ISSN 2039-1676


05 maggio 2015 |

Monitoraggio Corte Edu Febbraio 2015

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

 

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte Edu.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Roberta Casiraghi e Stefano Finocchiaro. L'introduzione è a firma di Stefano Finocchiaro per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 9, 10 e 11 Cedu, mentre si deve a Roberta Casiraghi la parte relativa agli artt. 5, 6, 8 Cedu e 4 Prot. n. 7 Cedu.

 

1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 8 Cedu

f) Art. 9 Cedu

g) Art. 10 Cedu

h) Art. 11 Cedu

i) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

 

2. Sintesi dei provvedimenti più significativi

 

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1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

In tema di diritto alla vita, l'uso di forza letale da parte della polizia torna, anche questo mese, all'attenzione della Corte europea nella sent. 24 febbraio 2015, Mihaylova e Malinova c. Bulgaria, avente ad oggetto il caso di un giovane di etnia rom che - mentre tenta di scassinare un autocarro parcheggiato - viene sorpreso e inseguito da un agente di polizia, con il quale intraprende uno scontro fisico, all'esito del quale rimane ucciso da un colpo di pistola sparato dal poliziotto. Le autorità giurisdizionali bulgare assolvono l'agente, qualificando la condotta di quest'ultimo come legittima difesa. La Corte di Strasburgo - pur non ritenendo violato l'art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale - pronuncia una sentenza di condanna, dovuta all'evidente mancanza di indipendenza delle indagini e all'inadeguatezza delle modalità con cui si è giunti ad escludere che vi sia stato un uso eccessivo della forza nella legittima difesa dell'agente statale.

In un caso relativo ad un ragazzo diciottenne morto due mesi dopo essere stato in custodia presso le autorità di polizia (sent. 17 febbraio 2015, Ion Bălăşoiu c. Romania), la Corte europea esclude la violazione sostanziale dell'art. 2 Cedu, ritenendo che - stanti le gravi malattie di cui era da tempo affetta la vittima - non esistano elementi sufficienti a ricondurre con certezza il decesso ai maltrattamenti inflitti dagli agenti statali; tuttavia tale insufficienza probatoria - affermano i giudici di Strasburgo - dipende anche dall'inadeguatezza delle indagini svolte in seguito all'accaduto e, quindi, da una violazione procedurale della disposizione convenzionale.

Si segnala, poi, la sent. 26 febbraio 2015, Prilutskiy c. Ucraina, avente ad oggetto il caso di un ragazzo morto in un incidente stradale, a causa dell'eccessiva velocità tenuta durante un gioco automobilistico organizzato fra le strade cittadine di Donetsk. Nella sentenza la Corte europea ha modo di ripercorrere alcuni importanti principi in tema di obblighi positivi discendenti dall'art. 2 Cedu, i quali - come noto - comportano per lo Stato il dovere di predisporre un quadro legislativo e amministrativo volto a garantire un'effettiva deterrenza rispetto a condotte contrarie al diritto alla vita. Per ritenere sussistente una violazione della disposizione convenzionale sotto questo profilo, al ricorrente è sufficiente dimostrare che - alla luce delle concrete circostanze del caso - le autorità statali non abbiano fatto tutto ciò che era ragionevole aspettarsi per evitare un rischio reale e attuale per la vita, del quale avevano o avrebbero dovuto avere conoscenza (§ 33). Nel caso di specie, le regole della competizione prevedono l'obbligo per i partecipanti di rispettare tutte le norme di circolazione stradale urbana, stabilite legislativamente e corredate da un sistema sanzionatorio, anche penale, dotato di carattere sufficientemente preventivo e deterrente (§ 34). Pertanto, il pericolo insito nel gioco automobilistico in oggetto non appare - agli occhi dei giudici di Strasburgo -  diverso dal generale rischio di circolazione stradale e non necessita di una regolamentazione speciale da parte dello Stato (§ 37), sul quale non può comunque porsi un onere preventivo irrealistico e sproporzionato, tenuto altresì conto delle difficoltà di controllo nelle società moderne, dell'imprevedibilità dell'azione umana e delle scelte operative che vanno effettuate in termini di priorità e di risorse disponibili (§ 33). Da ciò l'esclusione, nel caso in esame, di una violazione convenzionale sotto il profilo degli obblighi positivi discendenti dall'art. 2 Cedu, del quale viene tuttavia riscontrata una violazione procedurale per l'inadeguatezza delle indagini condotte in relazione all'accaduto.

Presenti, infine, le consuete pronunce in cui la Corte europea - occupandosi della sola violazione procedurale dell'art. 2 Cedu, dovuta all'inefficienza delle indagini condotte dalle autorità nazionali - ribadisce i noti e consolidati principi in materia: in particolare, tale violazione è esclusa nella sent. 19 febbraio 2015, Mileusnić e Mileusnić-Espenheim c. Croazia ed è, invece, riscontrata nella sent. 24 febbraio 2015, Ciobanu c. Moldavia.

 

b) Art. 3 Cedu

Sono i trattamenti inumani e degradanti subiti dai ricorrenti a causa delle condizioni materiali di detenzione in carcere a determinare, anche questo mese, molteplici pronunce di condanna per violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu: così nella sent. 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania (per una sintesi, v. infra) si censura, in particolare, l'assenza di adeguate condizioni igieniche nelle celle, peraltro non riscaldate a sufficienza e, nella sent. 26 febbraio 2015, Yevgeniy Bogdanov c. Russia, il sovraffollamento e le generali condizioni sanitarie della prigione.

Nella sent. 5 febbraio 2015, Khloyev c. Russia è l'inadeguatezza dell'assistenza medica offerta a un detenuto affetto da epatite, diabete e tubercolosi a fondare la pronuncia di condanna da parte dei giudici di Strasburgo. Similmente, nella sent. 19 febbraio 2015, Helhal c. Francia, la Corte europea - pur riconoscendo come la condanna a 30 anni di reclusione cui viene sottoposto il ricorrente sia perfettamente legittima - censura l'inadeguatezza strutturale e organizzativa del carcere francese, sprovvisto di sistemi di accoglienza adatti ad un detenuto paraplegico, quale il ricorrente.

Rimanendo nel campo del rapporto fra esecuzione della pena carceraria e divieto di trattamenti inumani e degradanti, si segnala l'interessante sent. 3 febbraio 2015, Hutchinson c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra), la quale - in materia di ergastolo inteso come pena realmente perpetua, e a quasi due anni dalla nota sentenza Vinter - riconosce la compatibilità della normativa inglese rispetto all'art. 3 Cedu.

Nella sent. 19 febbraio 2015, M.S. c. Croazia (n.2), invece, la Corte europea riscontra una violazione degli artt. 3 e 5 Cedu in un caso relativo all'illegittimo internamento, contro la volontà del ricorrente, in una clinica psichiatrica statale, in cui lo stesso è costretto per un mese. La violazione sostanziale dell'art. 3 risiede nel trattamento disumano subito dall'internato, legato con la forza al letto in una camera d'isolamento per un'intera notte, nonostante la mancanza di qualsiasi prova circa la sussistenza di un rischio per l'incolumità del paziente e o di terzi; al riguardo, i giudici europei rammentano che: a) essendo l'ospedale in questione un'istituzione pubblica, le condotte dello staff medico sono suscettibili di comportare una responsabilità dello Stato per violazione dei propri obblighi negativi; b) la particolare vulnerabilità mentale della persona è un parametro da tenere in considerazione per vagliare la legittimità di un determinato trattamento inflitto alla stessa; c) il ricorso a misure di contenimento fisico di pazienti in istituti psichiatrici è ammesso solo quando strettamente necessario e quando non vi siano altri modi per calmare la persona e impedirle di procurare nocumento a sé o ad altri. Inoltre, i giudici di Strasburgo rilevano che - durante il procedimento volto ad accertare la legittimità dell'internamento (qualificato dalla Corte europea come "privazione della libertà" di persona vulnerabile di cui alla lett. e dell'art. 5 § 1 Cedu) - l'assistente legale del ricorrente non ha mai incontrato il proprio assistito, limitandosi a presenziare in aula come "osservatore passivo": l'ineffettività della difesa legale rappresenta, soprattutto in tale contesto, un vizio procedurale che impedisce di escludere l'arbitrarietà del procedimento volto ad accertare la legittimità della misura restrittiva del diritto di libertà di cui all'art. 5 Cedu, il quale - pertanto - risulta sotto questo profilo violato.

Nulla di particolarmente innovativo viene affermato dalla Corte di Strasburgo in relazione ai purtroppo numerosi casi di trattamento inumano e degradante inflitto a persone che si trovavano, a vario titolo, sotto la custodia delle forze di polizia: mediante la consueta inversione dell'onere probatorio, i giudici europei giungono a riscontrare una violazione della disposizione convenzionale sotto il profilo sostanziale nelle sentt. 3 febbraio 2015, AndriÅŸcă c. Romania; 5 febbraio 2015, Ogorodnik c. Ucraina; 19 febbraio 2015, Dzhabbarov c. Russia, 19 febbraio 2015, Zhyzitskyy c. Ucraina (per una sintesi, v. infra). Al contrario, nessuna violazione sostanziale è riscontrata nella sent. 24 febbraio 2015, Mehmet Yaman c. Turchia.

Nella sent. 17 febbraio 2015, Ion Bălăşoiu c. Romania, in un caso inerente ad un ragazzo diciottenne ma già gravemente malato deceduto due mesi dopo essere stato in custodia presso le autorità di polizia, la Corte europea - oltre ad escludere una violazione sostanziale del diritto alla vita (v. supra, sub art. 2 Cedu) - ritiene di non disporre di elementi sufficienti a considerare integrata una violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu, riconoscendo però come tale insufficienza probatoria sia principalmente dovuta all'inadeguatezza delle indagini operate dalle autorità rumene: da ciò, una violazione procedurale della disposizione convenzionale.

Le sevizie perpetrate dalla polizia russa ad un detenuto uzbeko al fine di estorcere una confessione vengono qualificate, invece, come tortura nella sent. 5 febbraio 2015, Razzakov c. Russia, in cui la Corte europea osserva, tra l'altro, come il governo russo fosse perfettamente a conoscenza dei trattamenti contrari alla Convenzione subiti dal ricorrente, il quale - durante una prolungata detenzione illegittima, senza possibilità di comunicare con un avvocato - viene, tra l'altro, spogliato, appeso in posizioni dolorose e sottoposto a scosse elettriche che - osservano i giudici europei - richiesero un discreto grado di preparazione e l'utilizzo di speciali congegni; la Corte, nella stessa pronuncia, affronta anche la questione di ammissibilità del ricorso inerente alla riconoscibilità, o meno, al ricorrente dello status di vittima, offrendo al riguardo risposta affermativa e ribadendo il consolidato principio per cui il mero ristoro pecuniario riconosciuto dal governo al ricorrente non è sufficiente a rimediare alle torture inflitte da agenti statali.

Anche questo mese, infine, sono presenti pronunce che ribadiscono gli ormai consolidati principi in tema di refoulment presso "paesi a rischio": la violazione indiretta della disposizione convenzionale viene ravvisata dalla Corte europea in riferimento all'espulsione di un cittadino uzbeko detenuto a Mosca (sent. 26 febbraio 2015, Khalikov c. Russia). Nessuna violazione viene riscontrata in relazione ad un caso di espulsione del ricorrente in Kyrgyzstan, atteso che - sottolineano i giudici di Strasburgo - risulta sufficientemente provato che nel paese di destinazione la persona sarebbe stata sottoposta ad adeguate cure per la propria malattia e avrebbe usufruito dell'assistenza della propria famiglia e dello stesso governo svedese: non sarebbe perciò stata esposta ad alcun concreto rischio di trattamenti contrari all'art. 3 Cedu (sent. 26 febbraio 2015, M.T. c. Svezia).

 

c) Art. 5 Cedu

Tra le pronunce della Corte europea del mese di febbraio, con riferimento all'art. 5 comma 1 Cedu, si segnala la sent. 26 febbraio 2015, Zaichenko c. Uraina (n. 2) (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte di Strasburgo ha ravvisato l'illegittimità dell'internamento coattivo in ospedale psichiatrico, in quanto disposto senza un preventivo parere medico che riscontrasse l'incapacità di intendere e volere del ricorrente.  

 

d) Art. 6 Cedu

Per quanto concerne l'art. 6 comma 1 Cedu, va evidenziata, anzitutto, la sent. 12 febbraio 2015, Sanader c. Croazia (per una sintesi, v. infra), con cui il giudice europeo ritiene iniquo il procedimento in cui il ricorrente, condannato in absentia, non ha potuto ottenere in modo effettivo un nuovo giudizio, nonostante non avesse rinunciato al proprio diritto a comparire in tribunale né si fosse sottratto alla giustizia.

Restando in tema di esercizio del diritto di difesa, con particolare riguardo al principio del nemo tenetur se detegere, la sent. 19 febbraio 2015, Zhyzitskyy c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), afferma la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, per l'impiego delle dichiarazioni confessorie rese sotto tortura. Analogamente, con la sent. 5 febbraio 2015, Ogorodnik c. Ucraina, è accertata la violazione del diritto a non autoincriminarsi e del diritto di difesa tecnica, di cui all'art 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, per l'impiego di dichiarazioni confessorie rese nel corso dell'interrogatorio di polizia, senza l'assistenza di un difensore (al quale non risulta che il ricorrente abbia volontariamente rinunciato).

Quanto alla tutela dell'equità processuale in rapporto all'osservanza dell'obbligo di motivazione della sentenza vengono in gioco diverse pronunce, riguardanti giudizi con giuria svolti dinanzi alla corte d'assise, all'esito dei quali la colpevolezza è stata dichiarata con verdetto immotivato. La sent. 17 febbraio 2015, Devriendt c. Belgio (per una sintesi, v. infra), le sent. 17 febbraio 2015, Kurt c. Belgio, e Maillard c. Belgio, e la sent. 24 febbraio 2015, Magy c. Belgio, accertano la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, poiché i quesiti sulle questioni di fatto e di diritto, rilevanti alla luce dell'accusa, poste alla giuria e le relative risposte meramente affermative non consentono alla difesa di comprendere le ragioni del verdetto di colpevolezza, per di più non appellabile ma solo ricorribile in cassazione per ragioni di diritto.

Per quanto riguarda l'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, è significativa la sent. 10 febbraio 2015, Colac c. Romania (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte europea afferma che l'assenza ingiustificata del testimone d'accusa viola di per sé il diritto al confronto dell'accusato, risultando irrilevante che le dichiarazioni dei testimoni assenti, seppur aventi un peso considerevole, non abbiano costituito la prova unica o determinante su cui si è basata la condanna: considerato che - come regola generale - i testimoni devono deporre in dibattimento, l'autorità giudiziaria ha il dovere di compiere ogni ragionevole sforzo per assicurare la loro presenza, potendosi procedere alla lettura delle dichiarazioni del testimone assente solo qualora ricorrano valide ragioni.

 

e) Art. 8 Cedu

Con riferimento all'art. 8 Cedu, si segnala la sent. 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania (per una sintesi, v. infra): la Corte europea rimprovera allo Stato rumeno sia la mancata predisposizione di una struttura giudiziaria idonea ad evitare la fuga di notizie sia di non aver previsto un rimedio che consentisse al ricorrente una riparazione per la violazione subita dalla pubblicazione sulla stampa di conversazioni aventi natura strettamente privata. Va poi rammentata la già citata sent. 26 febbraio 2015, Zaichenko c. Uraina (n. 2) (per una sintesi, v. infra), in cui è ravvisata la violazione del diritto al rispetto della vita privata, per l'assenza di una normativa che regolamenti, in modo da contrastare l'arbitrio, le attività di raccolta, conservazione e impiego di notizie personali da parte delle autorità. 

 

f) Art. 9 Cedu

In tema di diritto di libertà di religione, si segnala la sent. 24 febbraio 2015, Karaahmed c. Bulgaria (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte di Strasburgo riscontra una violazione degli obblighi positivi di protezione discendenti dall'art. 9 Cedu, in relazione all'inefficacia e all'inadeguatezza preventiva delle misure adottate dalle forze di polizia bulgare nel contesto di una protesta degenerata nella violenta interruzione delle preghiere di alcuni fedeli, riunitisi presso la moschea di Sofia.

Una violazione del diritto di libertà di pensiero, coscienza e religione viene ravvisata dalla Corte europea anche nella sent. 10 febbraio 2015, Dimitrova c. Bulgaria, avente ad oggetto alcune misure - tra cui il sequestro di libri, appunti e registrazioni audio aventi contenuto religioso - adottate dalla polizia bulgara nei confronti della ricorrente, sul mero presupposto della sua qualità di attivista di un'organizzazione religiosa di cui il governo censura una negativa influenza psicologica sui sostenitori; anche la lamentata violazione dell'art. 13 Cedu risulta integrata, posta l'inadeguatezza dei rimedi preventivi e compensatori apprestati a livello nazionale per far fronte alla violazione riscontrata.

 

g) Art. 10 Cedu

Questo mese, la pronuncia di maggiore interesse in tema di libertà di espressione è certamente la sent. 10 febbraio 2015, Haldimann e altri c. Svizzera (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte di Strasburgo - per la prima volta - è chiamata a valutare se, e in quali termini, il giornalista che si avvalga di telecamere nascoste nell'ambito di un reportage volto a fornire informazioni su un tema di interesse pubblico goda delle garanzie discendenti dall'art. 10 Cedu. Nel caso di specie, i giudici europei giungono a ritenere prevalente il diritto di libertà d'espressione dei giornalisti sul diritto al rispetto della vita privata della persona filmata: da ciò una violazione dell'art. 10 Cedu in relazione alle condanne penali inflitte ai ricorrenti.

Altre due le sentenze in tema di libertà di espressione in ambito di attività giornalistica. La prima (sent. 10 febbraio 2015, Cojocaru c. Romania) riguarda la condanna per diffamazione di un giornalista rumeno - accusato di aver ingiustamente criticato l'attività professionale del sindaco locale - alla pena pecuniaria di 1200 euro, equivalente a circa quattro volte lo stipendio mensile medio in Romania: i giudici europei ritengono violato l'art. 10 Cedu in relazione all'eccesiva severità della sanzione penale e all'insufficienza probatoria circa l'assenza di buona fede del giornalista, che ha tra l'altro presentato documenti ufficiali attestanti le irregolarità denunciate. Con la seconda - sent. 3 febbraio 2015, Bayar e Gürbüz c. Turchia (n. 2) - viene ravvisata una violazione della disposizione convenzionale in un caso relativo all'irrogazione di una pena pecuniaria pari a 233 euro nei confronti di due ricorrenti - rispettivamente proprietario e editore di un quotidiano turco - condannati per aver pubblicato una dichiarazione rilasciata da un rappresentante del Kongra-Gel, organizzazione criminale curda.

Nella sent. 10 febbraio 2015, Yoslun c. Turchia, infine, la Corte europea ravvisa una violazione dell'art. 10 Cedu nell'imposizione di una multa a carico di un cantante che - durante l'esibizione ad un concerto autorizzato - aveva accusato il governo di essere illiberale e aveva espresso sostegno alla causa dei movimenti nazionalisti curdi.

 

h) Art. 11 Cedu

Una sola pronuncia (sent. 24 febbraio 2015, Promo Lex e altri c. Moldavia) riguarda la libertà di riunione di cui all'art. 11 Cedu. Il caso ha ad oggetto una protesta organizzata dinanzi all'ufficio del procuratore generale, promossa dalle due organizzazioni non governative ricorrenti, Promo Lex e CREDO, durante la quale sei uomini mascherati iniziano improvvisamente ad aggredire fisicamente i manifestanti, sotto gli occhi di alcuni poliziotti, che rimangono inerti all'interno della volante. Le forze dell'ordine intervengono solo un'ora e mezzo più tardi. Alcuni passanti filmano l'accaduto. Tutti e sei gli aggressori vengono identificati e due di essi vengono condannati con pena sospesa. Nessun processo viene svolto in riferimento all'inerzia delle forze di polizia. La Corte europea ravvisa, da un lato, una violazione degli obblighi positivi discendenti dalla disposizione convenzionale, per non aver posto in essere misure appropriate al fine di proteggere i ricorrenti dagli attacchi violenti subiti; dall'altro, una violazione procedurale per non aver svolto indagini adeguate a far emergere le eventuali responsabilità della forza pubblica. A ciò si aggiunge una violazione dell'art. 13 Cedu dovuta all'assenza, nell'ordinamento moldavo, di disposizioni legislative in grado di assicurare ai ricorrenti la possibilità di ottenere adeguati rimedi preventivi e compensatori in relazione al mancato intervento della polizia.

 

i) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

In tema di ne bis in idem, va rammentata la sent. 17 febbraio 2015, Boman c. Finlandia (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte europea esclude la violazione dell'art. 4 Prot. n. 7 Cedu, poiché i due procedimenti (quello penale e quello amministrativo-penale condotto dalla polizia) aventi ad oggetto i medesimi fatti (un episodio di guida senza patente), pur essendo condotti da autorità differenti, sono "inestricabilmente collegati nella sostanza e nel tempo", dal momento che la normativa interna sui reati stradali condiziona le sanzioni amministrative agli accertamenti svolti in sede penale: le due relative sanzioni possono quindi considerarsi adottate all'interno di un unico procedimento, con la conseguenza che il ricorrente non può reputarsi condannato due volte per lo stesso fatto, in due separati procedimenti.

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 3 febbraio 2015, Apostu c. Romania

Nel quadro di un'indagine per corruzione, nei confronti del ricorrente viene disposta l'intercettazione delle sue conversazioni, le quali (anche quelle attinenti esclusivamente la vita privata) sono poi pubblicate in numerosi giornali. Il ricorrente viene altresì posto in custodia cautelare, al fine di evitare la protrazione degli atti corruttivi e il rischio di inquinamento probatorio. Anzitutto la Corte europea accerta la violazione dell'art. 3 Cedu, per l'inadeguatezza delle condizioni detentive. Il ricorrente lamenta poi l'ineffettività dell'assistenza tecnica in carcere e, quindi, l'impossibilità di predisporre un'adeguata difesa ai fini del controllo di legittimità della detenzione provvisoria di cui all'art. 5 comma 4 Cedu: l'esistenza di un vetro tra lui e il suo difensore avrebbe ostacolato le comunicazioni, facilitando altresì l'ascolto e la registrazione. La Corte di Strasburgo, pur rammentando che l'effettività della difesa tecnica è minata anche dal mero dubbio (purché ragionevole) che i colloqui difensivi siano sentiti, non ritiene supportati, nel caso in esame, i sospetti del ricorrente. Né è stato addotto alcun elemento idoneo a dimostrare che la vetrata fosse un ostacolo alla trasmissione di documenti tra lui e l'avvocato. La questione è dunque dichiarata irricevibile. Infine, quanto all'art. 8 Cedu, premessa l'esistenza di un'interferenza nel diritto alla vita privata non giustificata da un rilevante interesse pubblico (con riguardo alle conversazioni pubblicate dalla stampa e di natura strettamente privata), il giudice europeo dichiara la violazione, ritenendo lo Stato colpevole sia di non aver predisposto una struttura giudiziaria idonea ad evitare la fuga di notizie sia di non aver previsto un rimedio che consentisse al ricorrente una riparazione per la violazione subita. (Roberta Casiraghi)

 

C. eur. dir. uomo, Sez IV, sent 3 febbraio 2015, Hutchinson c. Regno Unito

Con la presente pronuncia, la Corte europea torna ad occuparsi di ergastolo come pena realmente perpetua. Il tema - come noto - ha, quali celebri precedenti, le sentenze della Grande Camera Kafkaris c. Cipro del 2008 e Vinter c. Regno Unito del 2013 (su cui cfr., in questa Rivista, Ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale nel Regno Unito e articolo 3 CEDU: la Grande Camera della Corte EDU ribalta la sentenza della Quarta Camera, 26 luglio 2013; sulla pronuncia della Camera in prima istanza, cfr. ancora, F. Viganò, Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 CEDU: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, ibidem, 4 luglio 2012).

La pronuncia ha ad oggetto il ricorso di A.H. il quale, nel 1983, entrato nella casa di una famiglia, pugnala a morte un uomo, sua moglie e il figlio per poi violentare ripetutamente la figlia appena diciottenne, dopo averla trascinata sopra il cadavere del padre. Nel processo H. si dichiara sempre innocente, negando gli omicidi e affermando che il rapporto sessuale fu consensuale. Nel 1984 viene condannato dal giudice all'ergastolo, con la raccomandazione al Segretario di Stato di un termine minimo di reclusione di 18 anni. Nel 1994 il Segretario informa il ricorrente di aver deciso di imporgli il whole life term, con conseguente impossibilità di parole. Entrato in vigore il Criminal Justice Act 2003, H. ricorre - senza esito positivo - alla High Court al fine di ottenere una revisione del termine minimo di reclusione; nel 2008 anche il suo ricorso alla Court of Appeal viene rigettato. Il ricorrente adisce la Corte europea, asserendo che la propria situazione è identica a quella del citato caso Vinter e che la pena perpetua cui è stato condannato è incompatibile con il divieto di "punizioni inumane o degradanti" di cui all'art. 3 Cedu.

I giudici della Corte di Strasburgo ribadiscono, anzitutto, i principi già affermati nella sentenza Vinter: la pena perpetua può considerarsi legittima solo se accompagnata da regole che la rendano riducibile in concreto, permettendo la liberazione anticipata del condannato; tali regole devono offrire concrete prospettive di scarcerazione dopo un periodo minimo di detenzione prestabilito e predeterminare in maniera chiara tempi e modalità della revisione, così da permettere al condannato di comprendere le condizioni della sua liberazione (§ 19-20). La Corte europea procede, quindi, ad affrontare la questione centrale della sentenza, chiedendosi - nuovamente - se il meccanismo di revisione previsto nel Regno Unito e di cui dispone il ricorrente sia compatibile con la previsione dell'art. 3 Cedu. La possibilità di review è così congegnata: ai sensi della sezione 30 del Criminal Justice Act 2003 il Segretario di Stato può, in ogni momento, disporre la liberazione del condannato qualora ravvisi la sussistenza di circostanze eccezionali, sulla base dei criteri indicati nel capitolo 12 del Lifer Manual, il quale fa riferimento a situazioni di malattia terminale o ad altre gravi condizioni di incapacità fisica (§ 10). Nella sentenza Vinter la Grande Camera aveva ritenuto che l'insufficiente chiarezza di tale previsione legislativa rendesse eccessivamente incerti i criteri con cui il Segretario di Stato può esercitare il suo potere di disporre la liberazione del condannato. A tali censure mosse da Strasburgo, la Court of Appeal britannica aveva risposto nel 2014 con una sentenza (R v. Newell; R v. McLoughlin) in cui affermava che il Lifer Manual non necessitava di alcuna modifica, alla luce della sezione 6(1) dello Human Rights Act, che impone al Segretario di Stato, quale autorità pubblica, di agire in modo conforme ai diritti riconosciuti dalla Convenzione europea, e di interpretare dunque la stessa sezione 30 del Lifer Manual in conformità all'art. 3 della Convenzione, secondo la lettura fornitane dalla Corte europea nella propria giurisprudenza in materia di ergastolo. Pertanto, ribadito che l'interpretazione del diritto interno rimane una prerogativa degli Stati membri, la Corte europea esclude qualsivoglia violazione dell'art. 3 Cedu, ritenendo che l'ordinamento interno garantisca ai condannati a pena perpetua la speranza e la possibilità concreta di una liberazione qualora le circostanze su cui si fonda la pena non siano più giustificate. (Stefano Finocchiaro)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 10 febbraio 2015, Colac c. Romania

Disposto il rinvio a giudizio per sequestro e sfruttamento della prostituzione, il dibattimento viene rinviato molte volte per permettere la comparizione dei testimoni di accusa; tuttavia, le autorità riescono a garantire la presenza dibattimentale soltanto di alcuni di essi. Il processo si conclude con la condanna del ricorrente, basata anche sulle dichiarazioni predibattimentali rese dai testimoni non comparsi in udienza. Il ricorrente ritiene il proprio procedimento iniquo, non avendo potuto esaminare tutti i testimoni a carico. A tal riguardo, la Corte europea rammenta che, prima ancora di valutare il peso decisivo o determinante delle dichiarazioni rese da un testimone assente, occorre verificare l'esistenza di una valida ragione che giustifichi la loro ammissione, dovendosi ritenere violata l'equità processuale laddove risulti immotivata la mancata comparizione del testimone. Più precisamente, le autorità devono porre in essere tutte le misure ragionevolmente esigibili per garantire la presenza dibattimentale del testimone. Nel caso in esame, poiché tale diligenza da parte delle autorità è mancata, la Corte di Strasburgo ritiene violato l'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, risultando irrilevante che le dichiarazioni dei testimoni assenti, seppur aventi un peso considerevole, non abbiano costituito la prova unica o determinante su cui si è basata la condanna. (Roberta Casiraghi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 12 febbraio 2015, Sanader c. Croazia

Il ricorrente viene definitivamente condannato in absentia a una pena detentiva di venti anni per aver partecipato a un gruppo paramilitare colpevole dell'uccisione di 27 prigionieri di guerra. Sia la richiesta di riapertura del procedimento sia il ricorso costituzionale sono respinti. Il ricorrente lamenta di non aver potuto ottenere la riapertura del procedimento dopo la sua condanna in absentia. A parere del giudice europeo, sebbene le particolari circostanze del caso di specie (ovvero la gravità del reato in questione, il grande interesse pubblico e l'esigenza di giustizia delle vittime) giustificassero un processo in contumacia, l'imputato, non avendo mai ricevuto la notifica del procedimento né essendosi sottratto volontariamente alla giustizia, aveva diritto, con sufficiente certezza, a un nuovo giudizio. Tuttavia, l'ordinamento croato subordina, in modo sproporzionato e irragionevole, la riapertura del procedimento alla presentazione del condannato in contumacia innanzi all'autorità giudiziaria oppure all'esistenza di nuove prove o fatti che possano condurre a un'assoluzione o a una condanna per un reato meno grave: di qui, la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 17 febbraio 2015, Boman c. Finlandia

Il 22 aprile 2010, il ricorrente viene condannato per guida pericolosa e senza patente a una pena pecuniaria e al divieto di guida sino al 4 settembre 2010. Il 28 maggio 2010, la polizia impone un nuovo divieto di guida per il medesimo episodio, decorrente dal 5 settembre e fino al 4 novembre 2010. Il ricorrente reputa violato l'art. 4 Prot. n. 7 Cedu, per essere stato giudicato e condannato due volte sugli stessi fatti. Accertata, alla luce del dettato convenzionale, la natura penale di entrambi i procedimenti, la Corte europea osserva come essi abbiano avuto ad oggetto i medesimi fatti. Tuttavia, i due procedimenti,  pur essendo condotti da autorità differenti, sono "inestricabilmente collegati nella sostanza e nel tempo", dal momento che la normativa interna sui reati stradali condiziona le sanzioni amministrative agli accertamenti svolti in sede penale. Le due sanzioni possono quindi considerarsi adottate all'interno di un unico procedimento, con la conseguenza che il ricorrente non può reputarsi condannato due volte per lo stesso fatto, in due separati procedimenti. Di qui, la non violazione dell'art. 4 Prot. n. 7 Cedu. (Roberta Casiraghi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 17 febbraio 2015, Devriendt c. Belgio

Il ricorrente è rinviato a giudizio per omicidio premeditato davanti alla corte d'assise. Chiamata a rispondere a due domande sottoposte dal presidente della corte (se l'accusato avesse commesso l'omicidio e se avesse agito con premeditazione), la giuria risponde affermativamente ad entrambe. Il processo si conclude con un verdetto immotivato di condanna all'ergastolo, confermato dalla corte di cassazione. Il ricorrente ritiene leso il proprio diritto a un processo equo, per l'assenza di motivazione del verdetto di colpevolezza. Il giudice di Strasburgo, accogliendo la doglianza, rileva che il ricorrente non è stato posto in grado di conoscere gli elementi di prova e le circostanze fattuali che hanno condotto i giurati a dichiarare la sua colpevolezza. Oltretutto, il verdetto non era appellabile ma solo ricorribile per ragioni di diritto dinanzi alla Corte di cassazione. (Roberta Casiraghi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 19 febbraio 2015, Zhyzitskyy c. Ucraina

Il ricorrente, interrogato dalla polizia come testimone, confessa l'omicidio della moglie. La confessione è reiterata in altri interrogatori, anche in presenza del proprio difensore di fiducia. Nell'interrogatorio successivo alla nomina di un nuovo difensore, il ricorrente ritratta la confessione, ritenendola consequenziale ai maltrattamenti subiti ad opera della polizia: una perizia medica conferma la presenza di ferite e segni sul corpo del ricorrente. Il processo si conclude con la condanna del ricorrente. Anzitutto, viene accertata la violazione dell'art. 3 Cedu, sia per i maltrattamenti subiti dal ricorrente (tali da configurare atti di tortura) sia per l'assenza di un'indagine effettiva (non avendo le autorità competenti compiuto tutti gli sforzi ragionevoli per stabilire l'origine di tali maltrattamenti). L'impiego probatorio delle dichiarazioni confessorie ottenute tramite tortura, a prescindere dal loro peso ai fini della  condanna, comporta poi la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu. (Roberta Casiraghi)

 

C. eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 24 febbraio 2015, Haldimann e altri c. Svizzera

A ricorrere a Strasburgo sono quattro giornalisti di un'emittente televisiva svizzera che, per documentare pratiche contrarie ai consumatori nella vendita di polizze assicurative, si servono di telecamere nascoste: una di loro, fingendosi cliente, ha un colloquio con un broker, i cui consigli professionali vengono registrati e contestualmente commentati con la supervisione di uno specialista che ne illustra la scorrettezza. Il filmato viene poi trasmesso in televisione. La Corte federale svizzera, pur riconoscendo l'interesse pubblico delle informazioni fornite dai giornalisti, li condanna al pagamento di una pena pecuniaria, rilevando - tra l'altro - come questi avrebbero potuto servirsi di strumenti meno lesivi degli interessi privati del broker.

Nell'affrontare la questione - inerente al bilanciamento tra libertà di espressione e diritto al rispetto della vita privata - i giudici europei ribadiscono i sei criteri formulati nella propria giurisprudenza al fine di vagliare la legittimità convenzionale degli "attacchi" rivolti alla reputazione personale di figure pubbliche: i) il contributo ad un dibattito di interesse pubblico; ii) la notorietà della persona ripresa e l'oggetto del reportage/documentario; iii) le precedenti condotte della persona interessata; iv) le modalità di ottenimento delle informazioni, la loro veridicità, il loro contenuto, la loro forma; v) le ripercussioni della loro pubblicazione; vi) la gravità della sanzione inflitta.

Nell'applicare tali criteri, la Corte europea tiene però conto delle specificità del caso in esame. L'agente assicurativo non è un personaggio pubblico, il suo volto è stato reso irriconoscibile, l'incontro è avvenuto in un luogo diverso dagli uffici dell'agenzia assicurativa e gli è stata data la possibilità di intervenire nel corso della trasmissione. Il reportage non è focalizzato sul broker e non è volto a criticarne la persona, ma è incentrato sulla diffusa scorrettezza delle pratiche commerciali di una categoria professionale (un tema che da tempo interessa l'opinione pubblica e che ha un indubbio rilievo generale meritevole di tutela). Quanto ai mezzi impiegati, la Corte di Strasburgo ha ribadito che i giudici nazionali non possono sostituirsi ai giornalisti nelle scelte dei mezzi da utilizzare o dello stile impiegato per portare all'attenzione dell'opinione pubblica un tema di interesse generale. La correttezza delle informazioni offerte dai giornalisti, infine, non è mai stata revocata in dubbio. Per quanto poi attiene alla sanzione irrogata, la Corte europea rileva come - sebbene la multa inflitta in concreto risulti non particolarmente gravosa (dai 100 euro circa per la giornalista che ha tenuto il colloquio, ai 3500 euro circa per i direttori responsabili) - la minaccia di una condanna penale abbia in sé un effetto deterrente contrario all'art. 10 Cedu, in quanto inibisce ingiustamente l'attività giornalistica. Tale disposizione convenzionale risulta pertanto violata, in quanto l'interferenza operata nella vita privata del broker, a sua volta tutelata dall'art. 8 Cedu, non risulta tale da prevaricare l'interesse pubblico a ricevere informazioni circa la supposta malpractice delle agenzie assicurative. (Stefano Finocchiaro)

 

C. eur. dir. uomo, Sez IV, sent 24 febbraio 2015, Karaahmed c. Bulgaria

La questione centrale affrontata dalla Corte europea nella presente pronuncia riguarda l'esercizio di due diritti di libertà fondamentali - quello di espressione e riunione, da un lato, e quello di religione, dall'altro - i quali, pur fra loro complementari, risultano spesso confliggenti.

Il ricorrente è un cittadino bulgaro di religione musulmana che - durante la consueta preghiera del venerdì presso la moschea Banya Bashi, nel centro di Sofia - viene sorpreso dall'irruzione di circa 150 manifestanti del partito politico Ataka, riunitisi per protestare contro quello che definiscono come un "lamento" proveniente dagli altoparlanti della moschea (§ 12). La protesta degenera in volgari insulti, offese e scontri violenti con i fedeli che si trovano a pregare fuori dall'edificio, per ragioni di spazio (essendo quella l'unica moschea di Sofia, nonostante i circa 30000 musulmani residenti nella città) (§ 5). La polizia, sul luogo fin dall'inizio della manifestazione, interviene solo quando le aggressioni hanno inizio. Il tutto viene ripreso da diverse persone presenti. In seguito all'accaduto sono aperti tre procedimenti: i primi due vengono interrotti senza individuare alcuna responsabilità, mentre sette persone vengono individuate nell'ambito della terza indagine, ma nessuna informazione viene fornita circa l'esercizio o meno di un'azione penale nei confronti di quest'ultimi.

Dinanzi alla Corte di Strasburgo il ricorrente lamenta una violazione dell'art. 3 Cedu, in relazione ai maltrattamenti subiti dai dimostranti, e dell'art. 9 Cedu, con riferimento all'incapacità delle autorità bulgare di prevenire condotte contrarie alla libertà di esercizio della religione.

Con riferimento alla prima censura, i giudici europei - una volta appurato che il ricorrente non ha subito alcuna violenza fisica per mano dei dimostranti - giungono ad escludere che la sofferenza psicologica patita sia tale da superare la soglia di gravità minima che, conformemente alla giurisprudenza della Corte europea, è necessaria ad integrare un trattamento inumano o degradante ai sensi della Convenzione: da ciò la superfluità di qualsivoglia accertamento circa la responsabilità del governo per violazione degli obblighi positivi di protezione discendenti dall'art. 3 Cedu (§ 77).

Alla conclusione opposta i giudici di Strasburgo giungono in relazione alla censura mossa dal ricorrente con riferimento all'art. 9 Cedu. Dopo aver ribadito, in via di premessa (§ 91), che la Convenzione non stabilisce a priori alcuna gerarchia tra il diritto di espressione e riunione (artt. 10 e 11 Cedu), da una parte, e quello di religione (art. 9 Cedu), dall'altra, la Corte europea procede a vagliare se e come gli obblighi positivi di protezione relativi a tali norme siano stati rispettati dallo stato membro. Al riguardo, si sottolinea come le autorità bulgare fossero informate della manifestazione e fossero presenti sul luogo fin dall'inizio della manifestazione e, nonostante ciò, abbiano deciso di intervenire solo dopo che le aggressioni ebbero inizio e quando, ormai, non era più possibile evitare l'escalation di violenza e l'interruzione della preghiera dei fedeli. La Corte europea ravvisa un fallimento delle autorità bulgare nella scelta delle modalità con cui bilanciare equamente i contrapposti diritti in gioco, i quali - come emerge anche dalle numerose riprese video - avrebbero potuto essere entrambi garantiti, qualora fossero stati apprestati più efficaci interventi preventivi (§ 101): ciò integra, a parere unanime dei giudici europei, una chiara violazione delle positive obligations discendenti dall'art. 9 Cedu, cui si aggiunge - come spesso accade - una violazione degli obblighi procedurali per l'inadeguatezza delle indagini successivamente svolte. (Stefano Finocchiaro)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 26 febbraio 2015, Zaichenko c. Uraina (n. 2)

Nei confronti del ricorrente, viene instaurato un procedimento amministrativo per oltraggio alla corte ed è poi disposta una perizia psichiatrica, al fine di verificare la sua capacità di intendere e volere. Il ricorrente è condotto in un ospedale psichiatrico, il quale, dopo aver verificato l'impossibilità di effettuare la perizia per assenza di documentazione, lo dimette. Il tribunale ordina così alla polizia di raccogliere informazioni sulla personalità e lo stato mentale del ricorrente e dispone vanamente due ulteriori ricoveri in ospedale psichiatrico, al fine di eseguire la perizia. Il procedimento amministrativo viene archiviato per prescrizione. Il ricorrente ritiene che il suo internamento in ospedale psichiatrico sia illegittimo ai sensi dell'art. 5 comma 1 Cedu. La Corte europea precisa come nessuna privazione della libertà di una persona considerata incapace di intendere e volere possa reputarsi conforme al dettato convenzionale, se è stata ordinata senza una preventiva opinione di un medico. Nel caso in esame, invece, l'unico motivo alla base dell'internamento coattivo in ospedale psichiatrico per 25 giorni è stato il dubbio del giudice sullo stato di salute mentale del ricorrente, dubbio derivante dalle dichiarazioni offensive da quest'ultimo rilasciate nei confronti di altri giudici. Di qui, la violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu. È inoltre accolta la doglianza relativa alla violazione del diritto al rispetto della propria vita privata ex art. 8 Cedu, in quanto la raccolta di informazioni eseguita dalla polizia nell'ambito della valutazione psichiatrica del ricorrente è avvenuta in assenza di una normativa che ne regolamenti in modo puntuale le modalità. (Roberta Casiraghi)