ISSN 2039-1676


07 ottobre 2015 |

Monitoraggio Corte Edu giugno 2015

 

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Stefano Zirulia e Sara Longo. L'introduzione è a firma di Stefano Zirulia per quanto riguarda gli art. 1, 2, 3, 10 Cedu, mentre si deve a Sara Longo la parte relativa agli art. 6, 8, 13 e 3 Prot. Add. Cedu.

 

1. Introduzione

 

a) Art. 1 Cedu

b) Art. 2 Cedu

c) Art. 3 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 8 Cedu

f) Art. 10 Cedu

g) Art. 13 Cedu

h) Art. 3 Prot. Add. Cedu

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

 

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1. Introduzione

 

a) Art. 1 Cedu

Nel mese di giugno la grande camera della Corte europea si è pronunciata in due occasioni sul tema della giurisdizione degli Stati parte delle Convenzione europea, e dunque sull'ambito di applicazione della Convenzione ratione loci (sent. 16 giugno 2015, Chiragov e altri c. Armenia e Sargsyan c. Azerbaijan). Pur trattandosi di vicende che a rigore risultano estranee alla materia penale, giova comunque richiamarne i profili essenziali, venendo in rilievo le regole che presiedono all'individuazione dello Stato chiamato a farsi garante dei diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione (regole dunque che, come tali, sono destinate a trovare applicazione anche rispetto ai ricorsi aventi rilievo penale). I due casi scaturiscono dalla medesima vicenda storica, ossia la fuga degli Armeni dai territori contesi tra l'Armenia e l'Azerbaijan a cavallo tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90 del secolo scorso. I ricorrenti, tutti cittadini armeni sfollati, lamentano come le forze militari dei due citati paesi tuttora impediscano loro di fare rientro nelle rispettive abitazioni, così violando i diritti sanciti dagli art. 8 e 1 Prot. 1 Cedu (violazioni, nel merito, entrambe riconosciute dalla Corte europea). In via preliminare, i Governi eccepiscono il proprio difetto di giurisdizione sui territori dove si trovano le abitazioni dei ricorrenti, asserendo che, trattandosi di zone contese, manchi l'effettivo controllo e l'esercizio dei poteri pubblicistici caratteristici di uno Stato. La grande camera respinge l'eccezione in entrambi i casi, benché sulla scorta di argomentazioni diverse. Nel caso Sargsyan c. Azerbaijan, i giudici di Strasburgo evidenziano che le abitazioni dei ricorrenti si trovano in una zona riconosciuta a livello internazionale come territorio dell'Azerbaijan, circostanza che fa scattare una presunzione relativa di giurisdizione a favore di ricorrenti, con onere della prova contraria in capo allo Stato. Nel caso di specie, prosegue la Corte europea, l'Azerbaijan si è limitato ad evidenziare delle difficoltà di controllo della zona (in ragione della presenza, sulla riva opposta del fiume, di truppe armene e campi minati), ma non ha dimostrato la sussistenza di circostanze di carattere eccezionale che sole avrebbero consentito di applicare la dottrina della cd. limited responsibility, così escludendone la "giurisdizione" su quella porzione di territorio ai fini dell'applicazione della Convenzione europea. Nel caso Chiragov e altri c. Armenia, invece, le abitazioni dei ricorrenti si trovano effettivamente al di fuori del territorio dello Stato (in questo caso, l'Armenia), e precisamente nella contesa, e sedicente autonoma, "Republic of Nagorno-Karabakh". Tuttavia, la Corte europea ritiene sussistenti le condizioni che giustificano, in via eccezionale, l'applicazione della dottrina della extra-territorial jurisdiction, alla luce del documentato sostegno finanziario, logistico e militare fornito dall'Armenia alla piccola repubblica di Nagorno-Karabakh, senza il quale quest'ultima giammai avrebbe potuto resistere per tanti anni ai tentativi di annessione da parte dell'Azerbaijan (in relazione a tale criterio di accertamento della giurisdizione, la Corte europea richiama un recente precedente: grande camera, sent. 19 ottobre 2012, Catan e altri c. Moldavia e Russia). In conclusione, pur scaturendo dalla medesima vicenda storica e pur pervenendo al medesimo esito decisorio (sussistenza della giurisdizione), le due pronunce della grande camera si basano su principi e schemi di ragionamento tra loro speculari: nel primo caso, a fronte dell'invocazione da parte dello Stato di una situazione eccezionale tale da giustificare la propria limited responsibility rispetto ad una porzione del proprio territorio, la Corte europea applica la regola generale che fa coincidere la giurisdizione dello Stato con i suoi confini territoriali riconosciuti a livello internazionale; nel secondo caso, viceversa, a fronte dell'invocazione da parte dello Stato della regola generale appena ricordata, e dunque dell'allegato difetto di giurisdizione in ordine a quanto accaduto al di fuori dei propri confini nazionali riconosciuti, la Corte europea riconosce la sussistenza dei presupposti che fanno scattare la regola eccezionale della extra-territorial jurisdiction.

 

b) Art. 2 Cedu

La bioetica e il problema del fine-vita sono al centro della importante sent. 5 giugno 2014, Lambert e altri c. Francia (per una sintesi, v. infra), con la quale la grande camera ha dichiarato insussistente la violazione dell'art. 2 Cedu in un caso in cui era stata decisa (benché non ancora attuata, in ragione dell'opposizione di alcuni famigliari del paziente) l'interruzione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali ad un paziente in stato vegetativo. Il compito della Corte europea, adita dai famigliari dissenzienti, consisteva nel valutare se la decisione di interrompere il trattamento salvavita, assunta dai medici e ritenuta conforme alla legge francese in materia di fine-vita dalle competenti giurisdizioni interne (il Conseil d'Etat), fosse o meno compatibile con il diritto alla vita così come tutelato dalla Convenzione europea (diritto che, come è noto, viene in rilievo non soltanto nei casi in cui l'evento morte si sia effettivamente verificato, ma anche laddove sussista un rischio immediato per la vita). Pur trattandosi dunque di un ricorso avente ad oggetto una situazione regolata dalla legge amministrativa, pare evidente che i principi affermati dalla Corte europea possano avere rilievo anche laddove si profilino questioni di responsabilità penale, come avvenuto in Italia nei noti casi Welby ed Englaro. Dopo avere premesso che nel caso di specie non venivano in rilievo gli obblighi negativi di astensione dal togliere illegittimamente la vita (consistendo infatti l'interruzione in un mero non facere, diverso dall'eutanasia vera e propria), la Corte europea esamina la questione sotto l'angolo degli obblighi positivi discendenti dall'art. 2 Cedu, giungendo infine a respingere il ricorso dei famigliari contrari all'interruzione, alla luce di tre ordini di considerazioni: l'esistenza di una normativa nazionale in materia di fine vita, contenente una disciplina chiara e non esorbitante il margine di apprezzamento concesso agli Stati in questa delicata materia; il coinvolgimento dei famigliari nel procedimento alla base della decisione interruttiva, teso a ricostruire la volontà effettiva del paziente; la disponibilità di efficaci vie di ricorso interne per il riesame in sede giurisdizionale della decisione interruttiva stessa.

Mentre nel caso appena esaminato il rischio immediato per la vita del paziente era ictu oculi evidente, lo stesso non può dirsi nel caso oggetto della sent. 23 giugno 2015, Selahattin Demirtas c. Turchia, dove infatti la Corte europea ha ritenuto insussistente l'obbligo positivo di tutelare la vita del ricorrente, membro di un partito filo-curdo, il quale asseriva di trovarsi in pericolo di vita a causa della pubblicazione di un articolo  che lo aveva definito "assassino" e "nemico della Turchia". A giudizio della Corte europea, il ricorrente non aveva in alcuno modo dimostrato di trovarsi effettivamente sotto minaccia a causa della pubblicazione dell'articolo, tanto è vero che la sua doglianza nei confronti della Turchia non riguardava l'omessa predisposizione di misure di protezione a suo favore, bensì il fatto che il giornalista autore dell'articolo non fosse stato sanzionato penalmente.

A differenza delle due precedenti, la terza pronuncia di questo mese avente ad oggetto il diritto alla vita rileva una violazione dell'art. 2 Cedu da parte dello Stato. In particolare, con la sent. 18 giugno 2015, Fanzyieva c. Russia la Corte europea si trova a decidere un caso che per i giuristi italiani potrebbe essere definito "tipo Pinelli", trattandosi della morte di una persona a seguito di caduta dalla finestra della stazione di polizia nella quale si trovava trattenuta in stato di arresto. Da un lato i giudici di Strasburgo negano che via sia stata violazione degli obblighi negativi discendenti dall'art. 2 Cedu, ritenendo sul punto  che la ricostruzione più verosimile sia quella fornita dalle autorità, ossia il fatto che la vittima sia accidentalmente caduta mentre cercava di fuggire dalla finestra; dall'altro lato, e per converso, affermano che le stesse autorità sono venute meno all'obbligo positivo di tutelare la vita della persona in stato di arresto, avendola lasciata da sola in una stanza al secondo piano e dotata di finestra priva di inferriate.

 

c) Art. 3 Cedu

Le pronunce in materia di art. 3 Cedu pronunciate in questo mese hanno ad oggetto casi sostanzialmente ripetitivi nel case-law di Strasburgo, e ribadiscono principi ormai consolidati: sent. 11 giugno 2015, Tychko c. Russia (per una sintesi, v. infra) (violazione, in ragione del sovraffollamento carcerario); sent. 18 giugno 2015, Fanzyieva c. Russia (violazione sostanziale e procedurale, in ragione dell'ingiustificata violenza inflitta dalle forze dell'ordine ad una persona in stato di arresto); Ushakov e Ushakova c. Ucraina (per una sintesi, v. infra) (violazione sostanziale e procedurale,  in ragione della violenza inflitta dalle forze dell'ordine al fine di estorcere una confessione); Mehdiyev c. Azerbaijan (violazione solo procedurale, in un caso di police brutality); sent. 2 giugno 2015, Oudabour c. Belgio, 4 giugno 2015, J.K. e altri c. Svezia e 30 giugno 2015, A.S. c. Svizzera (tutte e tre riguardanti casi di divieto di refoulement basato sull'art. 3 Cedu).

 

d) Art. 6 Cedu

Sul versante dell'equità processuale, la sent. 11 giugno 2015, Tychko c. Russia (per una sintesi, v. infra) accerta la violazione dell'art. 6 Cedu per l'irragionevole durata del procedimento penale cui è stato sottoposto il ricorrente: nonostante la complessità della vicenda, otto anni, due mesi e cinque giorni dall'arresto alla condanna in secondo grado non appaiono giustificabili, considerato altresì che i ritardi sono da ascrivere alla condotta delle autorità procedenti.

Con la dec. 2 giugno 2015, Kuokkanen e Johannesdahl c. Finlandia (per una sintesi, v. infra), la Corte europea viene investita del sindacato sul divieto di reformatio in peius. In particolare, a seguito dell'impugnazione straordinaria dei ricorrenti, la sentenza emessa nei loro confronti viene annullata per l'incapacità di uno dei giudici del collegio, in quanto prevenuto. Il procedimento viene così rimesso ad altro collegio e tutte le accuse nei confronti dei ricorrenti riesaminate integralmente: a questo punto i ricorrenti lamentano la violazione del divieto di reformatio in peius rispetto ai capi della sentenza non impugnati, adducendo l'erronea applicazione della legge nazionale. Rilevando, però, che i giudici nazionali hanno adeguatamente esaminato la doglianza e l'hanno respinta motivando in maniera ragionevole, la Corte europea dichiara il ricorso non ricevibile, senza affrontare il problema della riconducibilità del divieto di reformatio in peius alla nozione di equo processo.

In tema di diritto di difesa, la sent. 18 giugno 2015, Ushakov e Ushakova c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), riconosce la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, per essersi la condanna di uno dei ricorrenti basata, seppur in maniera non determinante, sulla confessione resa dallo stesso nel corso dell'interrogatorio di polizia, condotto in violazione dell'art. 3 Cedu.

Con riguardo alla presunzione d'innocenza ex art. 6 comma 2 Cedu, con la sent. 16 giugno 2015, Dicle e Sadak c. Turchia (per una sintesi, v. infra), il giudice europeo ha accolto la doglianza dei ricorrenti. Questi, condannati in esito ad un procedimento giudicato iniquo dalla stessa Corte di Strasburgo, sono stati sottoposti a un nuovo giudizio nel corso del quale, però, il collegio giudicante ha continuato ad indicarli con il termine "condannati". Non solo, nonostante la riapertura del processo, la prima condanna non è mai stata cancellata dal casellario giudiziale dei ricorrenti.

 

e) Art. 8 Cedu

In ordine al diritto alla privatezza, con la sent. 30 giugno 2015, Khoroshenko c. Russia (per una sintesi, v. infra), la Corte europea ne accerta la violazione per esser stato il ricorrente sottoposto, per i primi dieci anni di esecuzione della pena detentiva, a un regime detentivo speciale, che accordava la visita di due soli familiari una volta ogni sei mesi. Trattandosi di una restrizione derivante solo dal carattere perpetuo della condanna, l'ingerenza risulta sproporzionata.

 

f) Art. 10 Cedu

Catalogata tra i case reports della Corte europea, la sent. 16 giugno 2015, Delfi AS c. Estonia (per una sintesi, v. infra) si candida a diventare un punto di riferimento nella giurisprudenza sui confini tra diffamazione ed esercizio della libertà di espressione via internet. Per la prima volta, infatti, la Corte europea è stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla compatibilità tra la libertà sancita dall'art. 10 Cedu e la condanna della società titolare di un quotidiano online a risarcire il danno morale cagionato dai contenuti minacciosi e diffamatori riconducibili - non già agli articoli pubblicati sul sito, bensì - ai commenti postati in calce agli articoli da lettori-utenti anonimi, registrati con uno pseudonimo (cd. user-generated expressive activity). Pur trattandosi di una pronuncia a rigore riguardante la materia civile, i principi affermati dalla Corte europea in ordine alla portata dell'art. 10 Cedu potrebbero acquisire rilievo anche rispetto ai casi di responsabilità penale. La stessa Corte europea, del resto, laddove ricostruisce il quadro della propria giurisprudenza sul bilanciamento tra il diritto alla reputazione e  quello all'anonimato su internet (quest'ultimo sub specie di elemento che contribuisce a garantire la libertà di espressione), richiama mutatis mutandis un precedente relativo alla materia penale (cfr. §§ 148-149, dove viene richiamata la sent. 2 dicembre 2008, K.U. c. Finlandia:): il che, ferme naturalmente restando le specificità dei giudizi a quo, e l'eventuale impatto di tali specificità sul piano del giudizio di bilanciamento tra libertà di espressione e reputazione, suggerisce come nella materia in esame la Corte europea tenda ad affrontare le questioni superando i rigidi steccati che distinguono le diverse discipline del diritto. Nel merito del caso di specie, a maggioranza di quindici voti contro due, la grande camera ha confermato il verdetto di primo grado, ritenendo non sussistente la violazione lamentata dalla società ricorrente, dal momento che l'interferenza con la libertà di espressione risultava conforme ai parametri di cui all'art. 10 comma 2 Cedu, ed in particolare risultava "necessaria in una società democratica", in quanto - tra l'altro - la società non aveva predisposto un adeguato meccanismo di filtro preventivo dei commenti, bensì solo un sistema di controllo ex post, oltretutto non sufficientemente rapido se si considera che i commenti erano rimasti online per 6 settimane; inoltre la condanna civile del quotidiano online costituiva unico strumento a disposizione della vittima per ottenere il ristoro del danno subito, posto che i nominativi degli autori materiali dei commenti offensivi erano rimasti celati dietro pseudonimo e la società aveva rifiutato di svelarli.

Il diritto alla libertà di espressione ex art. 10 Cedu è oggetto anche della sent. 30 giugno 2015, Peruzzi c. Italia (per una sintesi, v. infra), con cui la Corte europea è tornata sul tema della libertà di critica dell'avvocato rispetto all'operato di un magistrato - tema già oggetto del recentissimo intervento della grande camera nel caso Morice c. Francia, cfr. Cassibba-Zirulia, Monitoraggio Corte edu aprile 2015, in questa Rivista) - escludendo la pretesa violazione addotta dal ricorrente. Quest'ultimo, avvocato, era stato condannato per diffamazione ad una pena pecuniaria (multa di 400 euro), nonché al risarcimento del danno alla reputazione (15.000 euro), per aver inviato, sia al diretto interessato sia agli altri magistrati del tribunale, una lettera di accusa contro un giudice, con cui ne criticava aspramente l'operato e la mancanza di imparzialità. La Corte europea, dopo avere testualmente ribadito i principi affermati nella sent. Morice c. Francia (§§ 51-52), ha ritenuto che mentre la prima dichiarazione del ricorrente (secondo cui il giudice aveva adottato delle decisioni ingiuste ed arbitrarie) era rimasta entro i limiti della critica legittima, lo stesso non poteva dirsi per la seconda dichiarazione (laddove il ricorrente aveva affermato che il giudice aveva "preso partito" e si era sbagliato "volontariamente, con dolo o colpa grave o per imperizia"): tale divergente valutazione in ordine alla legittimità delle due critiche ha avuto come perno motivazionale l'accertamento in ordine all'adeguata base fattuale della dichiarazione, sussistente rispetto alla prima, del tutto assente rispetto alla seconda (§§ 58-60). Inoltre, la Corte europea ha giudicato proporzionati all'offesa sia la pena inflitta al ricorrente (400 euro di multa, oltretutto estinta dall'indulto), sia la quantificazione del danno (15.000 euro).

Si segnala, infine, la sent. 23 giugno 2015, Özçelebi c. Turchia, che ha ritenuto non necessaria in una società democratica la condanna penale ad un anno di carcere (poi non eseguita) inflitta ad un militare che aveva offeso la memoria di Atatürk chiamandolo "testa di montone".

 

g) Art. 13 Cedu

Quanto al diritto a un ricorso interno effettivo, la violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 Cedu è accertata dalla già citata sent. 11 giugno 2015, Tychko c. Turchia (per una sintesi, v. infra), non essendo previsto dall'ordinamento turco alcun rimedio con cui far valere un'eventuale violazione dell'art. 3 Cedu.

Nel caso della sent. 16 giugno 2015, Dicle e Sadak c. Turchia (per una sintesi, v. infra), la violazione del diritto a un ricorso effettivo in combinato disposto con l'art. 3 Prot. add. Cedu, invece, è esclusa perché i ricorrenti hanno potuto impugnare e vedere adeguatamente valutate le decisioni con cui le autorità nazionali hanno compresso il loro diritto all'elettorato passivo.

 

h) Art. 3 Prot. Add. Cedu

Riguardo alla già citata sent. 16 giugno 2015, Dicle e Sadak c. Turchia (per una sintesi, v. infra), è stata accertata la violazione del diritto all'elettorato passivo ex art. 3 Prot. add. Cedu, poiché ai ricorrenti non è stato possibile candidarsi a causa della condanna riportata sul loro casellario, nonostante la stessa fosse stata annullata per iniquità ed il procedimento a loro carico riaperto.

 

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 2 giugno 2015, Kuokkanen e Johannesdahl c. Finlandia

I ricorrenti, condannati con sentenza definitiva, propongono un'impugnazione straordinaria con cui lamentano l'incapacità di uno dei giudici del collegio, in quanto prevenuto. A seguito dell'accoglimento della loro richiesta, la sentenza viene annullata ed il procedimento rimesso ad altro collegio affinché riesamini l'intero procedimento. A questo punto i ricorrenti adducono la violazione del divieto di reformatio in peius rispetto ai capi della sentenza non impugnati, sottoponendo la questione alle autorità nazionali. Queste ultime, ritenendo che la legge finlandese sia stata correttamente applicata rigettano tutte le doglianze. I ricorrenti, invocando l'art. 6 Cedu, adiscono il giudice europeo, lamentando una violazione dell'equità processuale per non essersi il giudizio di revisione informato al criterio - previsto dalla legge nazionale - del divieto di reformatio in peius. La Corte di Strasburgo, tuttavia, non ritiene nemmeno necessario esaminare la doglianza nel merito, e si limita a rigettare la richiesta, poiché la questione dell'operatività del divieto nel caso di specie, afferendo ad una pretesa erronea violazione della legge nazionale, è questione di esclusiva competenza dei giudici interni. Avendo le autorità finlandesi adeguatamente esaminato la doglianza e avendola respinta motivando in maniera ragionevole, il giudice europeo dichiara la non ricevibilità del ricorso. (Sara Longo)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 5 giugno 2015, Lambert e altri c. Francia

I ricorrenti sono due famigliari di Vincent Lambert, un uomo che si trova dal 2011 in stato di semi-incoscienza e dal 2014 in stato propriamente vegetativo, a seguito di un incidente stradale subito nel 2008 e poi seguito da un progressivo ed inesorabile peggioramento del quadro clinico. All'inizio del 2013, constatata la mancata risposta del paziente alle cure somministrate, i medici avviano le procedure previste dalla legge francese in materia di fine-vita (cd. "Leonetti Act" del 2005), al cui esito decidono di sospendere la somministrazione della nutrizione e idratazione artificiali. Prima che la decisione venga eseguita, i ricorrenti si rivolgono al competente tribunale amministrativo territoriale, chiedendo e ottenendo un provvedimento ingiuntivo destinato ai medici curanti e contenente l'ordine di proseguire il trattamento in atto. Qualche mese dopo, gli stessi medici avviano una nuova procedura ai sensi del "Leonetti Act", cercando un maggiore coinvolgimento dei famigliari volto ad ottenere una decisione condivisa. Anche in questo caso, tuttavia, la delibera di interrompere le cure viene bloccata dal tribunale amministrativo, nuovamente adito dai due ricorrenti. A questo punto, gli altri famigliari del paziente impugnano la decisione del tribunale amministrativo dinanzi al Conseil d'Etat, ottenendo una sentenza favorevole all'interruzione dei trattamenti medici. I ricorrenti si rivolgono allora alla Corte europea, sostenendo, tra l'altro, che l'esecuzione della decisione interruttiva delle cure avrebbe comportato la violazione dell'art. 2 Cedu. La grande camera respinge il ricorso sulla scorta di tre ordini di considerazioni, sullo sfondo delle quali ribadisce come, nella materia in esame, gli Stati godano di un significativo margine di apprezzamento: a) l'esistenza di un quadro legislativo e giurisprudenziale, a livello nazionale, sufficientemente chiaro in ordine ai concetti di "trattamento medico" e di "accanimento terapeutico", nonché in ordine agli ulteriori presupposti che rendono legittima l'interruzione del trattamento salva-vita, in primis l'attendibile ricostruzione della volontà del paziente che si trovi in stato di incoscienza (§§ 150-160); b) la circostanza che la decisione di interruzione fosse stata assunta all'esito di un approfondito procedimento regolato dalla legge, nel corso del quale erano stati coinvolti sia medici che famigliari del paziente, e che tale procedimento aveva consentito di accertare la sussistenza di tutti presupposti per la lecita interruzione, tanto quelli di ordine clinico, quanto quelli relativi alle convinzioni etiche del paziente rispetto alla somministrazione di trattamenti salva-vita in situazioni di stato vegetativo, e dunque in definitiva aventi ad oggetto il suo consenso alla prosecuzione del trattamento medico (§§ 161-168; 180); c) l'esistenza di efficaci rimedi interni per contestare la validità della decisione interruttiva, dinanzi a giurisdizioni dotate di poteri sospensivi, le quali si erano pronunciate anche sulla base del parere reso da esperti imparziali, provenienti da enti sanitari di fama nazionale (§§ 169-179). (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 11 giugno 2015, Tychko c. Russia

Il ricorrente viene sottoposto a custodia cautelare presso il carcere di Volgograd, all'interno di celle di circa 30 mq., fornite di otto posti letto, con un minimo di venti ed un massimo di trenta altri detenuti. Non solo, le celle sono prive di acqua corrente ed i servizi igienici non sono separati in alcun modo dal resto dello spazio. Da qui l'accertata violazione dell'art. 3 Cedu ad opera della Corte europea. Allo stesso modo, il giudice europeo accoglie la doglianza del ricorrente per ciò che attiene alle condizioni detentive in occasione delle traduzioni dal carcere al tribunale ed alle celle di sicurezza presso l'aula di udienza. Il trasporto è sempre avvenuto con un unico furgone, su cui viaggiavano venti detenuti alla volta, senza accesso all'aria ed alla luce, sia naturali che artificiali, e sprovvisto di cinture o di altri sistemi di sicurezza; quanto alla detenzione in costanza della celebrazione delle udienze, le celle di sicurezza oltre ad essere sovraffollate, non prevedevano alcuna soluzione per separare i detenuti affetti da gravi malattie infettive dagli altri. La mancata previsione nel sistema russo di qualsiasi rimedio con cui far valere le condizioni della detenzione, comporta poi la violazione dell'art. 13 Cedu in combinato con l'art. 3 Cedu. Infine, sotto il versante dell'equità processuale, la Corte europea accerta pure l'irragionevole durata del procedimento a carico del ricorrente, durato oltre otto anni e due mesi, per due gradi di giudizio. Nonostante la complessità del caso, di per sé insufficiente a giustificare la lentezza del giudizio, per i giudici di Strasburgo, sono state le plurime sostituzioni del collegio giudicante a comportare la durata irragionevole. (Sara Longo)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 16 giugno 2015, Delfi AS c. Estonia

La ricorrente, società che gestisce il più importante sito internet di informazioni in Estonia, viene condannata in sede civile a risarcire il danno subito da un imprenditore, il quale era stato destinatario di commenti a contenuto minaccioso e diffamatorio postati online in calce ad un articolo che lo riguardava. La Corte europea respinge la tesi della ricorrente, secondo la quale la condanna aveva violato il suo diritto alla libertà di espressione, ritenendo al contrario che si fosse trattato di un'interferenza legittima, in quanto: a) "prevista dalla legge" in vigore nello Stato (§§ 120-129); b) rispondente ad una delle finalità tipizzate dall'art. 10 co. 2 Cedu, segnatamente "la protezione della reputazione o dei diritti altrui"; c) "necessaria in una società democratica". Alla base di quest'ultimo giudizio, la grande camera pone le seguenti argomentazioni: aa) la circostanza che la società titolare del sito non avesse rimosso i commenti illeciti di propria iniziativa, ma soltanto a seguito di diffida da parte dei legali di una persona diffamata, dopo ben sei settimane dalla loro comparsa online (§ 141); bb) la natura professionale e commerciale del sito di notizie, e più specificamente la circostanza che la funzione "commenti" rispondesse ad un interesse di tipo economico della società titolare del sito stesso, la quale, lungi dal porsi come un semplice service provider passivo, al contrario invitava i visitatori del sito a commentare le notizie (allo scopo di incrementare il traffico e così anche i proventi derivanti dalla pubblicità) ed al contempo era l'unico soggetto a disporre dei mezzi tecnici per rimuovere i commenti di contenuto illecito (§§ 144-145); cc) l'ineffettività dell'alternativa rappresentata dall'azione civile promossa direttamente nei confronti degli autori dei commenti, non tanto in nome della tutela della loro privacy e dei vantaggi che essa comporta sul piano delle circolazione delle opinioni (sul punto, cfr. §§ 147-149), quanto in ragione del fatto che la società titolare del sito non aveva messo le vittime in condizione di risalire dallo pseudonimo alla vera identità del diffamatore (§ 151); dd) l'omessa predisposizione, da parte della società gestrice del sito, di efficaci meccanismi di filtro preventivo di commenti a carattere minaccioso e diffamatorio, nonché l'insufficiente tempestività dei meccanismi di rimozione ex post (§§152-159); ee) il rapporto di proporzione tra l'offesa lamentata dalla vittima e il danno riconosciutole dalle giurisdizioni nazionali (pari a 320 euro). (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 16 giugno 2015, Dicle e Sadak c. Turchia

Il 26 ottobre 1995 i ricorrenti, deputati del Parlamento turco, sono stati condannati per appartenenza ad un'organizzazione illegale. In data 17 luglio 2001, la Corte europea ha accertato l'iniquità del processo celebrato nei confronti dei ricorrenti, per mancanza d'indipendenza ed imparzialità del collegio giudicante. A seguito della decisione del giudice europeo, il processo penale nei confronti dei ricorrenti è stato riaperto, ma per tutto il giudizio i ricorrenti hanno continuato ad essere indicati dalle autorità procedenti con il termine "condannati". Peraltro, in pendenza del nuovo giudizio, la condanna del 26 ottobre 1995 non è stata cancellata dal casellario giudiziale, circostanza che ha determinato l'incandidabilità dei ricorrenti alle elezioni del 22 luglio 2007. I ricorrenti lamentano anzitutto un pregiudizio al loro diritto ad essere considerati, nel corso del nuovo procedimento, come presunti innocenti. La Corte europea, tenuto conto del contegno delle autorità nazionali e del continuo e costante impiego del termine "condannati", così come della persistente annotazione della condanna dell'ottobre 1995 nel casellario giudiziale, nonostante l'annullamento della stessa, accerta la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu. Nel caso di specie, il giudice europeo ravvisa anche una violazione dell'art. 3 Prot. add. Cedu, poiché, alla luce della legge nazionale turca sull'elettorato passivo, la non candidabilità dei ricorrenti, per la perdurante annotazione della condanna sul casellario giudiziale, non risultava prevedibile.È invece esclusa la violazione dell'art. 13 Cedu in combinato con l'art. 3 Prot. add. Cedu, avendo i ricorrenti potuto proporre impugnazione circa la loro esclusione dalle liste elettorali ed essendo la loro posizione stata adeguatamente valutata dalle autorità nazionali. (Sara Longo)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 18 giugno 2015, Ushakov e Ushakova c. Ucraina

Nel corso di un'indagine per omicidio, la polizia convoca, con un pretesto, i ricorrenti e li sottopone ad un primo interrogatorio. Dopo esser stato sottoposto ad un esame medico, il primo ricorrente è nuovamente interrogato, ma affinché confessi il delitto, è ripetutamente percosso dagli agenti. Il ricorrente conferma la confessione anche all'arrivo del suo difensore, salvo poi ritrattarla dopo nemmeno un'ora. Nel frattempo la seconda ricorrente viene riaccompagnata a casa, dove la polizia conduce una perquisizione illegittima. A questo punto gli agenti la minacciano: o accetta di rilasciare dichiarazioni accusatorie in danno del primo ricorrente o sarà accusata di traffico di stupefacenti, posto che nel corso della perquisizione è stata nascosta della droga nel suo appartamento. Il pubblico ministero, frattanto informato della vicenda, dispone il rilascio del primo ricorrente e avvia un'indagine sull'accaduto. Gli agenti di polizia però, anziché rilasciarlo, lo sequestrano per diverse ore. Nel corso del processo, la confessione resa dal primo ricorrente viene impiegata, sebbene in maniera non determinante, ai fini della condanna dello stesso, senza tenere in considerazione la circostanza che si sia trattato di una confessione estorta. La Corte europea, in forza dei referti medici prodotti, non può che rilevare la violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu. Quanto al profilo processuale, le indagini sui maltrattamenti subiti dai ricorrenti, pur avviate tempestivamente, sono comunque state lente ed ineffettive: da qui un'ulteriore profilo della violazione. Sotto il versante dell'equità processuale, ed in particolare del diritto di difesa, la mancata assistenza del difensore nel corso del primo interrogatorio ha integrato una violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c) Cedu. Analogamente, l'impiego delle confessione, rilasciata in costanza di un interrogatorio condotto in violazione dell'art. 3 Cedu, ai fini della condanna del primo ricorrente non può che esser definita dal giudice di Strasburgo come incompatibile con la nozione di equo processo. (Sara Longo)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 30 giugno 2015, Khoroshenko c. Russia

Dopo aver commutato la condanna del ricorrente dalla pena di morte all'ergastolo, le autorità russe ne hanno disposto il trasferimento in un istituto per ergastolani, stabilendo che, per i primi dieci anni di esecuzione della pena, il ricorrente fosse sottoposto a un regime detentivo speciale, come  previsto ex lege. All'esito del periodo stabilito, il ricorrente è stato riammesso al regime detentivo ordinario. Il ricorrente lamenta una violazione dell'art. 8 Cedu, perché per tutto il periodo di detenzione a regime speciale, ha potuto ricevere la visita di due soli familiari, una volta ogni sei mesi; la durata delle visite era limitata ad un massimo di quattro ore e non c'era alcuna possibilità di un contatto fisico, poiché le visite si svolgevano sempre in stanze con dei divisori di vetro o di metallo. Non solo, i contatti del ricorrente con il mondo esterno erano limitati alla sola corrispondenza scritta, essendogli precluso l'accesso a qualsiasi altro mezzo di comunicazione. La Corte europea, pur avendo accertato che le restrizioni in esame sono previste dalla legge russa, riscontra comunque la violazione dell'art. 8 Cedu, perché l'ingerenza è risultata sproporzionata, essendosi trattato di restrizioni basate esclusivamente sul carattere perpetuo della condanna, applicate in modo automatico, senza alcuna valutazione della situazione soggettiva del ricorrente e senza alcun apprezzamento in concreto. (Sara Longo)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 30 giugno 2015, Peruzzi c. Italia

Il ricorrente, un avvocato, nel settembre 2001 invia una prima lettera al Consiglio superiore della magistratura con la quale si lamenta del comportamento di un giudice del tribunale di Lucca, mentre, con una seconda comunicazione, porta la vicenda alla conoscenza di diversi giudici del medesimo tribunale, senza indicare in modo esplicito il nome del magistrato, ma facendo riferimento al caso giudiziale da cui era scaturita la questione. Il magistrato, destinatario delle "accuse", denuncia il ricorrente per diffamazione, ritenendo che lo stesso non si sia limitato ad esprimere delle critiche circa il suo operato, ma si sia spinto sino al giudizio di valore sulla persona. Il tribunale di prime cure accoglie la tesi del magistrato e condanna il ricorrente. La condanna è confermata anche nei gradi successivi. Il ricorrente adisce la Corte europea lamentando una compressione della libertà di espressone così come garantita dall'art. 10 Cedu. I giudici di Strasburgo, dopo aver ribadito che l'ingerenza de qua è prevista dalla legge e persegue lo scopo legittimo di tutelare l'altrui reputazione altrui e di garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario, ne riconosco pure il carattere necessario. Inoltre, la condanna per diffamazione inflitta al ricorrente non appare essere sproporzionata rispetto agli scopi legittimi perseguiti e le ragioni addotte dai giudici nazionali risultano sufficienti e pertinenti. Ne consegue che non vi è stata violazione dell'art. 10 Cedu. (Sara Longo)