ISSN 2039-1676


01 ottobre 2015 |

Irrilevanza penale dell'abuso del diritto tributario: entra in vigore l'art. 10-bis dello Statuto del contribuente

 

1. Con l'art. 1 del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128, pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 190 del 18 agosto 2015, entra in vigore l'attesissimo intervento legislativo sulla vexata quaestio della rilevanza penale dell'abuso del diritto tributario.

Il decreto - che si occupa anche di raddoppio dei termini di accertamento e del cd. adempimento collaborativo - porta con l'art. 1 l'attuazione dell'art. 5, legge delega 11 marzo 2014, n. 23, che si proponeva di unificare le nozioni di abuso del diritto ed elusione fiscale nel perseguimento del generale obbiettivo di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita.

In particolare, il decreto 128/2015 introduce un nuovo articolo 10 bis nello Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212). Tale disposizione, per quanto strettamente di interesse per il penalista, compie almeno due operazioni di radicale ristrutturazione della normativa (operazioni i cui effetti decorrono da oggi 1 ottobre 2015, ai sensi del co. 5 dell'art. 1 dello stesso decreto 128/2015: sul punto, e sui relativi profili di diritto intertemporale, v. infra, punto n. 4): la prima è l'unificazione delle nozioni di abuso del diritto ed elusione fiscale, che vengono fuse in un'unica definizione (art. 10 bis, comma 1), con la coerente abrogazione dell'art. 37 bis d.p.r. n. 600/73 (art. 1, comma 2, D. lgs. n. 128/2015, che reindirizza tutti i previgenti rinvii in favore della disposizione abrogata al nuovo art. 10 bis); la seconda è la previsione espressa di irrilevanza penale delle condotte abusive, che potranno essere sanzionate solo amministrativamente (cfr. art. 10 bis, comma 13).

L'ambizione è dunque quella di archiviare, come definitivamente superata, la problematica macro-distinzione sulla quale la giurisprudenza si era finora assestata per dirimere la questione della rilevanza penale delle condotte elusive (vedi infra): da una parte, si affermava suscettibile di integrare il precetto penale la cd. elusione codificata, ovvero quella categoria di specifiche disposizioni, sparse nell'ordinamento tributario, che avessero una chiara ratio antielusiva, ma anche quelle, ed era questo il punto più problematico, che comparivano nell'elenco di cui al terzo comma dell'art. 37 bis d.p.r. n. 600/1973; dall'altra, incompatibile con il principio di determinatezza, stava invece il generale divieto antiabuso, di creazione pretoria.

Come noto, infatti, quest'ultimo era stato sviluppato in sede giurisprudenziale (prima europea, a partire dal 2006, poi interna, a partire dal 2008) proprio per sopperire alle carenze del citato art. 37 bis, il cui campo applicativo risultava doppiamente limitato: da una parte, data la sua collocazione sistematica, esso trovava applicazione con esclusivo riferimento alle imposte sul reddito; dall'altra, come ricordato, la sfera applicativa dell'art. 37 bis era limitata alle sole operazioni elencate nel terzo comma della medesima disposizione.

Il nuovo abuso del diritto, così come previsto dell'art. 10 bis, invece, si estende all'intera materia tributaria, con la sola esclusione dei tributi doganali (art. 4, D. lgs. n. 128/2015) e il suo campo applicativo non è limitato a un elenco di operazioni tassativamente previste, elenco cui era assegnata da una parte della giurisprudenza, come ricordato, la funzione di riconciliare la categoria tributaria dell'elusione con il principio di determinatezza, fondativo dell'impianto costituzional-penalistico.

Vediamo però nel dettaglio i singoli punti di innovazione della riforma.

 

2. Diversa è, rispetto a quella prevista dal comma 1 del previgente art. 37 bis, la definizione di abuso del diritto/elusione fiscale, che viene riformulata in un testo che risulta fortemente influenzato dalla raccomandazione della Commissione 2012/772/UE sulla pianificazione fiscale aggressiva.

Il nucleo della definizione è ora composto da tre punti fondamentali: due elementi costitutivi e una clausola negativa.

I primi sono l'assenza di "sostanza economica" e la realizzazione di "vantaggi fiscali indebiti" come effetto essenziale dell'operazione: due requisiti che, così come definiti dal successivo comma 2, lett. a) e b), art. 10 bis, devono essere compresenti per la contestazione dell'abuso rispetto a un'operazione che pure appaia formalmente rispettosa delle norme tributarie.

La clausola di esclusione è rappresentata dalla presenza di valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine amministrativo e gestionale, che rispondono a esigenze di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa e, per come è scritto il comma 3 - "non si considerano abusive, in ogni caso" - (comma 3), è evidente che tale esimente sia suscettibile di operare anche nel caso in cui i suddetti elementi costitutivi siano presenti.

Al di là delle pur rilevanti modifiche testuali al nucleo della definizione, giungendo a ciò che strettamente interessa il penalista, rivoluzionaria è certamente la disciplina dei rapporti fra la categoria dell'abuso del diritto tributario e la materia penale, per come essi erano stati finora intesi in sede giurisprudenziale.

Se prima della riforma, infatti, in assenza di una specifica previsione normativa sul punto, ci si chiedeva se il generale divieto di abuso del diritto potesse assumere rilevanza penale integrando il precetto, ora non solo si chiarisce espressamente che "le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi  penali  tributarie" (art. 10 bis, comma 13), ma si qualifica l'integrazione delle fattispecie penal-tributarie come condizione negativa per la configurabilità dell'abuso (comma 12, art. 10 bis).

Con riguardo al comma 13, incidentalmente, si deve rilevare la condivisibile scelta di fare riferimento alle "leggi penali tributarie" e non esclusivamente ai reati di cui al d.lgs. n. 74/2000, ciò che, almeno astrattamente, avrebbe invece potuto creare problemi di coordinamento per operazioni relative a tributi le cui violazioni trovassero la propria disciplina penale al di fuori del decreto n. 74/2000: si pensi all'IVA all'importazione, le cui sanzioni penali sono disciplinate - grazie al rinvio dell'art. 70 D.P.R. n. 633/1970 - dal testo unico delle leggi doganali.

Il comma 12 del nuovo art. 10 bis recita: "In  sede  di  accertamento  l'abuso  del  diritto  può  essere configurato  solo  se  i  vantaggi   fiscali   non   possono   essere disconosciuti contestando la violazione  di  specifiche  disposizioni tributarie"; e non pare un caso che, in una precedente versione, detto comma si chiudesse con uno specifico riferimento alle disposizioni di cui al decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.

I rapporti fra il campo di applicazione dell'abuso del diritto e l'intervento del presidio penalistico sono dunque improntati alla mutua esclusione: l'abuso del diritto non può essere contestato se l'operazione perseguita dal soggetto agente è suscettibile di ingenerare responsabilità penale; quest'ultima, d'altro canto, non può poggiare su di una contestazione di abuso del diritto, che però - è esplicito sul punto il comma dell'art. 10 bis - potrà comportare l'applicazione delle sanzioni amministrative (comma 13, art. 10 bis): un punto su cui una parte della dottrina aveva assunto una posizione opposta a quella sposata dal legislatore nel D.lgs. n. 128/2015.

Tale impostazione è inoltre confermata dal testo, non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, della imminente riforma dei reati tributari, nell'ambito della quale la definizione della nuova condotta di "operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente" (art. 1, lett. h, D. lgs. n. 74/2000), ricompresa nel riformulato delitto di "dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici" (art. 3 d.lgs n. 74/2000), sfrutta in negativo il concetto di abuso del diritto: esse sono infatti "operazioni, non integranti quelle disciplinate dall'art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti"; e la condotta di "mezzi fraudolenti" (art. 1, lett. i e art. 3, d. lgs n. 74/2000), sarebbe integrata in caso di artifici, attivi od omissivi, realizzati "in violazione di uno specifico obbligo giuridico" (si veda sul punto la scheda di Stefano Finocchiaro e il commento di Stefano Cavallini alla imminente riforma).

Al di là dell'abuso rimane "la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale" (comma 4, art. 10 bis) e la possibilità di presentare un interpello per valutare il carattere abusivo dell'operazione (commi da 5 a 11 dell'art. 10 bis).

 

3. La tenuta e utilità della riforma, è evidente, si gioca allora sulla definizione della categoria delle "specifiche disposizioni tributarie", la violazione delle quali, se è legittima un'interpretazione a contrario dei commi 12 e 13, ben può integrare il precetto penale.

È questa l'altra faccia della cd. elusione codificata: eliminato l'elenco del vecchio art. 37 bis, rimangono però vigenti quelle "norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario[...]", che il decreto n. 128/2015, all'art. 3, esplicitamente cita ai fini di regolarne l'interpello disapplicativo.

Di non poco conto, dunque, i profili problematici che restano sullo sfondo di una riforma che pure deve essere salutata con favore.

A una prima lettura, ne saltano all'occhio almeno due.

Il primo, come detto, è quello della definizione della categoria delle specifiche disposizioni anti-elusive che restano passibili di integrazione del precetto penale: un'operazione di cui la nota vicenda Dolce e Gabbana ha dimostrato tutta la problematicità.

Per fare un esempio, si potrebbe citare la disciplina dei prezzi di trasferimento, che parte della dottrina aveva già indicato come prototipo di elusione codificata compatibile con il precetto penale.

Il problma dovrà però essere letto alla luce della imminente riforma dei delitti tributari.

Il secondo profilo problematico attiene all'opzione per la sanzionabilità in sede amministrativa delle condotte abusive, in un contesto in cui le etichette, ci si riferisce evidentemente al problema del ne bis in idem, sono sempre meno vincolanti.

 

4. Per quanto riguarda, infine, l'entrata in vigore del provvedimento, si deve segnalare che il decreto n. 128/2015 (art. 1 co. 5) prevede per l'efficacia dell'art. 10 bis tempistiche particolari: essa entrerà in vigore "il  primo  giorno  del  mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto", dunque a partire da ottobre, con effetto retroattivo sulle operazioni poste in  essere  in  data  anteriore per le quali, alla stessa  data,  non  sia  stato notificato il relativo atto impositivo.

Per quanto riguarda, però, quello che interessa al penalista, considerata anche la sottolineata convergenza della imminente riforma dei reati tributari in tal senso, pare difficile negare la qualificazione del comma 13, art. 10 bis come clausola di esclusione della tipicità, così che, stante la sua idoneità a esplicare effetti al di là del giudicato ex art. 2, comma 2, c.p., sarà da subito possibile far presente che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.