16 ottobre 2015 |
Lampedusa: la Corte edu condanna l'Italia per la gestione dell'emergenza sbarchi nel 2011
C. eur. dir. uomo., sez. II, sent. 1 settembre 2015, Khlaifia e altri c. Italia
Con la sentenza Khlaifia e altri c. Italia (clicca qui per accedere al testo ufficiale, in lingua francese) la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accolto il ricorso presentato da tre cittadini tunisini avverso il trattamento subito in occasione del loro sbarco irregolare sulle coste italiane nel settembre del 2011. La pronuncia, per quanto necessariamente focalizzata sulle censure sollevate dai ricorrenti, prende in considerazione il più ampio contesto dell'"emergenza sbarchi" verificatasi nel 2011 a seguito delle "primavere arabe", e censura l'operato dell'Italia sotto il profilo dell'accoglienza dei migranti, della gestione dei respingimenti, nonché delle vie di ricorso previste per tutelare i diritti fondamentali a livello interno. Di seguito vengono fornite una sintesi dettagliata della vicenda e delle statuizioni della Corte europea.
I fatti oggetto del ricorso
Nel corso di tutto il 2011, in relazione con la crisi umanitaria conseguita alle cosiddette "Primavere arabe", decine di migliaia di persone sono sbarcate sulle coste del sud dell'Europa, costringendo anche l'Italia a fronteggiare diverse ondate migratorie provenienti in particolare dalla Tunisia e dalla Libia.
I ricorrenti, partiti dalle coste tunisine il 16 e il 17 settembre 2011 su imbarcazioni di fortuna, sono sbarcati in Italia, sull'isola di Lampedusa, il 17 e il 18 settembre. Trasferiti nel Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) di Contrada Imbriacola, il principale dell'isola, sono stati soccorsi e identificati. Pochi giorni dopo, il 20 settembre, una rivolta scoppiata tra i migranti ha provocato un grave incendio nel centro, costringendo le Autorità al trasferimento degli ospiti prima nel palazzetto dello sport di Lampedusa e poi, il 22 settembre, previo trasbordo aereo a Palermo, su alcune navi attraccate nel porto della città. Infine, tra il 27 e il 29 settembre, i ricorrenti sono stati condotti in aeroporto e, previa loro identificazione da parte del Console tunisino, rimpatriati in Tunisia in conformità con le procedure istituite dall'accordo italo-tunisino dell'aprile 2011.
La Corte osserva che risultano in atti i relativi decreti di respingimento emessi nelle medesime date (27 e 29 settembre) e che i rispettivi verbali di notificazione danno atto del rifiuto di firmare opposto dai destinatari.
Di particolare rilievo, inoltre, è la base giuridica sulla quale sono fondati i decreti, ossia l'art. 10, co. 2, Testo Unico sull'Immigrazione (d.lgs. n. 286del 1998 e successive modifiche) il quale prevede che "Il respingimento con accompagnamento alla frontiera è ... disposto dal questore nei confronti degli stranieri: [...] b) che, ..., sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso". Non si tratta pertanto di espulsioni in senso stretto, ma di respingimenti alla frontiera, che possono essere disposti - a mente dell'art. 10 cit. - non solo in modo diretto, quando lo straniero si presenti alla frontiera senza titolo per far ingresso sul territorio dello Stato, ma anche quando questi venga fermato subito dopo il suo ingresso illegale oppure, come nel caso dei ricorrenti, quando l'ingresso sia avvenuto per ragioni di pubblico soccorso (cd. respingimento differito).
Le censure sollevate dai ricorrenti: sguardo d'insieme
I tre ricorrenti sollevano quattro diversi ordini di censure:
1) la violazione dell'art. 5, § 1, CEDU, per essere stati trattenuti in maniera incompatibile con i presupposti ai quali tale disposizione subordina la legittima privazione della libertà personale, nonché dell'art. 5, § 2, per non aver ricevuto alcuna comunicazione circa le ragioni della loro detenzione, e dell'art. 5, § 4, per non aver avuto la possibilità di contestare la legalità di tale detenzione;
2) la violazione dell'art. 3 CEDU, per essere stati trattenuti in condizioni inumane e degradanti tanto nel CSPA di Lampedusa quanto a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo;
3) la violazione dell'art. 4, prot. 4, CEDU, per essere stati vittima di un'espulsione collettiva;
4) la violazione dell'art. 13 CEDU con riferimento a tutti i precedenti profili di censura, per non aver potuto beneficiare di un efficace rimedio giurisdizionale interno contro tali violazioni convenzionali.
Le statuizioni della Corte: le violazioni dell'articolo 5 CEDU
Esaminata la pertinente normativa interna (§§ 27-32), ed esaminati diffusamente alcuni documenti redatti da organizzazioni internazionali con riferimento ai fatti di causa (§§ 33-35), la Corte si sofferma sulle argomentazioni in diritto svolte dalle parti.
La prima censura sollevata dai ricorrenti è fondata sull'art. 5 par. 1 CEDU, ove la Convenzione afferma il divieto di privazione della libertà personale ed enumera i casi, tassativi, di eccezione a tale principio.
Preliminarmente, il Governo italiano aveva sollevato un'eccezione di ricevibilità, asserendo che la condizione dei ricorrenti non potesse essere ricondotta al concetto di privazione di libertà personale, essendosi le Autorità limitate a soccorrere e identificare i ricorrenti conformemente alla normativa nazionale ed europea. Il Governo sottolinea in particolare come il CSPA e le navi sulla quali i migranti erano stati successivamente imbarcati non potessero essere considerati altro se non strutture di accoglienza. Da parte loro i ricorrenti, pur riconoscendo che tale ricostruzione corrisponde alle astratte previsioni normative pertinenti, affermano di essere stati in concreto privati della libertà personale: erano infatti rinchiusi all'interno di una struttura circondata da alte mura, da cui era loro proibito di allontanarsi, erano sottoposti a continua sorveglianza da parte delle forze di polizia edera loro impossibile comunicare con l'esterno.
In proposito la Corte richiama anzitutto il principio per cui ogni apprezzamento circa l'effettiva privazione di libertà subita da un individuo deve necessariamente prendere le mosse dalla disamina della sua situazione concreta alla luce di un insieme di criteri come la tipologia, la durata, gli effetti e le modalità di attuazione della misura concretamente considerata. Rilevato poi, in primo luogo, che le condizioni di trattenimento riferite dai ricorrenti non solo non risultano contestate dal Governo ma risultano addirittura confermate tanto dai rapporti internazionali sul CSPA di Lampedusa sia da quello pubblicato dal Parlamento italiano; e osservato, in secondo luogo, come la fuga dei migranti dal CSPA ed il loro ri-accompagnamento coattivo da parte delle forze dell'ordine militassero nel senso che la permanenza nel CSPA fosse avvenuta contro la volontà dei migranti medesimi, la Corte conclude che, in concreto e a dispetto della qualificazione del CSPA operata dal diritto interno, i ricorrenti sono stati ivi trattenuti nell'ambito di una vera e propria privazione della libertà personale ai sensi dell'art. 5, § 1, CEDU.
Nel merito, i ricorrenti rilevano che l'unica forma lecita di trattenimento cui può essere sottoposto uno straniero per ragioni connesse all'irregolare presenza sul territorio italiano è quella prevista dall'art. 14. D.Lgs. 286/98, ovvero quella nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), detenzione la quale consente un controllo giurisdizionale di legalità; e parallelamente osservano che, da parte sua, l'art. 10, co. 2, D.Lgs. 286/98, pur legittimando i cd. respingimenti differiti, non prevede alcuna forma di privazione di libertà nei riguardi del migrante. Per contro, la situazione emergenziale allegata dal Governo non appariva di portata tale da consentire alcuna deroga al divieto di privazione di libertà senza controllo giurisdizionale e comunque l'Italia non aveva mai invocato la deroga prevista dall'art. 15 CEDU per i casi d'urgenza(a mente della quale, fra l'altro, "ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale"). La violazione perpetrata dal Governo, al contrario, appare di portata strutturale, risultando ancora in corso alla data di deposito degli atti difensivi.
Da parte sua, il Governo evidenzia come le misure assunte nei riguardi dei ricorrenti non erano dirette ai fini di cui all'art. 5, § 1, lett. f), CEDU, poiché nessun provvedimento di espulsione o estradizione è stato assunto né doveva essere assunto. Al contrario, i migranti sono semplicemente stati ammessi in via temporanea sul territorio dello Stato e quanto prima, previa loro identificazione, respinti, senza che perciò il diritto interno richiedesse l'esperimento di alcun controllo giurisdizionale, previsto solo in caso di espulsione.
La Corte - dopo avere osservato che l'accoglimento della tesi del Governo comporterebbe l'accoglimento de plano delle tesi dei ricorrenti (stante che la detenzione risulterebbe così priva tout court di alcuna base convenzionale, afferma che la detenzione dei ricorrenti era evidentemente connessa con il loro ingresso irregolare e con le finalità di gestione del fenomeno migratorio considerate dalla suddetta lettera f).
Ciò premesso, la Corte osserva che la legge italiana non prevede espressamente la possibilità di trattenere i migranti irregolari all'interno dei CSPA, l'unica norma pertinente restando l'art. 14 T.U. imm. citato, che si riferisce solo alla detenzione amministrativa nei CIE, la quale risponde a finalità del tutto diverse. Pertanto, conclude la Corte, la privazione di libertà subita dai ricorrenti risulta priva di base legale nel diritto interno e pertanto priva di uno dei requisiti essenziali imposti dall'art. 5, § 1, lett. f), CEDU, la cui violazione viene pertanto riconosciuta nel caso concreto. La Corte inoltre osserva che, anche volendo ritenere che l'accordo italo-tunisino dell'aprile 2011 preveda una base legale alla detenzione dei ricorrenti, questa non è comunque in grado di soddisfare i requisiti imposti dalla Convenzione, in quanto, non essendo tale accordo pubblico, esso non è accessibile né le sue disposizioni prevedibili da parte degli individui.
Per quanto riguarda la violazione dell'art. 5, § 2, CEDU, il quale prevede che ogni persona privata della libertà deve essere informata al più presto "dei motivi dell'arresto e di ogni accusa formulata a suo carico", i ricorrenti lamentano l'assenza di qualsivoglia forma di comunicazione da parte delle Autorità italiane circa le ragioni del loro trattenimento: in particolare, osservano da un lato che i decreti di respingimento sono stati emessi al momento dell'esecuzione del rimpatrio e quindi non già all'inizio ma alla fine del periodo di detenzione, e dall'altro che tali decreti hanno comunque ad oggetto le ragioni del rimpatrio e non del trattenimento; inoltre, lamentano che ogni informazione circa il loro stato di detenzione è provenuta da organizzazioni non governative, mentre la norma invocata richiede che sia la medesima Autorità pubblica ad effettuare tale adempimento.
Il Governo, da parte sua, ritiene invece che lo stato giuridico dei ricorrenti sia stato comunicato verbalmente dai funzionari di polizia all'atto dello sbarco e non sia mai mutato.
La Corte, richiamata la propria giurisprudenza e in particolare il fatto che l'obbligo di informazione sia intrinsecamente legato al diritto dell'individuo di contestare la legalità della sua privazione di libertà ai sensi del successivo § 4, rileva che certamente i ricorrenti erano a conoscenza del loro status di migranti irregolari e del fatto che erano stati ammessi sul territorio nazionale in virtù e per le ragioni di cui all'art. 10, co. 2 T.U. imm. Tuttavia, tale livello informativo non può soddisfare i requisiti di cui all'art. 5, § 2, CEDU, soprattutto perché indica i presupposti in fatto e in diritto dello statuto di migranti irregolari ma non della detenzione. Inoltre, la Corte rileva come tale comunicazione sia stata effettuata senza la prontezza richiesta dalla norma invocata. Pertanto, la pronuncia rileva la violazione dell'art. 5, § 2, CEDU.
I ricorrenti censurano inoltre la condotta del Governo italiano anche sotto la lente dell'art. 5, § 4, CEDU, per non essere stati posti in condizione di contestare la legalità della loro detenzione in quanto nessun provvedimento formale ad essa inerente è mai stato comunicato loro né pertanto poteva essere fatto oggetto di impugnazione. Il Governo da parte sua osserva che il provvedimento di respingimento notificato ai ricorrenti indicava la possibilità di contestarne la legalità, e che alcuni migranti tunisini hanno effettivamente proposto ricorso avanti al Giudice di pace di Agrigento, il quale ha anche accolto due di tali ricorsi[1].
La Corte, richiamati i principi generali elaborati dalla propria giurisprudenza, rileva immediatamente che la conclusione raggiunta con riguardo all'art. 5, § 2, CEDU, ovvero il fatto che i ricorrenti non siano stati informati delle ragioni in fatto e in diritto della loro detenzione, non può che privare radicalmente di significato la possibilità di censurare la legalità della detenzione medesima. Ciò basta per accertare la violazione dell'art. 5, § 4, CEDU. Ad abundatiam, la Corte precisa che, anche a voler ritenere che la contestazione giudiziale della legalità dei decreti di respingimento possa in qualche modo implicare la censurabilità dei presupposti dello stato di detenzione, il fatto che tali decreti siano stati notificati poco prima dell'effettivo rimpatrio priva comunque nella necessaria effettività il mezzo processuale così ricostruito, che risulterebbe quindi in ogni caso inidoneo a soddisfare i requisiti della pertinente norma convenzionale.
(segue): la violazione dell'articolo 3 CEDU
I ricorrenti sollevano diverse censure fondate sull'art. 3 della Convenzione, il quale pone il divieto di sottoporre l'individuo a tortura o a pene o trattamenti inumani e degradanti.
Rigettata preliminarmente per tardività la censura inerente il lato procedurale dell'art. 3 (§§ 101-102), la Corte prende ad esaminare le censure fondate sul fronte sostanziale di tale norma.
I ricorrenti lamentano che il CSPA era gravemente sovraffollato, oltre tre volte la sua capienza normale e una volta e mezzo quella massima, indicando cifre non smentite dal Governo; lamentano inoltre le inaccettabili condizioni igieniche e sanitarie del Centro, riferendo di essere stati costretti a dormire sul pavimento in cemento a causa della puzza e del sovraffollamento delle camere, di non aver avuto a disposizione una mensa né bagni funzionanti o accessibili; lamentano inoltre di aver sofferto per lo stato di incertezza circa la loro condizione e la loro sorte, per la durata della detenzione e per l'impossibilità di comunicare con l'esterno. Quanto alla successiva detenzione sulle navi, essi contestano le condizioni di sovraffollamento nella quale sono stati costretti a vivere, l'impraticabilità dei servizi igienici, il fatto che i pasti fossero distribuiti gettando il cibo sul pavimento e la limitazione dell'accesso all'aria aperta a soli pochi minuti al giorno.
Il Governo replica con diversi argomenti: preliminarmente ricorda la presenza di associazioni non governative sull'isola di Lampedusa (la quale rientrava in un apposito programma di sostegno e accoglienza finanziato dall'Italia e dall'Unione europea), ed enumera i diversi interventi materiali e legislativi rivolti a migliorare le condizioni di soccorso e di assistenza ai migranti, sforzi riconosciuti e attestati da diversi rapporti internazionali. Inoltre, evidenza come l'arrivo massivo di migranti nordafricani conseguente alle c.d. "primavere arabe" avesse dato origine ad un vero e proprio stato di emergenza. Ancora, il Governo afferma che il Centro di Lampedusa era al tempo perfettamente funzionante e in grado di accogliere i migranti in virtù di risorse umane e materiali sufficienti.
La Corte, richiamati i principi generali in materia di accertamento della violazione dell'art. 3 CEDU, con particolare riguardo alle condizioni di detenzione e all'onere della prova, rileva preliminarmente che la situazione sull'isola di Lampedusa nel 2011 aveva raggiunto un notevole grado di emergenza e che tale situazione era aggravata, all'epoca dei fatti di causa, dall'incendio del 20 settembre. Ciononostante, osservano i giudici di Strasburgo, questi fattori non possono esonerare lo Stato dall'obbligo di garantire il rispetto dell'art. 3, il quale costituisce una della disposizioni principali dell'architettura convenzionale.
La Corte esamina a questo punto separatamente le censure rivolte avverso la detenzione nel CSPA e quelle inerenti il soggiorno sulle navi.
Quanto al primo, la Corte richiama i rapporti redatti non solo da diverse organizzazioni internazionali ma altresì da una commissione parlamentare italiana, che in quanto fonte di provenienza dello stesso Stato convenuto deve essere tenuta in particolare rilievo: pur in assenza di dati certi circa lo spazio vitale assegnato a ciascun individuo, la Corte ritiene che il grado di sovraffollamento in uno con le gravi carenze igieniche attestate collochino la situazione dei ricorrenti al di sotto degli standard internazionali e di quelli previsti dalla Convenzione. La situazione, se da un lato può considerarsi attenuata dalla breve durata della permanenza, è del pari aggravata dal fatto che i migranti trattenuti erano reduci da un pericoloso viaggio in mare che ne ha accresciuto la vulnerabilità sul piano fisico e psichico. Per tali ragioni, la Corte dichiara che vi è stata la violazione dell'art. 3 CEDU.
Quanto al periodo di trattenimento sulla navi, durato da sei a otto giorni, la Corte rileva come la ricostruzione dei fatti offerta dai ricorrenti sia smentita dal contenuto di un'ordinanza del GIP di Palermo, che si era trovato a dover decidere sull'archiviazione di indagini condotte per i medesimi fatti[2], ordinanza che si fondava a sua volta sulla testimonianza di un membro del Parlamento italiano salito personalmente a bordo delle navi: escluso che il fatto che tale accesso si fosse realizzato con l'accompagnamento delle forze dell'ordine presenti possa aver alterato la percezione del parlamentare circa le reali condizioni dei migranti, la Corte rileva la maggiore attendibilità della ricostruzione così offerta dal Governo a fronte dell'assenza di riscontri che affligge quella proposta dai ricorrenti, rigettando così la relativa censura. Osserva la Corte che, esclusa la sussistenza di condizioni di detenzione inumane e degradanti, il solo stato di incertezza e angoscia circa la propria condizione che poteva animare i ricorrenti non attinge quel livello di minima gravità necessario per configurare un'autonoma violazione dell'art. 3 CEDU.
(segue): la violazione dell'articolo 4, protocollo 4, CEDU
L'art. 4 del quarto protocollo addizionale alla CEDU vieta le espulsioni collettive.
I ricorrenti affermano di essere stati vittime di una espulsione collettiva nel senso delineato dalla giurisprudenza della Corte, ovvero sulla sola base della loro nazionalità e senza alcuna considerazione circa le loro situazioni individuali, in applicazione delle procedure semplificate previste dall'accordo bilaterale italo-tunisino; lamentano in particolare di non essere mai stati sentiti dalle Autorità italiane, che si sono limitate a identificarli e a rilevarne le impronte digitali, attività che è stata poi ripetuta poco prima dell'imbarco verso la Tunisia alla presenza del Console tunisino; neppure il provvedimento di respingimento, redatto secondo un modulo standard, reca traccia di una disamina approfondita della loro condizione. Inoltre, i ricorrenti evidenziano che ulteriore riprova dell'esistenza di un'espulsione collettiva sarebbe fornita dall'elevato numero di tunisini contestualmente rimpatriati, dal fatto che l'operazione di rimpatrio era stata preannunciata da un'apposita nota ministeriale, dalla standardizzazione dei decreti di respingimento e dalla difficoltà per i ricorrenti di prendere contatti con un legale.
Il Governo, da parte sua, si limita ad affermare che le Autorità hanno condotto un esame individuale della situazione di ciascun ricorrente e che ciò risulterebbe dalla raccolta dei dati anagrafici e biometrici dei migranti, essendo peraltro confermato dal citato provvedimento di archiviazione del GIP di Palermo.
La Corte osserva in primo luogo che il numero di individui espulsi sulla base di decisioni similari non costituisce presupposto da solo sufficiente per accertare la violazione dell'art. 4, prot. 4, CEDU. Tuttavia, la sola identificazione di ciascun migrante - benché costituisca un elemento a favore della tesi di governo - non è sufficiente ad escludere la natura collettiva dell'espulsione, soprattutto quando ricorrano altri elementi, quali l'assenza di indicazioni circa la situazione individuale del migrante nel provvedimento di espulsione, l'assenza di prova dell'effettuazione di colloqui informativi individuali, il gran numero di connazionali coinvolti, l'affermazione di doversi procedere mediante "procedure semplificate" in virtù dell'accordo bilaterale italo-tunisino più volte citato. Questi elementi permettono alla Corte di escludere la sussistenza delle necessarie garanzie circa la presa in carico da parte dello Stato delle situazioni individuali dei ricorrenti, e di accertare pertanto la violazione dell'art. 4, prot. 4, CEDU.
(segue): la violazione dell'articolo 13 CEDU, in combinato disposto con gli articoli 3 e 5 della Convenzione e dell'art. 4 del quarto protocollo addizionale
I ricorrenti affermano di non aver avuto a disposizione un efficace rimedio interno per contestare la legalità del loro trattamento ai sensi degli artt. 3 e 5 CEDU e 4 del Quarto protocollo, in violazione del diritto ad un ricorso effettivo sancito dall'art. 13 CEDU
La Corte rileva preliminarmente che, poiché l'art. 5, § 4, CEDU, si pone quale lex specialis rispetto all'art. 13 CEDU, i fatti sottoposti al suo sindacato sotto la lente del combinato disposto tra l'art. 13 e l'art. 5 CEDU sono già stati esaminati con riguardo all'art. 5, § 4, CEDU, e pertanto restano assorbiti.
Quanto agli altri profili, i ricorrenti rilevano come l'unico strumento processuale previsto per contestare la legalità dei decreti di respingimento fosse rappresentato dal ricorso al Giudice di pace, come anche indicato nei decreti medesimi e, tuttavia, da un lato tale mezzo non sia provvisto di efficacia sospensiva e sia quindi privo di effettività nei sensi indicati dalla giurisprudenza di Strasburgo, mentre dall'altro lato esso riguardi la sola espulsione non inerendo viceversa le condizioni di detenzione nei CSPA.
Il Governo ritiene invece che il ricorso al Giudice di pace sia idoneo a rappresentare mezzo di ricorso adeguato ai sensi dell'art. 13 CEDU.
La Corte, richiamati i principi generali circa la natura del mezzo di impugnazione e il concetto di effettività, si sofferma sulla propria giurisprudenza in materia di espulsioni (richiamando in particolare la sentenza dellagrande camera del 13 dicembre 2012, De Souza Ribeiro c. Francia, ) ai sensi della quale l'effettività del mezzo di ricorso avverso il rischio di espulsioni collettive o contrarie all'art. 3 CEDU implica necessariamente che esso sia dotato di effetto sospensivo.
Sulla base di tali principi, la Corte rileva l'assenza di qualsivoglia mezzo di ricorso tanto avverso le condizioni di trattenimento nel CSPA, quanto avverso l'esecuzione del respingimento, accertando la conseguente violazione dell'art. 13 CEDU in relazione, rispettivamente, agli artt. 3 e 4 Prot. 4 Cedu.
Quanto all'esistenza di un mezzo di ricorso avverso la decisione di respingimento, considerata quale espulsione collettiva per le ragioni già esposte, la Corte rileva in primo luogo che i ricorrenti avrebbero potuto proporre ricorso avanti al Giudice di pace e che non è improbabile che in quella sede avrebbero potuto far valere le loro ragioni circa la mancanza di esame individuale della loro posizione. Tuttavia, la pacifica mancanza di efficacia sospensiva in tale mezzo di ricorso lo rende comunque privo del requisito di efficacia richiesto dalla giurisprudenza sopra citata, e pertanto anche in questo caso la Corte rileva la violazione dell'art. 13 CEDU.
Le opinioni dissenzienti
Alla sentenza sono infine allegate l'opinione concordante del Giudice Keller e le opinioni parzialmente dissenzienti dei Giudici Sajó e VuÄinić, e Lemmens.
Limitandoci a riassumere i passaggi essenziali delle due dissenting opinion, va sottolineato che i giudici Sajó e VuÄinić lamentano il fatto che la Corte abbia trascurato di valorizzare la breve durata del soggiorno dei ricorrenti del CSPA di Lampedusa, ciò che, in assenza di altri specifici indici di gravità e in uno con le buone condizioni fisiche dei migranti stessi, avrebbe dovuto condurre a escludere la violazione dell'art. 3 anche con riguardo alla detenzione in detto Centro. La medesima opinione dissenziente si sofferma poi sull'interpretazione dell'art. 4, prot. 4, CEDU, offerta nel caso di specie: i due giudici estensori, ripercorrendo la (pur scarna) giurisprudenza in materia e il diritto internazionale pertinente, affermano che può parlarsi di "espulsione collettiva" in due ipotesi, nessuna delle quali ricorre nel caso di specie: la prima ipotesi ricorre quandoun soggetto viene espulso sulla sola base della sua appartenenza a un gruppo; la seconda ipotesi ricorre quando ad essere espulso è il gruppo nella sua interezza, , senza che neppure vengano identificati i suoi singoli membri.
La breve opinione dissenziente del giudice Lemmens, da ultimo, si sofferma invece sulla quantificazione della somma liquidata a titolo di danno non patrimoniale, pari ad € 10.000 per ciascun ricorrente. Pur aderendo alle conclusioni raggiunte nella sentenza, e ritenendole anzi provviste di una portata generale, idonea a superare i confini dei fatti che hanno specificamente colpito i tre ricorrenti, il Giudice belga osserva che la somma liquidata, specialmente se parametrata al reddito pro capite medio del Paese di residenza dei ricorrenti, travalica i limiti del risarcimento e prende la forma di una sorta di "danno punitivo", estraneo alla logica convenzionale.
[1] Due dei migranti sbarcati in Italia nel medesimo periodo dei ricorrenti avevano effettivamente impugnato i relativi decreti avanti al Giudice di pace di Agrigento, il quale li aveva annullati, rilevando che la ragionevolezza del ritardo nell'adozione dei decreti di respingimento non può comunque prescindere dal fatto che essi mirano a limitare la libertà personale dell'individuo e che consentire la loro emanazione a distanza di oltre dieci giorni dal fermo, come nei casi di specie, equivarrebbe a permettere una detenzione de facto dello straniero in violazione della Costituzione.
[2] Su sollecitazione di associazioni non governative, era stata infatti avviata un'indagine relativa alla detenzione dei migranti, fra i quali i ricorrenti, a bordo delle navi ormeggiate nel porto di Palermo. Rispetto ai titoli di reato ipotizzati, abuso d'ufficio (art. 323 c.p.) e arresto illegale (art. 606 c.p.), la Procura aveva richiesto nell'aprile 2012 l'archiviazione. Il Giudice per le indagini preliminari aveva accolto tale richiesta, rilevando da un lato che nessuna detenzione si fosse mai verificata, essendosi limitate le Autorità nazionali a procedere all'identificazione dei migranti e al loro soccorso sanitario, e dall'altro lato che le modalità di trattenimento erano diretta conseguenza del peculiare stato di emergenza derivante dalla rivolta del 20 settembre 2011 e che quindi, a tutto voler concedere, era da ritenersi configurabile un vero e proprio stato di necessità ai sensi dell'art. 54 c.p., in virtù del quale le Autorità erano state costrette a procedere al trasferimento dei migranti nelle modalità già descritte, a tutela (e non già a detrimento) della loro salute e della loro sicurezza. Anche per quanto riguarda l'adozione e la comunicazione delle misure di respingimento, il GIP aveva ritenuto che le condizioni, anche logistiche, del caso concreto rendessero ragionevole il ritardo con il quale tali adempimenti sono stati effettuati. Il procedimento era stato pertanto archiviato.