22 giugno 2012 |
La Cassazione sul caso Dolce e Gabbana: elusione fiscale e truffa aggravata a danni dello Stato
Cass. pen., II sez., 22 novembre 2011 (dep. 28 febbraio 2012), Pres. Pagano, Est. Fiandanese, Imp. Gabbana e a.
In data 1 aprile 2011 il Giudice dell'Udienza preliminare presso il Tribunale di Milano pronunciava sentenza di non luogo a procedere, ai sensi dell'art. 425 c.p.p., nei confronti dei noti stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, imputati dei delitti di "dichiarazione infedele" di cui all'art. 4 d.lgs. 74/2000 e di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 co. 2 c.p.) in concorso, per quanto riguarda quest'ultima fattispecie, con i sig.ri Alfonso Dolce, Cristina Ruella, Giuseppe Minoni, Luciano Patelli e Noella Antoine.
Senza avere la pretesa di ripercorrere in questa sede i fatti in contestazione, sui cui dettagli si rinvia alla pronuncia del Gup già pubblicata in questa Rivista, pare sufficiente ricordare che oggetto delle contestazioni penali è la costituzione in Lussemburgo di una società denominata GADO S.a.r.l., alla quale era stata ceduta per un importo pari a 360.000.000 Euro la proprietà dei marchi della griffe precedentemente posseduti da Domenico Dolce e Stefano Gabbana: operazione realizzata dagli imputati nel 2004 che è stata considerata dagli inquirenti meramente simulata e finalizzata al solo ottenimento di indebiti vantaggi fiscali.
Avverso la sentenza del Gup di Milano, che, in estrema sintesi, aveva viceversa ritenuto reale ed effettivo il trasferimento della proprietà dei marchi alla società estera GADO, e di conseguenza aveva ritenuto non sussistenti gli elementi oggettivi di tutte le fattispecie in contestazione, presentavano ricorso per Cassazione sia il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, sia l'Agenzia delle Entrate, in qualità di parte civile.
Più in particolare, il Procuratore della Repubblica deduceva la manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui, pur in presenza di un "ventaglio di prospettive suscettibili di approfondimento in dibattimento" - sia in ordine alla congruità del prezzo di acquisto dei marchi, sia in ordine alla corretta qualificazione giuridica dei fatti - il Gup aveva ritenuto superflua la celebrazione di un dibattimento.
D'altro canto, l'Agenzia delle Entrate rilevava, oltre alla manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, la violazione di legge nella parte in cui il Gup, una volta ritenuti non sussistenti gli "artifici" tipici del delitto di truffa ai danni dello Stato, non aveva ritenuto di riqualificare i fatti nella diversa fattispecie - non contestata dalla Pubblica Accusa - di cui all'art. 5 d.lgs. 74/2000 ("omessa dichiarazione"), sulla base del presupposto che soltanto quei reati che hanno fra gli elementi costitutivi condotte artificiose - e dunque non l'art. 5 citato - sarebbero in rapporto di specialità rispetto al delitto di truffa ai danni dello Stato.
La Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia qui segnalata, ha annullato la sentenza con rinvio al Tribunale di Milano, affermando, per quanto qui preme rilevare, i seguenti principi di diritto:
- l'Agenzia delle Entrate deve essere considerata il solo soggetto legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale in relazione ai danni cagionati dall'inadempimento di obbligazioni tributarie, ancorché il destinatario finale del gettito fiscale rimanga pur sempre lo Stato (in tal senso, la Cassazione respinge l'eccezione formulata dalla difesa degli imputati, che aveva sostenuto che la legittimazione ad impugnare la sentenza di non luogo a procedere spettasse soltanto al Ministero dell'Economia e delle Finanze, in quanto persona offesa del reato);
- contrariamente a quanto sostenuto dall'Agenzia delle Entrate, tutti i reati tributari descritti dal d.lgs. 74/2000 sono da ritenersi in rapporto di specialità rispetto al delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, qualora la condotta incriminata abbia come mera finalità l'evasione o l'elusione della obbligazione tributaria. Il delitto di truffa aggravata potrà eventualmente concorrere con i reati fiscali del decreto sopra citato soltanto qualora "dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all'evasione fiscale";
- anche la c.d. elusione fiscale - nella specie della "esterovestizione" di una società - può in astratto assumere penale rilevanza ai sensi degli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, a condizione però che in concreto le condotte poste in essere dagli imputati "siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile", tenuto conto del fatto che il legislatore, "in occasione della riforma introdotta con il d.lgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il 'modello del c.d. reato prodromico', caratteristico della precedente disciplina (...) - modello che attestava la linea di intervento repressivo sulla fase meramente 'preparatoria' dell'evasione d'imposta - a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell'offesa degli interessi dell'erario". A tal fine, competerà dunque "al giudice penale valutare se la società sia da considerarsi, ai soli fini fiscali, residente in Italia oppure all'estero, senza essere vincolato alle ricostruzioni compiute in sede tributaria dall'Amministrazione finanziaria, nel quadro della regola generale della non automatica trasferibilità in sede penale delle presunzioni tributarie, compresa quella concernente la residenza delle persone fisiche e giuridiche (...)";
- sul piano soggettivo, con riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, dovrà essere inoltre "positivamente riscontrato dal giudice" il dolo specifico del "fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto", ad esempio valutando se nel caso di specie "l'Amministrazione finanziaria abbia dato luogo con atti (ad esempio circolari) o comportamenti (ad esempio casi analoghi in cui non è stata contestata la esterovestizione) a condizioni reali di incertezza nell'applicazione della norma".