21 luglio 2014 |
La sentenza della Corte di Appello di Milano nel procedimento Dolce e Gabbana: confermate le condanne per omessa dichiarazione
Corte di Appello di Milano, 30 aprile 2014 (dep. 20 giugno 2014), Pres. Cairati, Rel. Minici
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, si è concluso il giudizio di appello relativo al procedimento per reati tributari, che coinvolge gli stilisti Dolce e Gabbana, oltre ad altri esponenti delle società collegate allo stesso gruppo, con la conferma delle condanne inflitte in primo grado, salva la rideterminazione delle pene in conseguenza dell'estinzione per prescrizione di una parte dei reati contestati.
La sentenza costituisce per il momento l'ultimo tassello di una vicenda giudiziaria ampiamente conosciuta, non solo perché coinvolge persone celebri, a capo di un gruppo industriale rilevante, ma anche per l'ampio dibattito mediatico che ne è derivato sulla legittimità e sul limite dell'intervento repressivo nella materia fiscale. La "vicenda Dolce e Gabbana" è diventata così il primo segnale sul versante penalistico della questione più generale che, presumibilmente, si riproporrà, e di frequente, nel prossimo futuro, relativa agli strumenti utilizzabili per contrastare l'evasione fiscale e, soprattutto, il fenomeno del cd. aggressive tax planning che sfrutta le differenze nell'imposizione tra i diversi Stati (si v., per cominciare, il Piano d'azione per rafforzare la lotta alla frode fiscale e all'evasione fiscale, presentato dalla Commissione Europea nel 2012, COM(2012) 722).
2. Conviene riassumere brevemente le tappe che hanno preceduto il giudizio di appello e che hanno reso il procedimento Dolce e Gabbana uno degli snodi più significativi del diritto penale tributario degli ultimi anni, in particolare per ciò che riguarda la questione della possibile rilevanza penale dell'elusione fiscale.
In sintesi, i due stilisti, in concorso con altre persone, avevano costituito nel 2004 una società di diritto lussemburghese, la GADO s.a.r.l., alla quale avevano ceduto i marchi, vera fonte della ricchezza del gruppo (ad un prezzo sottostimato, nell'ipotesi accusatoria). A fronte della cessione, la società lussemburghese aveva concesso i diritti di sfruttamento dei marchi ad una società italiana controllata dagli stessi imputati, dietro pagamento di royalties. In questo modo, il flusso dei redditi generati sotto forma di royalties era dichiarato in Lussemburgo ed assoggettato ad un'imposizione decisamente più favorevole di quella italiana. Nell'ipotesi accusatoria, tuttavia, la GADO era solo fittiziamente allocata in Lussemburgo, permanendo invece in Italia tutta l'attività creativa e di gestione dei marchi e, in definitiva, tutta l'attività generatrice del reddito.
3. In data 1° aprile 2011, il Gup di Milano pronunciava una sentenza di non luogo a procedere nei confronti di tutti gli imputati per le originarie contestazioni di "truffa aggravata ai danni dello Stato" (art. 640 co. 2 c.p.) e di "dichiarazione infedele" (art. 4 d.lgs. 74/2000). Il GUP, con un'articolata motivazione, aveva riconosciuto come effettivo il trasferimento dei marchi alla GADO ed aveva ritenuto che la contestazione mossa agli imputati, riconducibile ad uno schema elusivo, fosse radicalmente incompatibile con i principi di tassatività e determinatezza che governano la responsabilità penale.
4. Sul ricorso presentato dalla Procura della Repubblica di Milano, il 22 novembre 2011 si era pronunciata la Cassazione, con una sentenza ampiamente ripresa dalla dottrina e dalla giurisprudenza successive (in questa Rivista, 22 giugno 2012, con nota di M. Vizzardi). Quanto al reato di truffa, la Corte, ribadendo il principio espresso dalle Sezioni Unite nel 2011 (Cass., Sez. Un. 28.10.2010, Giordano, in questa Rivista, con nota di P. Caccialanza), aveva escluso la possibilità di un concorso con i reati tributari ed aveva quindi estromesso definitivamente questa imputazione.
Quanto invece ai reati fiscali contestati, la Cassazione aveva annullato la sentenza di non luogo a procedere, rimettendo gli atti al Tribunale di Milano affinché decidesse sulla base del principio di diritto secondo il quale "non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge". Nel campo penale, infatti, non sarebbe ravvisabile "l'esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle (...) Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione", potendo quindi affermarsi la rilevanza penale solo "di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva". Inoltre, in ipotesi come quella oggetto del processo, anche la esterovestizione può assumere rilevanza penale, ai sensi degli artt. 4 (Dichiarazione infedele) e 5 (Omessa dichiarazione) d.lgs 74/2000, "di cui è chiamato a rispondere colui che rivestiva all'interno della società esterovestita le qualifiche funzionali che in sede tributaria lo obbligavano alla presentazione della dichiarazione stessa o della dichiarazione fedele, con la partecipazione a titolo di concorso nel reato di eventuali altri soggetti".
La Corte chiedeva dunque al giudice di merito di valutare, per un verso, se la società lussemburghese fosse da considerare residente in Italia a fini fiscali e vi fosse stata quindi l'omissione dolosa della presentazione della dichiarazione in Italia; per altro verso, se le operazioni riguardanti la cessione dei marchi potessero essere ricondotte ad una ipotesi prevista in modo specifico da una espressa disposizione antielusiva (prima fra tutte, quella di cui all'art. 37-bis d.P.R. 600/1973) e se potessero perciò avere rilevanza penale, secondo il principio enunciato.
5. Nel giudizio di rinvio, il Tribunale di Milano con sentenza del 19 giugno 2013 (in questa Rivista, 3 aprile 2014, con nota di M. Vizzardi) ha affermato la responsabilità penale degli imputati per il reato di omessa dichiarazione (art. 5 d.lgs. 74/2000) in relazione alla mancata presentazione in Italia della dichiarazione della società GADO esterovestita.
Assolve invece gli imputati dall'accusa di avere sottratto base imponibile attraverso la sottovalutazione delle plusvalenze derivate dalla cessione dei marchi alla società lussemburghese, così realizzando il reato di dichiarazione infedele. Richiamandosi al principio enunciato dalla Cassazione, il giudice del rinvio ha ritenuto che l'operazione in questione, pur evidenziando palesi anomalie, non potesse essere ricondotta al reato di cui all'art. 4 d.lgs. 74/2000 in quanto non si poteva considerare violata alcuna specifica norma antielusiva presente nell'ordinamento, non essendo applicabile in sede penale il generale principio del divieto di abuso del diritto.
6. La decisione è stata infine confermata dalla Corte di Appello di Milano, con la pronuncia qui allegata sia per quanto riguarda la responsabilità per il reato di omessa dichiarazione, sia per il trattamento sanzionatorio. Le pene inflitte sono state tuttavia rideterminate in conseguenza dell'intervenuta prescrizione dei reati relativi al 2004.
Espunta l'imputazione di dichiarazione infedele, e quindi usciti dal giudizio anche gli aspetti più problematici riguardanti la rilevanza penale di operazioni qualificate come elusive o abusive in sede tributaria, la Corte, condividendo l'impostazione del Tribunale, si concentra sulla verifica della esterovestizione di GADO, in forza dell'applicazione dei criteri sostanzialistici per la fissazione della residenza delle società, ricavabili sia dal Modello elaborato dall'OCSE sia, e soprattutto, dall'art. 73 TUIR che, nello stabilire i presupposti per l'obbligo di presentare in Italia la dichiarazione, contiene una norma integratrice del precetto penale.
Dopo avere ripercorso gli elementi fattuali emersi dal dibattimento, e aderendo all'impostazione già offerta dal Tribunale, la Corte ritiene provato che la GADO fosse solo fittiziamente allocata in Lussemburgo e che l'omessa presentazione in Italia della dichiarazione fosse dolosamente preordinata a conseguire un abbattimento significativo dell'imposizione.