A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo mese, da Andrea Giudici ed Enrico Maria Mancuso. L'introduzione è a firma di Andrea Giudici per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 7, 10 e 1 Prot. add. Cedu, mentre si deve a Enrico Maria Mancuso la parte relativa agli artt. 5, 6 e 8 Cedu.
1. Introduzione
a) Art. 2 Cedu
b) Art. 3 Cedu
c) Art. 5 Cedu
d) Art. 6 Cedu
e) Art. 7 Cedu
f) Art. 8 Cedu
g) Art. 10 Cedu
h) Art. 1 Prot. add. Cedu
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
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1. Introduzione
a) Art. 2 Cedu
Con riguardo agli obblighi procedurali e al diritto a indagini effettive, la sent. 15 settembre 2015, Lari c. Moldavia, sanziona lo stato convenuto per non aver posto in essere uno sforzo serio e adeguato al fine di accertare i fatti che hanno condotto alla morte della figlia della ricorrente, trovata senza vita dopo aver partecipato a una festa. In particolare, l'inefficienza delle autorità procedenti ha fatto sì che l'indagine, aperta nel lontano 1999, si rivelasse lacunosa e inconcludente, senza che un ragionevole motivo giustificasse le difficoltà incontrate; un ulteriore dato stigmatizzato dalla Corte, inoltre, attiene alla mancata partecipazione alle indagini della ricorrente, privata di qualsiasi informazione.
In tema, si segnala anche la sent. 22 settembre 2015, Abdurakhmanova e Abdulgamidova c. Russia. Le ricorrenti sono moglie e figlia di un cittadino russo, sequestrato nel 2010 in circostanze non chiare da alcuni agenti di forze speciali governative e, successivamente, scomparso. Date le circostanze, la Corte ritiene di poter presumere la morte del soggetto sequestrato, attesa la persistente incapacità delle indagini di far luce sul caso e l'assenza di qualsiasi spiegazione circa le ragioni, e le condizioni, del 'sequestro'. Violati, così, risultano in relazione alla persona del sequestrato sia l'art. 2, nei suoi aspetti sostanziali e procedurali, sia l'art. 5. Con riguardo alla persona delle ricorrenti, invece, la Corte ravvisa la violazione degli artt. 3 e 13, il primo in ragione delle sofferenze psicofisiche conseguenti alla scomparsa del marito e padre, il secondo per l'assenza di un rimedio effettivo nell'ordinamento nazionale.
b) Art. 3 Cedu
Tra le pronunce del mese relative all'art. 3 Cedu, un posto di assoluto rilievo rivestono da un lato la sent. 1 settembre 2015, Khlaifia c. Italia, con cui la Corte europea ha accolto il ricorso presentato, avverso il nostro Paese, da tre cittadini tunisini al fine di censurare la gestione della c.d. emergenza sbarchi del 2011 e i conseguenti respingimenti collettivo (per una sintesi, si veda Giliberto, Lampedusa: la Corte edu condanna l'Italia per la gestione dell'emergenza sbarchi nel 2011, in questa Rivista, 16 ottobre 2015); nonché, dall'altro lato, la sent. 28 settembre 2015, Bouyid c. Belgio, con cui la Grande Camera, ribaltando la decisione assunta a sezione semplice, ritiene che un 'semplice' schiaffo inflitto da un agente di polizia a un soggetto sottoposto alla sua autorità integra gli estremi del "trattamento inumano o degradante", incompatibile con la Convenzione (per una sintesi, si veda Cancellaro, Tolleranza zero contro gli abusi delle forze di polizia: per la Grande Camera anche uno schiaffo può integrare la violazione del divieto di trattamenti degradanti ex art. 3 Cedu, in questa Rivista, 23 novembre 2015).
A parte tali pronunce, la sent. 3 settembre 2015, M. e M. c. Croazia, concerne la vicenda relativa alla custodia di una minore oggetto di violenze e di maltrattamenti da parte del padre. I procedimenti penali avviati all'indirizzo dell'uomo risultano, però, lenti e frammentari, e si protraggono per anni - oltre quattro - senza che una decisione venga assunta. Le ricorrenti, madre e figlia, lamentano la violazione di obblighi positivi tanto procedurali - in relazione al dovere di condurre indagini effettive sulla vicenda - quanto sostanziali, avendo lo Stato omesso di prevenire la reiterazione delle violenze. La Corte, accogliendo a maggioranza la prima doglianza, rigetta invece la seconda, ritenendo che le autorità nazionali avessero adeguatamente considerato il rischio di ulteriori abusi e che la decisione di rifiutare l'affido temporaneo della minore alla madre fosse stata assunta alla luce di un'adeguata istruttoria. Con riferimento a tale ultima decisione, la Corte ravvisa tuttavia la violazione dell'art. 8, sia per quanto concerne la lunghezza del relativo procedimento, sia con riguardo al mancato coinvolgimento della figlia nello stesso.
Con riferimento a violenze subite da appartenenti alle forze dell'ordine, si veda la sent. 15 settembre 2015, Poede c. Romania, relative a un pestaggio operato da alcuni agenti di polizia in danno di un soggetto autore di una violazione di scarsa entità del codice della strada. In tale arresto, la Corte ravvisa una violazione della Convenzione tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sotto il profilo procedurale, così considerando ineffettivi gli sforzi investigativi compiuti dalle autorità nazionale per l'accertamento delle responsabilità.
In relazione al pericolo di trattamenti inumani a seguito di un ordine di espulsione, si veda la sent. 10 settembre 2015, R.H. c. Svezia, con riguardo alla richiesta di asilo avanzata da una cittadina somala. A dispetto della misura provvisoria con cui ex art. 39 aveva vietato l'esecuzione del provvedimento di espulsione, la Corte ritiene insussistente la potenziale violazione dell'art. 3, convenendo con le autorità domestiche circa l'inattendibilità delle circostanze di fatto riferite dalla ricorrente e l'insussistenza di un pericolo reale.
Con riguardo, invece, al tema delle condizioni di detenzione, si segnalano la sent. 15 settembre 2015, Shishanov c. Moldavia, e la sent. 22 settembre 2015, Bordenciu c. Romania. Nel caso per primo menzionato, la Corte, ravvisava una violazione della Convenzione in relazione tanto ai profili d'igiene e di spazio disponibile in carcere - si lamentava la compresenza di sessanta detenuti in novantotto metri quadrati - quanto all'assenza di strutture per i detenuti che, come il ricorrente, presentassero una disabilità. Correlativamente, violato risultava anche l'art. 8, sub specie di diritto alla segretezza della corrispondenza, per avere l'amministrazione penitenziaria disatteso le disposizioni vigenti in materia di invio di posta da parte dei detenuti, compromettendone l'integrità. In tema, si segnalano anche la sent. 22 settembre 2015, Lavrentiadis c. Grecia, relativa all'omessa considerazione dello stato di salute del ricorrente, affetto da artrite reumatica degenerativa, patologia che incide sulle articolazioni; e la sent. 22 settembre 2015, Ilkin c. Russia, relativa al particolare ambito delle condizioni di trasporto del detenuto dal carcere al tribunale e viceversa. Il ricorso, accolto dalla Corte, interessava tanto il sovraffollamento del veicolo utilizzato per il trasporto quanto l'impossibilità di mangiare e di recarsi alla toilette durante i viaggi, lunghi fino a quattro ore.
Con riguardo alla nota questione della compatibilità della pena dell'ergastolo con la Convenzione, si veda la sent. 15 settembre 2015, Kaytan c. Turchia (per una sintesi, v. infra).
c) Art. 5 Cedu
Tra le pronunce della Corte europea, con riferimento all'art. 5 Cedu, va segnalata la sent. 17 settembre 2015, Kovyazin e altri c. Russia, concernente l'irragionevole durata della detenzione provvisoria subita dai ricorrenti, cittadini russi arrestati nel corso di una manifestazione di protesta per i risultati delle elezioni presidenziali. La Corte ha accertato la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu in un caso in cui il protrarsi della detenzione provvisoria non era giustificato dalla gravità dei fatti in contestazione, anche considerato il livello delle esigenze da tutelare nel caso concreto e lo stato di incensuratezza dei ricorrenti. Nella medesima pronuncia è, altresì, riconosciuta la violazione del parametro di cui all'art. 5 comma 4 Cedu, per l'irragionevolezza del lasso temporale intercorso dall'esecuzione della misura alla prima udienza di riesame della cautela chiesta da uno dei ricorrenti.
Inoltre, con la sent. 22 settembre 2015, Ilkin c. Russia (per una sintesi, v. infra), la Corte ha riconosciuto la violazione dell'art. 5 commi 3 e 4 Cedu (unitamente all'art. 3 Cedu), ribadendo il costante orientamento secondo cui il protrarsi della restrizione della libertà personale non possa esser giustificato sulla base dell'asserita gravità del reato contestato, pur in assenza di specifiche esigenze investigative da tutelare nel caso concreto, a dibattimento già aperto. È stata, inoltre, sottolineata l'esigenza di una tempestiva revisione del titolo cautelare da parte del giudice, da effettuarsi entro pochi giorni - e non certo settimane o mesi - dal deposito del gravame presso la cancelleria del giudice competente.
d) Art. 6 Cedu
Per quanto concerne l'art. 6 Cedu, si segnala, anzitutto, la sent. 1° settembre 2015, DaÅŸ c. Turchia, che ha riconosciuto la violazione dei parametri d'equità contemplati nei commi 1 e 3 lett. c e d Cedu nei confronti del ricorrente, imputato per la sua appartenenza dal partito combattente curdo (PKK), che lamentava di esser stato condannato sulla base di una triplice lesione dell'equità processuale: per la violazione del diritto ad essere assistito da un difensore subito dopo l'inizio della restrizione della libertà personale; per l'impossibilità di sottoporre a controesame i testimoni che avevano reso dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti; per la mancanza d'imparzialità del giudice che lo aveva giudicato colpevole in sede di rinvio a seguito dell'annullamento della prima pronuncia di condanna.
Con la dec. 1° settembre 2015, Dorado Baúlde c. Spagna (per una sintesi, v. infra), la Corte ha ritenuto manifestamente infondato il ricorso proposto per far valere la violazione degli artt. 6 Cedu e 2 Prot. n. 7 in un caso in cui era negato all'imputato il diritto al secondo grado di giudizio sulla ricostruzione fattuale operata dal primo giudice. Sono accolte le argomentazioni già formulate dalla corte di cassazione spagnola nel giudizio a quo, che ribadisce la conformità ai parametri convenzionali del rimedio di sola legittimità previsto dalla legislazione domestica.
Il diritto al controesame dei testimoni esaminati in forma protetta nel corso del dibattimento è al centro della questione risolta con la dec. 1° settembre 2015, Rozumecki c. Polonia, che ha dichiarato la manifesta infondatezza del ricorso presentato per la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. La doglianza proposta aveva ad oggetto la violazione dell'equità processuale in seguito alla condanna fondata sulle dichiarazioni rese da testimoni sentiti in forma protetta, al cui esame soltanto i difensori degli imputati (ma non questi ultimi) erano stati ammessi dal giudice. La Corte reputa di non accedere alle critiche mosse nel caso concreto per l'esistenza di numerosi indici di bilanciamento della compressione del diritto difensivo, primo fra tutti il rigoroso scrutinio svolto sul risultato delle testimonianze da parte dei giudici di merito.
La sent. 22 settembre 2015, Niţulescu c. Romania (per una sintesi, v. infra) ha riconosciuto la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per la compressione del diritto al contraddittorio sulla prova tecnica lamentato dal ricorrente, pubblico ufficiale accusato d'influenze illecite sulla base di una registrazione audio in seguito non sottoposta a perizia fonica nel corso del dibattimento.
Con la dec. 22 settembre 2015, Borcea c. Romania (per una sintesi, v. infra), la Corte affronta il tema del diritto al giudizio di innocenza in un caso concernente la denunciata violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per la lamentata impossibilità di ottenere una pronuncia ampiamente liberatoria, in luogo della declaratoria di prescrizione del reato, anche in considerazione della compressione del diritto alla prova contraria dovuta alla mancata convocazione di testimoni a discarico. La manifesta infondatezza della questione si basa sull'assunto secondo cui equità processuale non significa diritto a ottenere in maniera illimitata l'assunzione delle prove richieste, particolarmente quando esse non siano assolutamente necessarie alla decisione.
Con riferimento, infine, al diritto di accesso al giudice la sent. 22 settembre 2015, Rokas c. Grecia (cfr. infra la sintesi) ha riconosciuto il mancato rispetto dell'equità processuale sancita dall'art. 6 comma 1 Cedu per l'inerzia delle autorità inquirenti rispetto al procedimento per calunnia attivato dal ricorrente nelle more del giudizio a suo carico, conclusosi con una pronuncia assolutoria da tutte le accuse: le autorità investigative avrebbero dovuto attivarsi per vagliare la fondatezza della notizia di reato e così evitare che il decorso del tempo andasse a scapito del denunciante, cagionando un'archiviazione per intervenuta prescrizione del procedimento per calunnia.
e) Art. 7 Cedu
La sent. 3 settembre 2015, Berland c. Francia, interessa la vicenda di un soggetto, riconosciuto autore dell'omicidio della propria ex fidanzata ma non imputabile perché infermo di mente, cui in conseguenza del proscioglimento sono inflitte alcune misure di sicurezza in forza di una legge posteriore al fatto (per una sintesi, v. infra).
f) Art. 8 Cedu
Con riferimento all'art. 8 Cedu si richiama, in primis, la sent. 3 settembre 2015, Servulo & Associados e altri c. Portogallo (per una sintesi, v. infra), che ha dichiarato infondata la domanda del ricorrente mirante ad accertare la violazione del diritto al rispetto della vita privata in ordine all'interferenza subita da un'associazione professionale in seguito alla perquisizione svolta presso i locali dello studio legale: le prevalenti esigenze di repressione dei reati possono valicare le esigenze di privatezza, sempre che non determinino la violazione del segreto professionale e che l'apprensione dei dati sia disposta nel rigoroso rispetto della legge processuale.
Con la sent. 15 settembre 2015, Milka c. Polonia (cfr. infra la sintesi), la Corte ha accertato la violazione del parametro convenzionale di cui all'art. 8 Cedu in una vicenda riguardante il trattamento subito da un detenuto nel corso dell'espiazione penitenziaria. A costui era ripetutamente e arbitrariamente ordinato di denudarsi e sottoporsi a perquisizioni personali, senza che ve ne fosse una fondata ragione, così dando luogo a una indebita forma d'intrusione nel nucleo intangibile della vita privata del ricorrente.
La ripetuta e puntuale censura della corrispondenza ricevuta dal detenuto presso il carcere è, infine, il motivo della censura operata dalla Corte con la sent. 15 settembre 2015, Shishanov c. Moldavia. In un caso del tutto simile, la Corte non ha rinvenuto alcuna violazione convenzionale: con la dec. 1° settembre 2015, Paolello c. Italia è stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione concernente il controllo ripetuto della corrispondenza del detenuto operato in stretta osservanza delle regole del diritto interno, reputate congruenti con le esigenze di tutela cui il regime carcerario è preposto.
g) Art. 10 Cedu
La sent. 15 settembre 2015, Dilipak c. Turchia, interessa ancora una volta il tanto delicato quanto noto rapporto tra la tutela penale dell'onore e della reputazione da un lato e la limitazione della libertà d'espressione nel reato di diffamazione a mezzo stampa. La pronuncia in esame si caratterizza per avere la Corte europea ravvisato una violazione della Convenzione nella sola apertura di un procedimento penale, benché concluso con la dichiarazione della prescrizione del reato (per una sintesi, v. infra).
h) Art. 1 Prot. add. Cedu
La sent. 17 settembre 2015, Andonoski c. Repubblica ex-Jugoslava di Macedonia, concerne il caso di un tassista cui è stato confiscato il veicolo perché sorpreso a trasportare passeggeri di nazionalità albanese e sprovvisti di documenti d'identità. Arrestato, il ricorrente veniva indagato per reati collegati all'immigrazione clandestina; successivamente, era prosciolto da ogni accusa per insufficienza di prove. I giudici nazionali disponevano in seguito, però, la confisca del veicolo in qualità di corpo del reato. Secondo la Corte, tale provvedimento, per giunta disposto nel corso di un procedimento contro (uno dei passeggeri, e dunque) un soggetto diverso dal ricorrente, è incompatibile con la Convenzione: non tiene conto, infatti, né della professione del ricorrente - il quale, tassista, con l'auto lavora -, né soprattutto dell'estraneità dello stesso da ogni addebito (in particolare, rileva la Corte, non venivano in considerazione esigenze cautelari, e si era raggiunta la prova che il ricorrente fosse "non consapevole" di contribuire a un traffico illegale di migranti). Secondo i giudici di Strasburgo, infatti, tra i fattori rilevanti in tema di bilanciamento tra le finalità della misura ablativa e i diritti del proprietario un ruolo importante riveste il comportamento ("behavior": in relazione all'offesa) di quest'ultimo.
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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
C. eur. dir. uomo, sez. III, dec. 1° settembre 2015, Dorado Baúlde c. Spagna
Un cittadino spagnolo, accusato di traffico di sostanze stupefacenti, era condannato in primo grado alla pena di dieci anni di reclusione; proponeva ricorso avverso la condanna lamentando, tra le altre cose, che la procedura d'appello innanzi la Suprema corte non avrebbe ammesso la verifica del giudizio sul fatto operato dal primo giudice. La Corte di cassazione spagnola rigettava il ricorso affermando che lo scopo dell'appello, in conformità con gli standard internazionali, è quello di verificare la legalità della prova posta alla base della pronuncia di condanna. Non pago, il ricorrente adiva la Corte costituzionale per ottenere un sindacato di conformità della vigente legislazione ai parametri desumibili dalla carta fondamentale, ma tale rimedio era dichiarato inammissibile. Il ricorrente adiva, quindi, la Corte di Strasburgo, che - nel dichiarare manifestamente infondata la duplice doglianza sottoposta al suo scrutinio in riferimento all'equità processuale (art. 6 Cedu) e al diritto a un doppio giudizio in caso di pronuncia di condanna (art. 2 Prot. n. 7) - accoglie e ripropone le argomentazioni utilizzate dal giudice di legittimità spagnolo, affermando la conformità ai parametri convenzionali del rimedio di sola legittimità previsto dalla legislazione interna. (Enrico Maria Mancuso)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 3 settembre 2015, Berland c. Francia
Nel settembre 2007 Daniel Berland, allora ventenne, uccideva a coltellate un amico, a seguito di una lite; arrestato, veniva immediatamente processato; ma veniva accertata la sussistenza, al momento del fatto, di una turba psichica in grado di escluderne l'imputabilità. Al momento del giudizio, però, il tribunale, pur non pronunciando sentenza di condanna, dispone il ricovero coatto in ospedale psichiatrico e un'interdizione ventennale dall'intrattenere qualsiasi rapporto con le parti civili, in applicazione di una modifica normativa entrata in vigore nel febbraio 2008. L'imputato ricorre in Cassazione, davanti alla quale l'avvocato generale constata l'impossibilità di stabilire la "volontarietà" del fatto - attesa la non imputabilità del suo autore -. Nondimeno, la Suprema Corte francese conferma la sentenza impugnata, evidenziando sia che le sanzioni de quibus debbono essere qualificate come misure di sicurezza, sia che all'indirizzo del ricorrente sussistono elementi sufficienti perché si possa affermare che egli ha (materialmente) commesso il fatto. Sul punto, peraltro, occorre evidenziare che la stessa relazione ministeriale al progetto di legge prende specificamente in considerazione il caso dell'autore di reato non imputabile, e si propone di razionalizzarne il trattamento penale, nel senso di "una maggior considerazione per il dolore delle vittime e per l'efficacia delle cure".
La vicenda finisce a Strasburgo per violazione dell'art. 7: il ricorrente, ritenendo la natura sostanzialmente penale delle misure a lui inflitte, lamenta la violazione del divieto di retroattività sfavorevole, essendo la legge che ne consente l'applicazione in assenza di una sentenza di condanna successiva al fatto. La Corte europea, però, non condivide l'assunto di base. Nel rammentare l'autonomia della nozione di 'pena' e l'operatività dei criteri Engel, i giudici ritengono che le misure contestate - vale a dire il ricovero coatto e l'interdizione temporanea di cui si è detto - non costituiscano sanzioni 'penali'. I tribunali nazionali, anzi, hanno espressamente prosciolto l'imputato, valutando, in armonia con la giurisprudenza costituzionale, che la presenza di prove sufficienti circa la commissione del fatto da parte dell'imputato non può equivalere, agli effetti penali, a un'affermazione che l'imputato ha effettivamente commesso il fatto. Nell'esaminare in particolar modo il primo dei criteri Engel - quello per cui la natura penale di una misura si desume dal suo 'collegamento' con un illecito penale -, i giudici europei evidenziano allora come le misure inflitte al ricorrente non siano conseguenti a una condanna per un reato. Quanto agli ulteriori criteri - la natura e la finalità della misura -, i giudici rilevano che il ricovero coatto è funzionale a consentire da un lato la tutela della sicurezza collettiva - persistendo la pericolosità sociale dell'imputato - e, dall'altro, la cura dello stesso ricorrente - conseguendo a una perizia che ne ha accertato la psicopatia - in una struttura specializzata. La funzione della misura, dunque, è marcatamente preventiva, trattandosi di impedire il compimento di atti analoghi. In aggiunta, la Corte di Strasburgo evidenzia altresì che la natura temporanea della misura consente al ricorrente di rivolgersi presso il tribunale della libertà, domandandone la modifica o la cessazione, da disporsi, ancora una volta, a seguito di perizia psichiatrica. Conclusivamente, secondo la Corte europea, le misure in parola non possono essere qualificate come "pene" ai sensi dell'art. 7 della Convenzione, ma debbono essere trattate quali misure preventive nei cui confronti, pertanto, il divieto di retroattività sancito dalla disposizione convenzionale non trova applicazione. (Andrea Giudici)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 15 settembre 2015, Dilipak c. Turchia
Il ricorrente è un giornalista. Nell'agosto 2003 firmava un articolo, pubblicato sul periodico Türkiye'de Cuma (Venerdì in Turchia), fortemente critico verso i vertici militari del suo Paese, responsabili, a suo dire, di aver agitato lo spettro dell'avanzata del fondamentalismo per ingerirsi nella vita politica turca. Di tali vertici militari - di cui si sospettava avessero collegamenti con l'imprenditoria, i media e, finanche, la criminalità organizzata - il giornalista domandava le dimissioni, sfidandoli a costituire un movimento politico e a sottoporre apertamente i loro progetti alla volontà popolare. Sulla base di tale pubblicazione veniva aperto un procedimento penale davanti al tribunale militare istituito presso il terzo corpo d'armata di stanza a Istanbul. A seguito di un'eccezione avanzata dall'imputato, il tribunale militare rilevava il difetto di giurisdizione, in favore del giudice ordinario; tale decisione, però, veniva impugnata dal procuratore militare, il quale innescava un turbinio di ricorsi incrociati, lungo sei anni. Il contrasto, infine, veniva risolto in favore del giudice ordinario, che nel 2010 non poteva fare altro che dichiarare la prescrizione del reato.
La Corte europea, rigettando la relativa eccezione governativa, ritiene che l'estinzione del reato non privi il ricorrente, per ciò solo, della qualità di 'vittima' ai sensi della Convenzione: l'apertura di un (lungo) procedimento penale, lungi dal costituire un mero 'rischio del mestiere' (§ 50), ha avuto un effetto autenticamente deterrente, frutto di un'indebita compressione del (non più) autonomo esercizio della libertà d'espressione. In tale circostanza, proseguono i giudici di Strasburgo, risiede altresì il proprium della violazione, consistente nella risposta negativa al 'test' della necessità in una società democratica dell'ingerenza: in assenza di un carattere "gratuitamente offensivo" della pubblicazione, la reazione dell'autorità giudiziaria si connota per essere volta a sopprimere le opinioni non consonanti, con l'effetto ulteriore di dissuadere i giornalisti dall'informare su materie di interesse pubblico, inducendoli a una forzata autocensura (§ 70). Di conseguenza, la sola pendenza di un procedimento penale per reati punibili, in astratto, con la pena detentiva non ha risposto, in concreto, a un bisogno sociale imperativo e non risultava comunque, in linea generale, proporzionato agli scopi legittimi perseguiti. (Andrea Giudici)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 15 settembre 2015, Kaytan c. Turchia
Il ricorrente è un militante del Partito curdo dei lavoratori - di ispirazione comunista - condannato all'ergastolo per varie attività terroristiche a partire dal 1991. Ricorreva a Strasburgo da un lato lamentando di non aver affrontato un processo equo dinanzi a un giudice terzo e imparziale - doglianze che la Corte europea giudica inammissibili o manifestamente infondate -; dall'altro lato, e in misura più consistente, deducendo la violazione dell'art. 3, su due differenti piani. Il primo, che è a sua volta giudicato manifestamente infondato, riguarda le dichiarazioni autoaccusatorie che, secondo il ricorrente, gli sarebbero state estorte dalla polizia: secondo la Corte, sul punto manca qualsiasi elemento di prova che possa costituire la base per la valutazione. Il secondo profilo, invece, attiene alla sostanza della condanna inflitta al ricorrente e, in particolare, alla natura della pena: l'ergastolo. La doglianza, infatti, evidenzia che la pena detentiva perpetua senza possibilità di revisione costituisce un trattamento inumano e degradante ai sensi della Convenzione. Richiamando la propria giurisprudenza, la Corte di Strasburgo evidenzia da un lato che la condanna al carcere a vita non è incompatibile con l'art. 3 per il solo fatto che, in astratto, potrebbe essere eseguita per l'intero; dall'altro lato, che la compatibilità con la Convenzione di tale condanna dipende dall'esistenza, in concreto, di una prospettiva di liberazione anticipata del detenuto. L'art. 3, in sostanza, dev'essere interpretato nel senso che le autorità nazionali debbano essere poste in condizione di valutare se nel corso dell'esecuzione della pena siano intervenuti cambiamenti tanto significativi nella vita del ricorrente da risultare espressivi di progressi concreti verso la rieducazione e, per l'effetto, di privare la prosecuzione della detenzione di una giustificazione ragionevole. La Corte europea, ancora una volta, non si esprime circa le forme che tale meccanismo di revisione deve assumere, ma lascia agli Stati un ampio margine di apprezzamento. La violazione, in questo caso, dev'essere riconosciuta, perché la legislazione turca non prevede alcun meccanismo con il quale incidere su una condanna alla pena detentiva perpetua. In nessun caso, conclude la Corte di Strasburgo, l'art. 3 potrebbe essere interpretato nel senso che una sua violazione sarebbe configurabile solo una volta che sia stata già scontata una parte di condanna: laddove la legislazione nazionale non preveda alcuno strumento nel senso indicato, l'incompatibilità con la disposizione convenzionale sorgerebbe ipso facto al momento dell'imposizione della pena vitalizia, e non a una (qualsiasi) successiva fase della sua espiazione. (Andrea Giudici)
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 15 settembre 2015, Milka c. Polonia
La vicenda oggetto della pronuncia trae origine dalle reiterate misure disciplinari imposte al ricorrente nel periodo di espiazione della pena detentiva, frutto di numerose condanne subite. Nel corso del trasferimento da un primo istituto di pena a un secondo carcere, il detenuto rifiutava di sottoporsi alla perquisizione personale disposta dal personale di polizia penitenziaria, opponendo uno strenuo rifiuto, in particolare, a denudarsi per consentire la stessa. Nel medesimo frangente, insultava gli agenti della polizia che gli intimavano di obbedire e veniva conseguentemente sottoposto a una sanzione amministrativa penitenziaria. Il provvedimento disciplinare era impugnato dal detenuto, ma la corte distrettuale rigettava l'appello e confermava l'ulteriore restrizione nelle modalità di esecuzione della pena detentiva. Tre nuovi episodi d'insubordinazione nei confronti del personale di polizia penitenziaria, che ordinava la perquisizione personale, si ripetevano nel corso dell'anno successivo al primo episodio e le decisioni impositive delle nuove sanzioni disciplinari venivano sempre confermate dalla corte distrettuale. In tutti i casi, le perquisizioni non venivano mai eseguite. Nell'adire la Corte europea, il ricorrente lamenta la violazione delle norme di ordinamento penitenziario vigenti all'epoca dei fatti, reputando le perquisizioni imposte arbitrarie ed eccessive, tali da integrare un'indebita forma di intrusione nel nucleo intangibile della vita privata, soprattutto in assenza di valide ragioni per ritenere che il ricorrente costituisse un pericolo per gli altri detenuti in carcere. La Corte accoglie la prospettazione del detenuto in riferimento al parametro di cui all'art. 8 Cedu, valorizzando in pronuncia l'assoluta mancanza di segnali di pericolosità che potessero in qualsiasi modo giustificare la necessità di un'intrusione nella sfera di privatezza e intimità quale quella attinta. Rigetta, di contro, la richiesta proposta sub art. 3 Cedu, negando che, nel caso di specie, si possano configurare trattamenti degradanti ai danni del detenuto, non essendo le perquisizioni personali mai state eseguite. (Enrico Maria Mancuso)
C. eur. dir. uomo, sez. III, dec. 22 settembre 2015, Borcea c. Romania
Rinviato a giudizio con l'accusa di corruzione, un cittadino rumeno, noto uomo d'affari, era assolto dalle accuse in esito al dibattimento di primo grado. Il pubblico ministero proponeva appello e la corte distrettuale condannava l'imputato alla pena di sette anni di reclusione, senza procedere alla nuova audizione dei testimoni già esaminati innanzi al tribunale. La corte di legittimità, adita dall'accusato, cassava la pronuncia con rinvio, reputando violato il diritto al contraddittorio sulla prova proprio in ragione della mancata audizione dei testimoni le cui dichiarazioni erano state poste alla base della pronuncia di condanna. Aperto il giudizio di rinvio, la corte d'appello - pur rinnovando l'istruttoria - rigettava le nuove istanze probatorie presentate dall'accusato, consistenti nella richiesta di assumere una perizia contabile mai sollecitata in precedenza. Nelle more del giudizio di rinvio, entravano in vigore i nuovi codici penale e di procedura penale, che modificavano sia i limiti edittali di pena delle fattispecie oggetto di imputazione, sia il regime della prescrizione del reato. Preso atto delle novità normative, la corte territoriale dichiarava estinto il reato contestato per intervenuta prescrizione, applicando la lex mitior. In sede convenzionale, il ricorrente lamenta anzitutto la violazione del diritto all'equità processuale, a norma dell'art. 6 commi 1 e 3 Cedu, sub specie di diritto alla ragionevole durata del processo, alla contestazione dell'accusa e delle sue modifiche e, più in generale, del diritto alla prova contraria. Si duole, inoltre, dell'inosservanza del principio espresso dall'art. 7 Cedu, per il mancato inserimento - in occasione della riforma del codice penale - di una disciplina intertemporale che possa consentire una corretta applicazione del principio di irretroattività della legge più sfavorevole al reo. Lamenta, infine, la violazione del diritto a un doppio giudizio di merito in caso di condanna, ai sensi dell'art. 2 Prot. n. 7, in seguito all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Tutte le questioni sono dichiarate manifestamente infondate: per la Corte l'ambito d'operatività dell'equità processuale non significa diritto a ottenere in maniera illimitata l'assunzione delle prove richieste, particolarmente quando esse non siano assolutamente necessarie alla decisione, e la piena operatività del principio tempus regit actum in materia processuale impedisce di configurare un vero e proprio diritto al riesame del merito sulla condanna, invocando la disciplina non più vigente. (Enrico Maria Mancuso)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 22 settembre 2015, Ilkin c. Russia
Le condizioni della traduzione dell'imputato in vinculis dal carcere all'aula di udienza, per assistere al processo, sono alla base della prima violazione convenzionale riconosciuta dalla Corte nella pronuncia in esame, che riconosce il mancato rispetto dell'art. 3 Cedu affermando come costituisca trattamento degradante il trasporto del ristretto in mezzi che si trovino in pessime condizioni igieniche, in situazione di sovraffollamento e senza che sia imposto un divieto di fumo, particolarmente quando il tempo impiegato per compiere il tragitto sia particolarmente lungo (circa otto ore per ogni traduzione da e verso il carcere). La natura degradante del trattamento subito dalla persona che si trovi in stato di detenzione, pur provvisoria, deve in altri termini essere valutata in tutti i momenti connessi alla restrizione della libertà personale. Il protrarsi della detenzione provvisoria è l'oggetto della seconda doglianza sottoposta allo scrutinio della Corte: il ricorrente lamenta l'assoluta mancanza della necessità di protrarre la cautela in attesa del processo, viste le condizioni di vita pregresse e l'assenza di esigenze investigative da tutelare, particolarmente a seguito della chiusura delle indagini preliminari. La Corte riconosce la violazione del parametro di cui all'art. 5 comma 3 Cedu, sottolineando in particolare come la mancata indicazione da parte dei giudici delle esigenze da tutelare con la misura restrittiva della libertà personale in sede di proroga della stessa costituisca pacificamente una violazione dei diritti dell'accusato. L'art. 5 comma 4 Cedu è, infine, invocato per far valere il diritto a una pronta revisione del titolo restrittivo da parte del giudice: proposto appello avverso il provvedimento cautelare, l'udienza d'appello era fissata dopo due mesi e cinque giorni dal deposito del gravame, termine considerato dai giudici europei incompatibile con la nozione di tempestività d'accesso alla giurisdizione imposta dalla Cedu. (Enrico Maria Mancuso)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 22 settembre 2015, Niţulescu c. Romania
La pronuncia accoglie il ricorso presentato da una cittadina rumena, pubblico ufficiale accusato di traffico d'influenze illecite da una collega, per aver chiesto a quest'ultima una somma di denaro in cambio di una raccomandazione utile a garantire l'assunzione a tempo indeterminato presso gli uffici comunali. In esito al processo di primo grado, la ricorrente veniva assolta per insufficienza di prove. Il tribunale dichiarava inutilizzabili le registrazioni audio raccolte dalla denunciante nel corso dei colloqui con l'imputata, per la mancata effettuazione di una perizia che attestasse la genuinità dei contenuti della captazione fonica. Anche la corte d'appello confermava la prima decisione, mentre il giudice di legittimità annullava le assoluzioni e, dichiarando pienamente utilizzabili le conversazioni registrate dalla persona offesa, pur in assenza di una perizia tecnica, condannava la ricorrente alla pena di due anni di reclusione. La corte di cassazione, in particolare, poneva alla base della pronuncia di condanna le dichiarazioni acquisite per iscritto nel corso del giudizio di primo grado, pur senza disporre la rinnovazione dell'istruttoria e la citazione dei testimoni, e i contenuti della registrazione operata dalla vittima. La Corte è chiamata a verificare l'equità della procedura ai sensi dell'art. 6 comma 1 Cedu, con particolare riferimento al difetto di contraddittorio sulle prove d'accusa utilizzate per giungere alla condanna. Fugato ogni dubbio circa il mancato rispetto della legge processuale vigente all'epoca del giudizio, la Corte si sofferma sull'effettività del contraddittorio, riconoscendo la sostanziale compressione del diritto al confronto con i testimoni d'accusa. (Enrico Maria Mancuso)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 22 settembre 2015, Rokas c. Grecia
La Corte è adita da un cittadino greco, che alcuni anni prima era stato accusato dai legali rappresentanti di una società per cui aveva prestato la propria opera di aver prima falsificato e poi utilizzato certi atti nell'espletamento delle sue mansioni. All'esito del procedimento penale a suo carico, durato più di sette anni, veniva assolto da tutte le accuse. Già nelle more del giudizio a suo carico, l'imputato denunciava i suoi accusatori per calunnia. Le indagini per tale ipotesi di reato, tuttavia, non venivano svolte e il procedimento per calunnia restava fermo per tutta la durata del giudizio per falso. Chiuso il primo procedimento, dopo un lunghissimo lasso di tempo, il pubblico ministero decideva di chiedere l'archiviazione del procedimento per calunnia, essendo il reato estinto per il decorso del termine di prescrizione. Il ricorrente lamenta la violazione del parametro d'equità processuale, ex art. 6 comma 1 Cedu, in ragione della ingiustificata inerzia delle autorità investigative, che avrebbero dovuto attivarsi al più presto per evitare che il decorso del tempo andasse a suo scapito. La Corte riconosce la sostanziale lesione del diritto di accesso al giudice, essendo stata impedita la tutela di un diritto per effetto di un'ingiustificata inerzia dell'autorità giudiziaria. (Enrico Maria Mancuso)