ISSN 2039-1676


29 giugno 2015 |

Monitoraggio Corte Edu aprile 2015

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

 

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Fabio Cassibba e da Stefano Zirulia. L'introduzione è a firma di Fabio Cassibba per quanto riguarda gli art. 5, 6 e 2 Prot. n. 7 Cedu, mentre si deve a Stefano Zirulia la parte relativa agli art. 2, 3, 7, 10 e 11 Cedu.

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu 

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 7 Cedu

f) Art. 10 Cedu

g) Art. 11 Cedu

h) Art. 2 Prot. n. 7 Cedu

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

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1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

Importanti precisazioni in ordine alla portata del diritto fondamentale ad un'indagine indipendente sulle cause di una morte avvenuta in circostanze sospette - diritto a sua volta espressione degli obblighi procedurali discendenti dall'art. 2 Cedu - provengono dalla sent. 14 aprile 2015, Mustafa Tunç e Fecire Tunç c. Turchia (per una sintesi, v. infra).  La grande camera ha infatti chiarito - a quanto ci risulta per la prima volta, e comunque in frontale contrasto con quanto in precedenza stabilito dalla sezione seconda nella sent. 25 giugno 2013, Mustafa Tunç e Fecire Tunç c. Turchia - che l'indipendenza delle indagini non può essere valutata, ai fini dell'art. 2 Cedu, in base ai parametri previsti dall'art. 6 Cedu (§§ 217-234). L'art. 6 Cedu, infatti, richiede che la corte chiamata a decidere il merito di un'accusa sia indipendente dagli altri poteri (legislativo ed esecutivo) e dalle parti in causa; la compliance con questa norma si basa su valutazioni di carattere normativo, quali le regole sulla composizione delle corti o l'adeguatezza delle misure volte a prevenire le pressioni esterne. Per parte sua, l'art. 2 Cedu sancisce la necessaria indipendenza delle indagini, per la cui verifica sono invece più appropriate valutazioni in concreto, tanto in ordine all'identità degli inquirenti (i quali non possono essere i sospetti autori del reato, né i loro stretti colleghi, né i loro sottoposti gerarchici), quanto in ordine alle attività di indagine compiute (ad esempio, è indice di scarsa indipendenza la circostanza di avere omesso atti investigativi di palese utilità per l'accertamento della verità). Fatte queste premesse in punto di rapporti tra le due citate disposizioni, la grande camera si è soffermata più nel dettaglio sulla portata dell'art. 2 Cedu in relazione all'indipendenza delle indagini, enucleando due fondamentali principi: primo, tale norma non richiede che le persone e gli organi preposti alle indagini godano di indipendenza assoluta, bensì soltanto che risultino sufficientemente indipendenti - alla luce di una disamina svolta, come già evidenziato, caso per caso - dalle persone e dagli apparati sospettati di essere coinvolti nel reato (§§ 223); secondo, la verifica in ordine al rispetto del diritto alla vita sotto il profilo procedurale consiste in un giudizio di tipo sintetico, che deve tenere conto, oltre che dell'indipendenza delle indagini, anche della loro adeguatezza e speditezza, nonché del coinvolgimento delle vittime e dei loro famigliari, senza che nessuno di questi parametri sia di per sé decisivo per l'esito della valutazione, gli stessi dovendo piuttosto essere considerati nelle loro reciproche interrelazioni (§ 225). Alla luce di tali principi, la Corte europea ha ritenuto insussistente la violazione lamentata dai ricorrenti, in quanto, benché gli organi inquirenti e giudicanti non fossero  completamente indipendenti, essendo in parte costituiti da personale militare, nel caso di specie non era emerso che tale situazione avesse in qualche modo influenzato la loro decisione, la quale al contrario era stata il frutto di indagini spedite, approfondite e svolte nel rispetto dei diritti dei famigliari della vittima.

Nei restanti casi in cui, questo mese, è venuto in rilievo l'art. 2 Cedu, la Corte europea ha ribadito principi ormai consolidati nella propria giurisprudenza: sent. 9 aprile 2015, Njezic e Stimac c. Croazia (indagini su un sospetto crimine di guerra nell'ambito del conflitto serbo-croato: nessuna violazione); 14 aprile 2015, Tatar c. Svizzera (principio del non refoulement discendente dagli artt. 2 e 3 Cedu: nessuna violazione); 21 aprile 2015, Catalina Filip c. Romania (eccessiva durata del procedimento e difetto di informazioni ai parenti della vittima: violazione procedurale); Pisari c. Repubblica di Moldavia e Russia (uso eccessivo della forza da parte di un soldato russo presso un checkpoint nell'ambito di operazioni di peacekeeping in Moldavia, e inefficacia delle successive indagini: violazione sostanziale e procedurale); 28 aprile 2015, Sultan Dolek e altri c. Turchia (omissione di atti di indagine di evidente necessità ed utilità per accertare l'accaduto: violazione procedurale). Come di consueto, infine, si segnalano alcuni casi "classici" di scomparsa di ceceni per mano della Russia: sent. 2 aprile 2015, Ireziyevy c. Russia; 23 aprile 2015, Kagirov c. Russia; Khava Aziyeva e altri c. Russia; 30 aprile 2015, Islamova v. Russia.

 

b) Art. 3 Cedu

È di questo mese l'attesissima pronuncia sui fatti della scuola Diaz accaduti nel 2001 durante il G8 di Genova (sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia), della quale questa Rivista ha già dato ampiamente conto (cfr. Viganò F., La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano; Cassibba F., Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola "Diaz-Pertini"). All'unanimità la Corte europea ha affermato che i feroci e gratuiti pestaggi perpetrati dalle forze dell'ordine italiane durante quella notte hanno integrato atti di tortura ai sensi dell'art. 3 Cedu, e la successiva impunità di cui hanno beneficiato gli autori materiali delle condotte (mai indentificati, cfr. §§ 214-217), nonché i loro superiori gerarchici e di coloro che potevano a vario titolo considerarsi concorrenti (nessuno dei quali è stato condannato in relazione alle violenze inflitte alle vittime, in ragione della sopravvenuta prescrizione dei reati, cfr. §§ 218-226), ha comportato altresì una violazione della stessa norma sotto il profilo procedurale. Si tratta di affermazioni di grande rilievo, anzitutto, dal punto di vista dell'accertamento della verità, nel contesto di una delle pagine più fosche della storia italiana del dopoguerra. In secondo luogo, è significativo che la Corte europea abbia evidenziato come le riscontrate violazioni procedurali non siano scaturite da ritardi imputabili alla magistratura - la quale, al contrario, ha condotto le indagini e le fasi processuali con la dovuta speditezza, anche tenendo conto dell'estrema complessità del caso - bensì alle carenze strutturali della legislazione italiana in ordine alla prevenzione ed alla repressione penale dei fenomeni di tortura. La sentenza ha pertanto invitato il nostro paese a dotarsi quanto prima di un apparato normativo idoneo ad adempiere agli obblighi di incriminazione discendenti dall'art. 3 Cedu, che tenga conto, tra l'altro, della necessità di evitare che gli sforzi profusi dalle magistrature vengano inficiati dalla prescrizione del reato (§§ 239-246).

Principi consolidati, in relazione a tipologie di ricorsi assai frequenti nella casistica della corte, sono stati ribaditi nelle seguenti pronunce: sent. 2 aprile 2015, Aarabi c. Grecia (trattenimento di un richiedente asilo nelle more della procedura amministrativa e pendente un provvedimento di espulsione: nessuna violazione); Kirpichenko c. Ucraina (maltrattamenti intenzionalmente inferti ad un detenuto: violazione sostanziale e procedurale); 7 aprile 2015, Adrian Radu c. Romania; 28 aprile 2015, Cojan v. Romania (entrambe in materia di sovraffollamento carcerario in Romania: violazione sostanziale); 16 aprile 2015, Papastavrou c. Grecia (erogazione di cure mediche in un penitenziario: nessuna violazione); 28 aprile 2015, Basturk c. Turchia (difetto di indagini effettive in un caso di aggressione fisica da parte di terzi privati: violazione procedurale); Doroseva c. Repubblica di Moldavia (difetto di indagini effettive in un caso di maltrattamenti durante un arresto: violazione sostanziale e procedurale).

 

c) Art. 5 Cedu

Il tema della legalità della detenzione è considerato, anzitutto, dalla sent. 2 aprile 2015, Orlovsky c. Ucraina, che accerta la violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu in un caso in cui il mantenimento per un mese della custodia cautelare è stato motivato dalla necessità di trasmettere il fascicolo al giudice del dibattimento. Un'identica violazione è, poi, accertata dalla sent. 16 aprile 2015, Gal c. Ucraina (per una sintesi v. infra).

Quest'ultima pronuncia, inoltre, reputa violato l'art. 5 comma 1 Cedu (anche in rapporto all'art. 5 comma 3 Cedu) sotto un ulteriore, duplice profilo: da un lato, la mancata presentazione del ricorrente in stato di arresto di fronte al giudice entro il termine di settantadue ore imposto dalla legge nazionale; dall'altro, l'iniziale mancanza di giustificazione della custodia cautelare disposta dal giudice in sede di convalida dell'arresto. Sullo stesso versante, la sent. 28 aprile, Delijorgji c. Albania accerta la violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu in un caso in cui il ricorrente - che, secondo la legge nazionale, avrebbe potuto essere mantenuto in custodia cautelare "in pendenza del dibattimento" per al massimo un anno - ha subito la privazione della libertà personale complessivamente per circa due anni (prima, in custodia cautelare, poi, agli arresti domiciliari) senza giustificazione.

La durata ragionevole della custodia cautelare ex art. 5 comma 3 Cedu è reputata violata dalla già rammentata sent. 2 aprile 2015, Orlovsky c. Ucraina, sul presupposto che la gravità delle accuse e la complessità del procedimento non possono giustificare una detenzione provvisoria protrattasi ininterrottamente per più di cinque anni dall'arresto alla condanna in primo grado.

Quanto all'effettività del diritto dell'accusato al controllo giurisdizionale sulla legalità della detenzione, la medesima sent. 2 aprile 2015, Orlovsky c. Ucraina, accerta la violazione anche dell'art. 5 comma 4 Cedu poiché la proroga della detenzione in vista della trasmissione del fascicolo al giudice del dibattimento recava una motivazione stereotipata. Sul medesimo versante protetto dall'art. 5 comma 4 Cedu, la già rammentata sent. 16 aprile 105, Gal c. Ucraina, esclude che violi l'art. 5 comma 4 Cedu la decisione del giudice sull'eccezione del difensore (relativa all'avvenuto decorso del termine di durata massima della privazione provvisoria della libertà personale), depositata sette giorni dopo l'udienza di convalida in cui l'eccezione era stata sollevata, poiché un simile intervallo temporale, dall'udienza al deposito della decisione, non può dirsi irragionevole. Dal canto loro, le sent. 28 aprile, Delijorgji c. Albania, Maslák c. Slovacchia e Šablij c. Slovacchia, accertano la violazione dell'art. 5 comma 4 Cedu, in rapporto all'irragionevole durata del procedimento incidentale de libertate: l'istanza di liberazione del ricorrente è stata oggetto di decisione, rispettivamente, più di novanta giorni (nei primi due casi) e più di centocinquanta giorni (nel terzo caso) dal relativo deposito.

 

d) Art. 6 Cedu

Sul versante della tutela dell'equità processuale, ex art. 6 comma 1 Cedu, va anzitutto segnalata - anche per il grande rilievo politico e mediatico che la vicenda ha avuto (e continua ad avere) - la sent. 23 aprile 2015, Morice c. Francia (per una sintesi, v. infra). La Grande camera ha qui riconosciuto la violazione della previsione convenzionale in parola, sotto il profilo della mancanza d'imparzialità del giudice in senso soggettivo: il collegio di Cassazione, che ha confermato la condanna emessa in primo grado nei confronti del ricorrente per il delitto di diffamazione, era composto anche dal giudice M., già aspramente e pubblicamente criticato dal ricorrente in ordine alla conduzione dell'istruzione nell'ambito di un separato (e delicatissimo) processo in cui il ricorrente medesimo rappresentava, quale avvocato, le parti civili. Posto che da quelle critiche - ricondotte dalla Corte europea all'esercizio del diritto costituzionale di difesa - era scaturito il procedimento penale per diffamazione, i giudici europei ritengono fondato il timore del ricorrente circa l'assenza d'imparzialità del giudice M. in qualità di componente del collegio investito del giudizio di ultima istanza a proposito della correttezza della condanna per diffamazione.

Sempre con riguardo alla tutela dell'equità processuale ex art. 6 comma 1 Cedu, va rammentata la sent. 7 aprile 2015, O'Donnell c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra), che ha escluso la violazione della previsione in discorso in rapporto all'impiego a fini di prova, da parte della giuria, del silenzio dell'imputato quale elemento probatorio per trarre inferenze positive circa la colpevolezza, in una vicenda in cui la responsabilità penale dell'imputato era, peraltro, solidamente fondata sul complesso delle prove acquisite.

Ancora sul versante dell'art. 6 comma 1 Cedu (esaminato anche in rapporto all'art. 6 comma 3 Cedu), viene poi in gioco la sent. 30 aprile 2015, Yaremenko c. Ucraina (n. 2) (per una sintesi, v. infra). Per i giudici di Strasburgo, viola l'equità processuale l'impiego probatorio, nell'ambito di un giudizio nazionale di revisione del giudicato, del materiale già acquisito nel corso del precedente giudizio interno concluso con la condanna, di cui la Corte europea aveva, nel frattempo, accertato l'iniquità, perché le prove a base della decisione passata in giudicato erano state acquisite in violazione dei diritti riconosciuti all'accusato dall'art. 6 comma 3 Cedu.

Quanto alla tutela della presunzione d'innocenza, merita segnalare la sent. 30 aprile 2015, Kapetanios c. Grecia (per una sintesi, v. infra): viola il canone dell'art. 6 comma 2 Cedu la condanna dei ricorrenti - già assolti all'esito di un giudizio penale - pronunciata nell'ambito dell'autonomo procedimento amministrativo-penale, concluso successivamente alla definizione della vicenda penale.

Venendo, poi, alla tutela offerta dall'art. 6 comma 3 lett. c Cedu, la sent. 9 aprile 2015, Vamvakas c. Grecia (n. 2) (per una sintesi, v. infra), reputa violato il diritto alla difesa tecnica: contravviene al dovere dell'autorità pubblica di assicurare una difesa effettiva la mancata designazione, da parte del giudice, di un nuovo difensore d'ufficio in un caso in cui, nonostante l'ingiustificata, mancata partecipazione all'udienza in Cassazione del difensore d'ufficio, l'autorità procedente ha egualmente definito il giudizio in quella medesima udienza. Inoltre, la sent. 9 aprile 2015, A.T. c. Lussemburgo (per una sintesi, v. infra), reputa violata l'identica norma convenzionale in rapporto alla mancata partecipazione del difensore all'interrogatorio svolto dalla polizia. Un'analoga violazione è accertata pure dalla sent. 28 aprile 2015, Galip DoÄŸru c. Turchia, con riguardo all'interrogatorio svolto dalla polizia nei confronti del ricorrente condotto, in stato di arresto, sul luogo del fatto. Inoltre, stando ancora alla sent. 9 aprile 2015, A.T. c. Lussemburgo, viola l'art. 6 comma 3 lett c Cedu il mancato riconoscimento del diritto del ricorrente di colloquiare col difensore prima dell'interrogatorio svolto dal giudice istruttore. Per la medesima sentenza, poi, il mancato riconoscimento del diritto di accesso al fascicolo in favore della difesa prima dell'interrogatorio svolto dal giudice istruttore, coerente con le ragionevoli limitazioni al diritto in parola poste dalla legge nazionale a tutela delle indagini, non pregiudica la difesa tecnica in sede d'interrogatorio.

 

e) Art. 7 Cedu

Un nuovo tassello nella giurisprudenza della Corte europea relativa divieto di retroattività della norma penale sfavorevole è rappresentato dalla sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia (n. 3) (cfr. Civello Conigliaro S., La Corte EDU sul concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso: primissime osservazioni alla sentenza Contrada, in questa Rivista), particolarmente interessante per il giurista italiano in ragione della centralità di una figura da sempre controversa quale il concorso esterno in associazione mafiosa. Il ricorrente lamenta a Strasburgo che i fatti per i quali è stato condannato in via definitiva - consistiti nel fornire a Cosa Nostra informazioni in merito allo svolgimento di indagini che vedevano coinvolti membri dell'associazione, informazioni alle quali Contrada aveva accesso in ragione del suo ruolo dirigenziale nel SISDE - erano stati commessi in un periodo (1979-1988) nel quale ancora non esisteva una nozione giurisprudenziale chiara e precisa di "concorso esterno", giacché ad essa si sarebbe arrivati soltanto nel 1994 con le Sezioni Unite Demitry. La Corte europea accoglie il ricorso, ribadendo i propri consolidati principi in ordine alla portata dell'art. 7 Cedu (con testuali richiami al fondamentale precedente rappresentato dalla sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, sulla quale cfr. Mazzacuva F., La Grande Camera della Corte EDU su principio di legalità della pena e mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli, in questa Rivista; principi da ultimo ribaditi, benché con esito decisionale opposto rispetto alla vicenda concreta, nella sent. sent. 15.1.2015, Rohlena c. Repubblica Ceca, cfr. Finocchiaro-Mancuso, Monitoraggio Corte Edu Gennaio 2015, in questa Rivista), ed in particolare riaffermando come la prevedibilità e l'accessibilità del precetto penale discendano (anche) dall'attività interpretativa dei giudici, soprattutto nei casi in cui, come quello di specie, si ha a che fare con figure di reato aventi origine pacificamente giurisprudenziale (§§ 60-65). Ne segue, del tutto logicamente, che non può considerarsi conforme al nullum crimen una condanna per fatti commessi quando la loro rilevanza penale non era stata ancora definita a livello giurisprudenziale in maniera sufficientemente chiara (§§ 66-77).

 

f) Art. 10 Cedu

Il tema dei confini tra libertà di espressione del giornalista e diffamazione a mezzo stampa è al centro della sent. 16 aprile 2015, Armellini e altri c. Austria, relativa ad un articolo nel quale venivano denunciati specifici episodi di corruzione nell'ambito di attività sportive (per una sintesi, v. infra). La Corte europea è stata chiamata a valutare se le sanzioni penali pecuniarie inflitte agli autori dell'articolo, nonché la sanzione civile del risarcimento del danno imposta alla società editrice del quotidiano, potessero considerarsi "necessarie in una società democratica", presupposto cui l'art. 10 Cedu subordina la legittimità delle compressioni alla libertà di espressione. Sulla scorta di un iter argomentativo sostanzialmente ricognitivo della propria consolidata giurisprudenza in materia (cfr. sent. 26 aprile 1979, The Sunday Times c. Regno Unito (n. 1); 15 novembre 2007 Pfeifer c. Austria;  7 febbraio 2012, Axel Springer AG c. Germania), la Corte europea è pervenuta al rigetto del ricorso dei giornalisti: i giudici di Strasburgo, in primo luogo, hanno sottolineato il fatto che, trattandosi di un articolo fortemente lesivo della reputazione delle persone menzionate, esso necessitava una "solida base fattuale", assente nel caso di specie; in secondo luogo, hanno valorizzato la proporzionalità delle sanzioni inflitte (dell'ordine di qualche migliaio di euro) con la gravità dell'episodio.

Con la sent. 23 aprile 2015, Morice c. Francia (per una sintesi, v. infra; inoltre v. supra per i profili attinenti alla violazione dell'art. 6 Cedu) la grande camera della Corte europea è intervenuta sul tema dei limiti del diritto di critica dell'avvocato nei confronti dell'operato di un magistrato. In termini generali, i giudici di Strasburgo hanno evidenziato come, se da un lato l'esercizio legittimo del diritto di critica non può estendersi fino a minare l'immagine di imparzialità del sistema giudiziario e dunque la fiducia in esso dei consociati, dall'altro lato è pure vero che la magistratura rappresenta un'istituzione fondamentale dello Stato, sicché il diritto di critica nei confronti dell'operato dei suoi esponenti corrisponde ad un interesse pubblico, e gode di limiti più ampi di quello esercitabile nei confronti dei normali cittadini, purché la critica non si traduca in "attacchi gravemente lesivi e infondati" ("gravely damaging attacks that are essentially unfounded", §§ 131). Allo stesso tempo, la Corte europea ha posto l'accento sulla centralità dell'avvocato nell'amministrazione della giustizia, e in particolare sul ruolo chiave di tale figura professionale nella funzione di intermediazione tra i consociati e gli organi giurisdizionali, e dunque anche nel mantenimento della fiducia dei primi verso i secondi. Tale ruolo si traduce, secondo la Corte europea, anche sul piano della libertà di critica rispetto all'operato della magistratura e più in generale al funzionamento della giustizia, libertà che può essere esercitata con ampio margine sia all'interno che all'esterno dell'udienza (ad esempio nel corso di un'intervista, come nel caso di specie), fermi restando i limiti di carattere deontologico fissati dal CCBE (Council of Bars and Law Societies of Europe) (§§ 132-139), essenzialmente diversi da quelli gravanti sul giornalista, in ragione delle differenze di fondo tra tale figura professionale e quella dell'avvocato (§§ 148). Con riferimento al caso di specie, la Corte europea ha ritenuto che la condanna penale del ricorrente non potesse considerarsi "necessaria in una società democratica", giacché l'avvocato era intervenuto su una questione al centro del dibattito pubblico (§§ 150-153), aveva espresso un'opinione dotata di adeguata base fattuale (§§ 154-161), ed il suo intervento, valutato alla luce di tutte le circostanze del caso di specie, aveva consentito di evidenziare gravi carenze nella conduzione delle indagini, senza peraltro compromettere l'esercizio della funzione giurisdizionale (§§ 162-170). Infine, nel solco della propria consolidata giurisprudenza in materia, la Corte europea ha preso in considerazione anche i profili della natura e della severità della sanzione irrogata al ricorrente, ribadendo il dovere di self-restraint degli Stati rispetto all'utilizzo del diritto penale in materia di libertà di espressione: con riferimento al caso di specie, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la sanzione pecuniaria di 4000 euro fosse di per sé eccessiva e dunque comportasse quel rischio di chilling effect idoneo a porla in contrasto con la tutela offerta dall'art. 10 Cedu (§§ 175-176).

 

g) Art. 11 Cedu

Con la sent. 14 aprile 2015, Lutfiye Zengin e altri c. Turchia, la Corte europea torna sul tema delle limitazioni alla libertà di riunione che possono essere legittimamente disposte dagli Stati, con particolare riferimento ad un episodio di dispersione di un assembramento non autorizzato, seguito dall'arresto e della detenzione per oltre un mese di alcuni manifestanti. La Corte europea, accogliendo il ricorso di una manifestante, dichiara l'illegittimità dell'operazione condotta dalle forze dell'ordine turche sotto il profilo del difetto del requisito della "necessità in una società democratica". Ciò in quanto, osserva la Corte europea, anzitutto l'assembramento non presentava alcun sintomo di pericolosità per l'ordine pubblico (a tal fine non essendo sufficiente - evidenzia significativamente la pronuncia richiamando il proprio precedente di cui alla sent. 9 aprile 2002, Cisse c. Francia - la circostanza che si trattasse di una manifestazione non autorizzata e quindi illegale); in secondo luogo, le pesanti contromisure adottate dall'autorità di pubblica sicurezza risultavano sproporzionate rispetto alle finalità di mero ripristino della legalità perseguite (cfr. sent. 17 maggio 2011, Akgol e Gol c. Turchia; 18 giugno 2013, Gun e altri c. Turchia).

 

h) Art. 2 Prot. n. 7 Cedu

Con la già rammentata sent. 30 aprile 2015, Kapetanios c. Grecia (v. supra, lett. d), la Corte europea - nel solco di un consolidato indirizzo interpretativo in ordine alla portata dell'art. 2 Prot. n. 7 Cedu - accerta la violazione della garanzia del ne bis in idem in un caso in cui, passata in giudicato l'assoluzione dei ricorrenti per un reato tributario, questi ultimi sono stati condannati in sede amministrativa-penale per i medesimi fatti.    

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 7 aprile 2015, O'Donell c. Regno unito

All'esito di un giudizio con giuria, l'imputato è condannato, traendosi inferenze positive sulla responsabilità penale dal suo esercizio del diritto al silenzio. Dinanzi alla Corte europea, il ricorrente reputa che la condanna sia stata pronunciata in violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, in forza della valorizzazione in chiave accusatoria del silenzio. Per i giudici di Strasburgo la doglianza non è fondata: anzitutto, il quadro probatorio contro il ricorrente era, comunque, solidamente orientato nel senso della colpevolezza, indipendentemente dalle inferenze tratte dalla scelta dell'imputato di rimanere in silenzio dinanzi all'autorità procedente; inoltre, la scelta del giudice di non fornire alla giuria specifiche istruzioni a proposito del valore probatorio da assegnare al silenzio dell'imputato è compatibile con la legge nazionale. Cosicché, valutato nel suo complesso, il processo risulta iniquo. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 aprile 2015, A.T. c. Lussemburgo

Durante la fase istruttoria in un processo per furto e oltraggio al pudore nei confronti di una vittima minorenne, l'imputato, in stato di arresto, è interrogato dalla polizia in presenza di un interprete ma in assenza del difensore. Successivamente, egli, ancora in stato di arresto, è interrogato dal giudice istruttore, in presenza di un interprete e del difensore d'ufficio, al quale, peraltro, era stato impedito di prendere visione del fascicolo prima dell'interrogatorio e di avere un colloquio con l'assistito. All'esito del giudizio, l'imputato è condannato, ritenendo il giudice di primo grado attendibili le dichiarazioni della vittima, ma non attendibili quelle dell'imputato, che nei diversi interrogatori aveva reso versioni discordanti. La condanna è poi confermata in appello e in Cassazione. Per la Corte europea, la mancata partecipazione del difensore durante il primo interrogatorio di polizia, svolto con l'imputato in stato di arresto, non è compatibile con l'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu né la violazione del diritto alla difesa tecnica ha potuto essere rimediata nei successivi gradi del giudizio. Per quanto concerne, invece, le attività difensive propedeutiche all'interrogatorio dinanzi al giudice istruttore, la Corte di Strasburgo reputa compatibile con i rammentati canoni convenzionali la limitazione al diritto di accesso al fascicolo da parte del difensore, ragionevolmente basata sull'esigenza di proteggere le investigazioni (come previsto dalla legge nazionale), mentre accerta la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu in rapporto al mancato riconoscimento del diritto dell'imputato di colloquiare col difensore al fine di preparare la difesa prima della traduzione dinanzi al giudice istruttore: il mancato contatto fra difensore e accusato in tale fase ha pregiudicato l'effettività del diritto di difesa. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 9 aprile 2015, Vamvakas c. Grecia (n. 2)

Il difensore d'ufficio, designato un mese prima della data dell'udienza dinanzi alla Corte di cassazione, non vi compare, senza avere previamente addotto un legittimo impedimento né formulato una richiesta di differimento dell'udienza, come consentito dalla legge nazionale. Nonostante l'assenza del difensore, il collegio di Cassazione definisce il giudizio nell'udienza già fissata, senza designare un nuovo difensore d'ufficio per l'imputato. Secondo la Corte europea, la condotta del giudice procedente viola l'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu. Premesso che è compito delle autorità nazionali assicurare l'effettività della difesa tecnica, il collegio di Cassazione, preso atto dell'assenza ingiustificata del difensore d'ufficio e della sua mancata richiesta di rinvio dell'udienza, avrebbe dovuto designare un nuovo difensore d'ufficio, senza poter procedere - seduta stante - alla celebrazione dell'udienza e alla deliberazione. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 14 aprile 2015, Mustafa Tunç e Fecire Tunç c. Turchia

I ricorrenti sono i famigliari di un militare che era stato ferito mortalmente da un'arma da fuoco all'interno di un'area dove svolgeva attività di sorveglianza nell'esercizio delle sue funzioni. L'indagine amministrativa svolta dall'esercito perveniva alla conclusione che si fosse trattato di un incidente provocato dalla stessa vittima a causa di un utilizzo improprio dell'arma. Anche l'indagine penale, condotta da un procuratore militare, giungeva alle stesse conclusioni, e portava di conseguenza all'archiviazione della notitia criminis, su decisione di una corte militare. Dinanzi alla Corte europea, i famigliari della vittima lamentano la violazione dell'art. 2 Cedu sotto molteplici profili, di ordine sostanziale e procedurale. Mentre i primi vengono dichiarati tutti inammissibili, per quanto riguarda i secondi la Corte europea rileva la violazione del diritto fondamentale ad un'indagine indipendente, in considerazione del fatto che uno dei tre membri della corte militare era un soggetto sottoposto alla gerarchia militare, e pertanto non godeva dello stesso status degli altri due componenti togati. Di diverso avviso è la maggioranza della grande camera, secondo cui l'indipendenza delle indagini non deve essere valutata sulla carta, bensì alla luce delle circostanze del caso concreto, ossia verificando se ed in che misura le potenziali carenze di indipendenza si siano tradotte in pregiudizi effettivi delle indagini. Secondo la dissenting opinion espressa dalla minoranza dei giudici, invece, proprio la natura militare delle indagini ne avrebbe irrimediabilmente compromesso l'indipendenza, non potendosi escludere che la morte della vittima fosse stata cagionata da altri membri dell'esercito. (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, sez I, sent. 16 aprile 2015, Armellini c. Austria

I ricorrenti sono due giornalisti e la società editrice del quotidiano austriaco per il quale lavorano. A seguito della pubblicazione di un articolo nel quale accusavano alcuni calciatori professionisti di avere ricevuto tangenti per manipolare l'esito di alcuni match, i due giornalisti venivano condannati per diffamazione, con pene pecuniarie tra i 3000 ed i 5000 euro; mentre la società veniva condannata al pagamento di un risarcimento pari a 20.000 euro (poi ridotto a 12.000) a favore di ciascuna delle persone offese. Nel ricorso a Strasburgo lamentano di avere subito una violazione della loro libertà di espressione, sotto il profilo del requisito della "necessità in una società democratica" di cui all'art. 10 Cedu. La Corte europea respinge il ricorso. La sentenza riconosce, da un lato, che il fenomeno della corruzione sportiva incontra un elevato interesse pubblico, e che senz'altro tale interesse si estende fino a ricomprendere anche l'identità dei singoli soggetti sospetti di aver preso parte ad episodi corruttivi. La stessa sentenza, dall'altro lato, evidenzia che l'articolo era concepito, anche graficamente, in maniera tale da risultare un vero e proprio atto di accusa nei confronti dei calciatori nominati, e dunque era idoneo ad arrecare un rilevante pregiudizio alla loro reputazione:  in ragione di tali caratteristiche, la liceità dell'articolo dipendeva strettamente dal suo poggiare su "solide basi fattuali". Ebbene, secondo la Corte europea tali basi fattuali difettavano nel caso di specie, come puntualmente accertato dai giudici austriaci nella sentenza di condanna, sulla base di argomentazioni che i ricorrenti non hanno confutato. Infine la Corte evidenzia come le misure sanzionatorie e risarcitorie applicate dai giudici austriaci possano considerarsi proporzionate alla gravità dell'offesa, in considerazione delle caratteristiche dell'articolo e del suo elevato potenziale pregiudizievole della reputazione delle persone coinvolte. (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 23 aprile 2015, Morice c. Francia

A seguito del rinvenimento, a Gibuti, del cadavere di un importante magistrato francese, lì distaccato da Ministro della giustizia, viene aperto un procedimento penale, incardinato, prima, dinanzi al Tribunale di Tolosa, poi, a quello di Parigi. La vicenda ebbe, sin dall'inizio, un enorme rilievo politico e mediatico, poiché dall'istruzione, svolta dal giudice istruttore M. e da un suo collega, era emerso il coinvolgimento dei servizi segreti di Gibuti (che avrebbero ucciso il magistrato, simulandone il suicidio) per proteggere affari illegali in cui sarebbe stato implicato anche il Presidente della Repubblica francese. Nell'ambito di tale procedimento, la vedova del magistrato si costituisce parte civile e il suo avvocato (odierno ricorrente davanti alla Corte europea) critica aspramente e pubblicamente l'operato del giudice istruttore M., accusandolo di connivenza con altissimi funzionari di Stato. Tocca notare che il procedimento penale per la morte del magistrato francese è ancora pendente. A seguito delle critiche rivolte al giudice M., il ricorrente è processato per diffamazione: del collegio di Cassazione, che conferma la condanna per tale delitto, fa parte anche il giudice M. In sede europea, il ricorrente si duole della violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, sotto il profilo della mancanza d'imparzialità del giudice. Secondo i giudici di Strasburgo, la doglianza è fondata: la partecipazione del giudice M. al collegio di Cassazione induce nel ricorrente il fondato timore circa la mancanza d'imparzialità in senso soggettivo di tale giudice. Da un diverso punto di vista, la Corte europea, in accoglimento di un'ulteriore doglianza del ricorrente, accerta pure l'avvenuta violazione dell'art. 10 Cedu: la condanna del ricorrente per diffamazione, in conseguenza delle aspre critiche da quest'ultimo rivolte al giudice M. circa le modalità di svolgimento dell'istruzione, costituisce un'interferenza sproporzionata rispetto al diritto di libera manifestazione del pensiero, tanto più tenendo conto che tali critiche erano state mosse dal ricorrente nella sua qualità di difensore della parte civile. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 30 aprile 2015, Kapetanios e altri c. Grecia

Dopo l'assoluzione penale passata in giudicato, i ricorrenti vengono condannati, in sede amministrativa-penale, per i medesimi fatti. La Corte europea accerta, qui, una triplice violazione delle disposizioni convenzionali da parte delle autorità nazionali greche. In primo luogo, la condanna irrogata nella sede amministrativa-penale per i medesimi fatti già oggetto di una sentenza di assoluzione pronunciata nella sede penale, e passata in giudicato, viola il divieto di bis in idem sancito dall'art. 2 Prot. n. 7 Cedu. In secondo luogo, la condanna nella sede amministrativa-penale viola pure la presunzione d'innocenza ex art. 6 comma 2 Cedu: a differenza di quanto può accadere in altri contesti, come quello disciplinare (ove la precedente assoluzione in sede penale non esclude, necessariamente, la possibilità di irrogare una sanzione all'esito dell'autonomo procedimento disciplinare), nel caso in esame, le autorità amministrative-penali hanno leso la presunzione d'innocenza dal momento che hanno ritenuto che i ricorrenti avessero commesso l'identico fatto la cui sussistenza era già stata esclusa, irrevocabilmente, dal giudice penale. Infine, la Corte europea accerta anche la violazione dell'art. 13 Cedu, con riguardo alla vicenda giudiziaria amministrativa-penale: l'ordinamento greco non contempla una via di ricorso effettiva per far valere il rispetto, in tale sede, del diritto alla ragionevole durata del processo amministrativo-penale. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 30 aprile 2015, Yaremenko c. Ucraina (n. 2)

A seguito dell'accertamento, da parte della Corte di Strasburgo, dell'iniquità del giudicato di condanna nazionale, per violazione degli art. 3 e 6 commi 1 e 3 Cedu, viene instaurato di fronte al competente giudice ucraino un giudizio di revisione. All'esito, il giudizio di colpevolezza dell'imputato è confermato sulla base del medesimo compendio probatorio già posto alla base dell'originaria pronuncia di condanna. Più precisamente, il giudice - dopo avere escluso soltanto alcune prove dal quadro decisorio - ha comunque impiegato le dichiarazioni confessorie del ricorrente, già estorte, nel corso del giudizio precedente la revisione, in violazione dell'art. 3 Cedu e del diritto al silenzio durante la relativa fase delle indagini, nonostante esse fossero state poi ritrattate in dibattimento. Secondo la Corte europea, l'esclusione di una parte delle prove raccolte nell'originario giudizio è irrilevante: la "nuova" condanna del ricorrente si è principalmente basata su prove ottenute in violazione di diritti fondamentali e tutto ciò perpetua le violazioni dell'art. 6 commi 1 e 3 Cedu già accertate con riguardo all'originaria condanna nazionale. (Fabio Cassibba)