1. La sentenza annotata, in tema di distinzione tra delitto di estorsione (art. 629 c.p.) e delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), si segnala per un’ulteriore declinazione di un consolidato orientamento giurisprudenziale, per cui si configura il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia qualora la minacia sia tanto grave da esorbitare dal livello ragionevolmente compatibile con l’esercizio, seppur arbitrario, delle proprie ragioni, presentandosi come del tutto sproporzionata rispetto alla finalità di conseguire quanto dovuto dal debitore.
2. La fattispecie affrontata dalla Suprema Corte è la seguente: con sentenza in data 23 febbraio 2001 il Tribunale di Rossano dichiarava S.F., M.G. e S.F. colpevoli, in concorso tra loro, di tentata estorsione aggravata, per avere, in particolare S.F., reiteratamente minacciato di morte D.C. al fine di indurlo a restituire una somma di L. 10.000.000 ad una parente (C.), e condannava il primo alla pena di anni tre e mesi otto di reclusione, e il secondo e il terzo a quella di anni uno e mesi otto di reclusione ciascuno.
Contro la sentenza di primo grado, gli imputati presentavano appello davanti alla Corte di Appello di Catanzaro, la quale, con sentenza pronunciata in data 20 gennaio 2004, riqualificava il fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi dell’art. 393 c.p., riducendo la pena loro inflitta.
Tale decisione veniva annullata dalla Corte di Cassazione, la quale, in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale, rinviava ad altra sezione della Corte di Appello al fine di valutare le concrete modalità delle minacce e la gravità delle stesse, per stabilire se esse, da sole o in concorso con altri aspetti della vicenda, bastassero a qualificare il fatto come estorsione.
Il giudice del rinvio, con sentenza in data 12 marzo 2008, qualificava i fatti in termini di tentata estorsione, confermando la decisione di primo grado.
3. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il solo S.F., dolendosi tra l’altro della mancata derubricazione del fatto nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Sostiene, in particolare, il ricorrente di non avere mai posto in essere alcuna attività violenta o intimidatoria, ma di essersi limitato a fungere da intermediario per far recuperare alla parente (C.) il credito vantato; e che, pertanto, nella fattispecie ricorre la fattispecie criminosa di cui all'art. 393 c.p. Inoltre, aggiunge il ricorrente, il versamento del denaro non è stato effettuato a lui, ma al pretendente titolare del diritto, e non vi è alcuna prova, nemmeno a livello indiziario, che l'imputato vantasse una percentuale sul credito richiesto, un interesse diretto nella vicenda o un futuro vantaggio da richiedere alla persona agevolata. I giudici di merito avrebbero, dunque, a giudizio del ricorrente, qualificato erroneamente l'elemento soggettivo, che non è quello del reato di estorsione, ma quello dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
La S.C. ritiene infondate tali censure. Osserva la Suprema Corte che la Seconda sezione, nell’annullare, con sentenza in data 19 aprile 2007, la pronuncia di appello che aveva riqualificato il fatto contestato al ricorrente ex art. 393 c.p., non aveva fatto altro che ribadire il principio, pacifico in giurisprudenza, secondo cui: «il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona non tanto per la materialità del fatto, che può essere identica, quanto per l'elemento intenzionale nell'estorsione caratterizzato, diversamente dall'altro reato, dalla coscienza dell'agente che quanto egli pretende non gli è dovuto; peraltro, quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio (preteso) diritto, allora la coartazione dell'altrui volontà assume ex se i caratteri dell'ingiustizia, con la conseguenza che, in situazioni del genere, anche la minaccia tesa a far valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva» (Cass. Sez. 2, 1-10-2004 n. 47972; Sez. 2, 27-6-2007 n. 35610).
Condivisibili sono, ad avviso della S.C., le conclusioni a cui è giunto il giudice del rinvio per cui la condotta tenuta dal ricorrente «esorbita dal livello ragionevolmente consentito per il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e trasborda nei confini dell'estorsione», tenuto conto del tenore e delle modalità delle ripetute e gravi minacce («che la Corte territoriale ha ragionevolmente definito di carattere “mafioso”»).
Né vale ad escludere la configurabilità del reato di tentata estorsione il fatto che l’imputato abbia agito per il conseguimento di un credito non proprio ma di terzi.
La Cassazione ricorda, in proposito, il consolidato principio secondo cui «si configura il reato di estorsione di cui all'art. 629 c.p., e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all'art. 393 c.p., allorché il terzo incaricato della esazione del credito - a nulla rilevando la natura, lecita o illecita, di esso -, agisca con violenza o minaccia nei confronti del debitore non al mero fine di coadiuvare il creditore a farsi ragione da sè medesimo, ma anche e soprattutto per il perseguimento dei propri autonomi interessi illeciti» (Cass. Sez. 16-2- 2006 n. 12982).
Nel caso di specie, invero, non è possibile escludere che l'intervento del ricorrente sia stato attuato senza un diretto interesse nella vicenda (ad es. a titolo di percentuale sul profitto realizzato, o anche solo in vista di futuri vantaggi da richiedere alla persona agevolata). Tuttavia, anche a prescindere dall’esistenza di un interesse diretto alla riscossione del credito, la natura palesemente sproporzionata delle minacce rispetto al limite ragionevolmente consentito perché possa restarsi nell'alveo del delitto di esercizio arbitrario, rende comunque configurabile in sua vece il più grave delitto di estorsione.
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4. La pronuncia in esame si pone sulla scia di un consolidato e costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, considerata l’identica condotta materiale, i due reati si differenziano per l’elemento soggettivo in quanto, mentre l'esercizio illecito di proprie ragioni presuppone che l'agente versi nella ragionevole convinzione della legittimità della propria pretesa, la quale potrebbe ottenere un riconoscimento ad opera del giudice, l'estorsione si qualifica per la volontà protesa a conseguire un profitto conosciuto come ingiusto, rispetto al quale non sussiste diritto alcuno.
Anche il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni può essere caratterizzato da violenza o minaccia alle persone, ma in questo caso la condotta violenta o minacciosa deve essere secondo la giurisprudenza proporzionata e strettamente connessa con la pretesa di un diritto rispetto al cui conseguimento si colloca come elemento accidentale; agendo diversamente si avrebbe, infatti, un utilizzo gratuito ed, appunto, sproporzionato della forza intimidatoria, tale da imporre un annullamento o una limitazione della capacità di autodeterminazione della volontà del soggetto passivo e tale che la coartazione non può che integrare i caratteri dell’ingiustizia e l’ipotesi concreta quelli dell’art. 629 c.p.
Tale orientamento giurisprudenzale, che costituisce ormai diritto vivente nel nostro ordinamento, risulta peraltro sfornito di qualsiasi base testuale, tanto da configurarsi verosimilmente contra legem.
La distinzione tra le due fattispecie di reato corre, come la stessa Cassazione sottolinea, non già sul crinale della materialità del fatto, che può essere identica, ma su quello dell’intenzione dell’agente, che nell’esercizio arbitrario deve essere quella di esercitare un proprio (preteso) diritto, potenzialmente azionabile in giudizio – con mezzi, ovviamente, non consentiti dall’ordinamento, e segnatamente con violenza alla persona o con minaccia. E’ proprio (e soltanto) questa peculiare finalità che rende meno grave ques’ultimo delitto rispetto all’estorsione, che si caratterizza invece per una condotta volta a conseguire un profitto ingiusto.
La lettera della norma di cui all’art. 393 c.p., per contro, non richiede in alcun modo che la violenza o la minaccia usate al fine di esercitare (illegittimamente!) il proprio diritto si mantengano entro un limite di una “ragionevole proporzione” rispetto a tale scopo: l’ordinamento reagisce per l’appunto all’uso di mezzi illeciti alternativi rispetto a quelli posti a disposizione dall’ordinamento (l’azione giudiziale in primis), prevedendo però un quadro sanzionatorio meno grave rispetto a quello (oggi gravissimo, stante la pena minima di cinque anni di reclusione) apprestato per il delitto di estorsione.
Parlare, come fa la Cassazione, di incompatibilità con lo schema dell’esercizio arbitrario di una condotta di gravità esorbitante «dal livello ragionevolmente consentito»per tale delitto, e per questa ragione trasmodante nel delitto di estorsione, svela l’equivoco in cui la stessa S.C. cade: non può esservi nel nostro ordinamento nessuna minaccia o violenza «ragionevolmente consentita» finalizzata all’esercizio di un proprio diritto, salvi i casi di legittima difesa; ma qualsiasi minaccia o violenza alla persona attuata a tale scopo è considerata dal codice penale penalmente illecita ai sensi del paradigma delittuoso dell’art. 393, e non quello dell’art. 629 c.p.
Oltre a non essere fondato su alcun dato testuale che possa legittimare un esito così scopertamente contra reum, l’orientamento giurisprudenziale in parola finisce d’altra parte per rimettere alla discrezionale valutazione dell’organo giudicante la valutazione sui confini tra le due fattispecie, così gravida di conseguenze dal punto di vista sanzionatorio. Il criterio distintivo fra le due fattispecie criminose diviene così mutevole a seconda del giudice che dovrà dedurre la finalità estorsiva della condotta posta in essere dall’agente dalle stesse modalità costrittive della stessa, valutando così se queste possano dirsi sproporzionate rispetto al fine.
Un esito, dunque, anche sotto questo profilo discutibile, e sul quale varrebbe la pena di riflettere, anche a costo di rimettere in discussione orientamenti giurisprudenziali graniticamente consolidati.