreto, valorizzando le modalità con le quali la minaccia o violenza è stata posta in essere. Se risulta che la finalità perseguita dall'agente è quella di esercitare un preteso diritto (e questo sia giustiziabile dinnanzi all'autorità giudiziaria) - anche indipendentemente dall'intensità della violenza o della minaccia posta in essere - sarà sempre configurabile il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non quello, più grave, di estorsione.
[1] Per un quadro del problema oggetto della sentenza annotata si veda C. Baccaredda-Boy-S. Lalomia , I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in (diretto da) G. Marinucci-E. Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2010, p. 633 ss.
[2] Così si richiama testualmente Corte cass., sez. I, 2 dicembre 2003, n. 10336.
[3] Ex multis: Corte cass., sez. V, 6 marzo 2013, n. 19230; Corte cass., sez. VI, 1 febbraio 2012, n. 6556; Corte cass., sez. VI, 28 ottobre 2010, n. 41365, Straface; Corte cass., sez. II, 27 giugno 2007, n. 35610, Della Rocca; Corte cass., sez. II, 27 giugno 2007, n. 35613, Guarino; Corte cass., sez. II, 15 febbraio 2007, n. 14440, Mezzanzanica. Si veda anche Corte cass., sez. VI, 21 giugno 2010, n. 32721, la quale ha modo di specificare che "non è certo la semplice intenzione di far valere un proprio diritto a far trasmigrare il fatto dalla figura dell'estorsione a quella dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Poiché elemento essenziale di entrambi i reati è dato dalla violenza o dalla minaccia, il problema, nel caso di soggetto che vanti un proprio diritto che sia possibile far valere davanti all'autorità giudiziaria, è quello di verificare, ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione il grado di gravità della condotta violenta o minacciosa. Si rimane indubbiamente nell'ambito dell'estorsione ove venga esercitata una violenza gratuita e sproporzionata rispetto al fine ovvero se si eserciti una minaccia che non lasci possibilità di scelta alla vittima".
[4] Nella sentenza in esame la Cassazione precisa tuttavia come, leggendo le motivazioni delle suddette sentenze si evince che, in tutti i casi in cui si è affermato il principio di diritto in esame, il soggetto agente non poteva comunque far valere il preteso diritto davanti all'autorità giudiziaria, perché mancava l'elemento costitutivo dell'azionabilità dello stesso. A questa stregua dunque - si legge - "il principio di diritto di cui si discute è sempre stato adoperato come rafforzativo e, quindi, non come unica ed esclusiva ratio decidendi, dell'infondatezza del ricorso proposto dall'imputato. Ciononostante è indubbio che il principio di diritto è stato affermato e con esso occorre misurarsi".
[5] Si esprime in questi termini A. Laurino, Estorsione, ragion fattasi ed intensità della violenza nella giurisprudenza della Suprema Corte, in Cassazione penale, 2012, p. 3174 ss.
[6] Così A. Verri, Nota a Cass. pen., sez. VI, 28-10-2010, n. 41365 (dep. 23 novembre 2010), in questa Rivista, 11 marzo 2011.
[7] Si vedano le note n. 5 e 6.
[8] Come argomento ad adiuvandum la Corte cita la propria giurisprudenza in tema di sequestro di persona; secondo un consolidato principio di diritto infatti "il reato di sequestro di persona può concorrere con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando l'agente sia mosso dal fine di esercitare un preteso diritto e commette il primo per eseguire il secondo". Anche in questo caso, nonostante sia esercitata una gravissima forma di violenza, la giurisprudenza di questa Corte non ha mai avuti dubbi nel ritenere che l'agente debba essere ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 393 e 605 c.p. e non già del più grave reato di sequestro di persona a scopo di estorsione. (si veda a questo proposito Corte cass., sez. V, 3 febbraio 2009, n. 9731; Corte cass., sez. V, 20 settembre 2001, n. 38438).
[9] La sentenza annotata afferma che "la sproporzione della violenza e/o minaccia costituisce, spesso, un grave indizio della volontà ricattatoria dell'agente e cioè del fatto che costui, in realtà, intende perseguire un fine ulteriore e diverso da quello del semplice soddisfacimento di una legittima pretesa". Si veda a questo proposito a pag. 13 della motivazione.
[10] La Corte critica anche il precedente orientamento nella parte in cui non spiega "per quali ragioni manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza possano far diventare l'azione di natura estorsiva e, quindi, immutare la natura stessa del reato e cioè per quali ragioni il dolo specifico di cui all'art. 393 cod. pen. si tramuti nel dolo generico di cui all'art. 629 cod. pen.". La motivazione si dilunga nel confutare le tesi, proprie dell'orientamento precedente, secondo cui: a) la condotta diventa estorsiva quando è tale da non lasciare alla vittima alcuna possibilità di scelta; b) la condotta diventa estorsiva quando denota una prava volontà ricattatoria.
[11] Si veda ancora A. Laurino, Estorsione, ragion fattasi, cit., p. 3178, il quale richiama quanto già fatto notare da A. Mecca, L'estorsione, Padova, 2007, p. 218.