ISSN 2039-1676


08 febbraio 2011 |

Sul diritto dell'incapace di esprimere la propria sessualità  e la violenza sessuale per "induzione" mediante "abuso delle condizioni di inferiorità  psichica"

Nota a Cass., Sez. IV, 22 ottobre 2010 (dep. 22 dicembre 2010), Pres. Teresi, Est. Rosi, Imp. C.

Con la sentenza in esame la Cassazione è chiamata a pronunciarsi sui confini di applicazione della fattispecie di cui all’art. 609 bis co. 2 n. 1) c.p.: la violenza sessuale per “induzione” commessa “abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto”.
 
La Suprema Corte torna cioè ad affrontare il tema, delicatissimo, dell’individuazione della sottile linea che separa il diritto della persona di esprimere liberamente la propria sessualità, anche quando versi “in condizioni di inferiorità psichica”, e la commissione del delitto di violenza sessuale, in presenza di forme di “strumentalizzazione” dell’incapace a fini sessuali.
 
Nel caso di specie, l’imputato, in tre diverse occasioni, aveva avuto rapporti sessuali in auto con una giovane donna che, ad ogni evidenza, risultava affetta da una forma di “minorazione psichica”. Più in particolare, le Corti di Merito, in esito alle indagini peritali disposte e alle stesse dichiarazioni della vittima, avevano riscontrato come l’agente, pur non avendo mai costretto la giovane ai rapporti sessuali, aveva in qualche modo superato le iniziali “titubanze” della ragazza dietro la promessa di un “premio” consistente in caramelle alla menta, che effettivamente erano state donate dall’uomo alla propria “partner” all’esito di ogni rapporto sessuale.  
 
Alla luce di queste evidenze, la Corte d’Appello di Bari aveva confermato la condanna dell’imputato a due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di violenza sessuale per induzione (art. 609 bis co. 2 c.p.), negando altresì la concessione dell’attenuante prevista al comma 3 della medesima disposizione per “i casi di minore gravità”.
 
La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte è pertanto a quali condizioni possa dirsi sussistente un effettivo “abuso” delle condizioni di “minorazione psichica”, e soprattutto quali siano i criteri che dovrebbero orientare il giudice di merito per stabilire se l’atto sessuale dell’incapace sia comunque espressione di una sua libera decisione, oppure se rappresenti il risultato di illecite forme di “induzione”.
 
In proposito, la Suprema Corte, dopo aver ripercorso l’evoluzione della propria giurisprudenza relativa alla fattispecie in esame, afferma che il giudice di merito – qualora sia chiamato a stabilire se via sia stata una violenza sessuale per induzione di cui al comma 2 – deve necessariamente approfondire “la dinamica del rapporto autore-persona offesa del reato”, dalla quale è possibile scorgere i tratti tipici di una autentica strumentalizzazione dell’incapace a fini sessuali.
 
In tal senso, la sentenza in esame precisa che “indurre ad un atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichica altro non è che approfittare delle condizioni di inferiorità psichica, condotta che connota anche altre tipologie delittuose caratterizzate dalla vulnerabilità soggettiva della persona offesa (…). L’abuso, quindi, si verifica quando le condizioni di inferiorità vengono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della sessualità della persona, che a causa della sua vulnerabilità connessa all’infermità psichica, viene ad essere utilizzata quale mezzo per soddisfare le voglie sessuali dell’autore del comportamento di induzione; tale comportamento risulta tipico proprio in quanto si lega con l’abuso: attraverso tale strumentalizzazione l’autore della condotta delittuosa trasforma la relazione sessuale, che di norma intercorre tra due persone in grado di autodeterminarsi nell’esplicazione della propria libertà sessuale, in mera fruizione del corpo della persona che si trovi in condizioni di vulnerabilità soggettiva dovuta ad infermità psichica, la quale, per effetto di tale comportamento, da soggetto di una relazione sessuale, viene ridotta al rango di ‘oggetto’ dell’atto sessuale”.
 
Fatte queste considerazioni, la Corte conclude quindi per la correttezza dell’iter decisionale della Corte d’Appello di Bari, ritenendo che quest’ultima abbia dato adeguatamente conto nella propria motivazione degli elementi di effettiva “strumentalizzazione” della persona offesa da parte del reo, il quale avrebbe ridotto la giovane donna al rango di un “oggetto”, inducendola a fugaci rapporti sessuali in cambio di qualche caramella.
 
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La sentenza in esame è indubbiamente apprezzabile per lo sforzo della Suprema Corte di superare quei precedenti orientamenti che, ai fini dell’accertamento di una violenza sessuale per induzione, ora pretendevano una vera e propria “sopraffazione” della vittima, ora si accontentavano di una mera “opera di persuasione sottile e subdola” a danno della persona incapace, con la sensazione che l’esegesi del concetto di abuso finisse in qualche modo per essere modellato sulle peculiarità del caso concreto.
 
La Cassazione, con questo nuovo arresto, interviene invece a richiamare il giudice sulla necessità di individuare gli estremi dell’abuso punibile nella dinamica del rapporto autore-vittima, dalla cui analisi è possibile comprendere se la persona offesa, in ragione delle proprie condizioni psichiche, sia stata di fatto esclusivamente “usata” dal reo per finalità sessuali.
 

Un accertamento – quello a cui è chiamato il giudice penale – che appare comunque estremamente delicato e complesso, e come tale bisognoso di un particolare rigore probatorio, onde scongiurare il rischio che maneggiando incautamente gli insidiosi concetti di “abuso”, “induzione” e “strumentalizzazione” si finisca per far risorgere dalle proprie ceneri inafferrabili e pericolose forme di “plagio”.