Prosegue il monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni della Corte EDU che interferiscono con il diritto penale sostanziale.
La scheda mensile è, come di consueto, preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU. Per facilitare il reperimento delle sentenze e delle decisioni della Corte, a partire da questo mese verrà segnalato in grassetto, oltre alla data del provvedimento e al case title, anche il numero di ricorso.
SOMMARIO
1. Introduzione
2. Articolo 2 Cedu
3. Articolo 3 Cedu
4. Articolo 5 Cedu
5. Articolo 10 Cedu
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1. Introduzione
a) Tra le sentenze in tema di art. 2 Cedu del mese di dicembresi segnala, anzitutto, l’importantissima sentenza Giuliani e Gaggio c. Italia, in cui la Grande Camera si è pronunciata sulla vicenda dell’uccisione di Carlo Giuliani ad opera di un agente dell’arma dei Carabinieri, avvenuta durante gli scontri di piazza che accompagnarono il vertice del G8 di Genova nel 2001 escludendo, con una decisione presa a maggioranza, la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 Cedu. Per una più ampia disamina dei passaggi motivazionali, si rinvia al commento di Angela Colella pubblicato in questa Rivista.
Presenta particolari profili di interesse, poi, la sentenza
Alikaj e altri c. Italia, relativa all’uccisione di un giovane albanese ad opera di un agente di polizia. In questo caso, la Corte ha ravvisato all’unanimità una duplice violazione dell’art. 2 Cedu, tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto quello formale. Quanto al primo profilo, i giudici di Strasburgo hanno osservato come nel caso di specie l’uso della forza non potesse ritenersi necessario perché il giovane non era armato e non aveva tenuto alcun comportamento aggressivo, ma si era limitato a fuggire. Quanto al profilo procedurale, invece,
la Corte ha ritenuto che il proscioglimento del poliziotto per intervenuta prescrizione avesse sottratto il medesimo, pure riconosciuto colpevole, dall’applicazione della pena e, pertanto, essa ha affermato – con parole che suonano come una sorta di monito per il nostro Paese – che: « dans les circonstances particulières de l'affaire, elle parvient ainsi à la conclusion que l'issue de la procédure pénale litigieuse n'a pas offert un redressement approprié de l'atteinte portée à la valeur consacrée à l'article 2 de la Convention » (sul caso, cfr. comunque più ampiamente la scheda di Angela Colella, pubblicata in questa
Rivista).
E ancora, si segnalano tre sentenze relative alla scomparsa di cittadini ceceni, presumibilmente ad opera di soldati dell’esercito russo (Khambulatova c. Russia, Murtazovy c. Russia, Tsechoyev c. Russia). Tra queste riveste profili di interesse la pronuncia resa nel caso Tsechoyev, in merito al sequestro e alla successiva uccisione di un detenuto russo, che veniva prelevato dal centro di detenzione in cui si trovava da alcuni uomini, che indossavano uniformi e che presentavano dei documenti falsi. La Corte ha qui escluso la violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu, rilevando come le guardie penitenziarie non avrebbero potuto prevedere in alcun modo un pericolo per la vita dell’uomo, mentre ha riconosciuto la violazione procedurale della suddetta norma in relazione all’ineffettività delle indagini sull’accaduto.
Sempre con riferimento al conflitto ceceno, merita altresì menzione la sentenza Esmukhambeton e altri c. Russia in tema di obblighi di protezione discendenti dall’art. 2 Cedu, nella quale la Corte – ribadendo le conclusioni cui era giunta nella recente pronuncia Abuyeva e altri c. Russia del dicembre 2010 – ha ritenuto che l’operazione di bombardamento di un villaggio ceceno ad opera dei militari russi avvenuta nel gennaio 1999, pur perseguendo uno scopo legittimo perché le autorità russe avevano avuto informazioni in merito alla presenza di terroristi nel villaggio, non era stata pianificata ed eseguita con le cautele necessarie per tutelare la vita della popolazione civile.
Merita un cenno anche la sentenza Merkulova c. Ucraina, nella quale la Corte ha reputato integrata una violazione procedurale dell’art. 2 Cedu in riferimento all’ineffettività delle indagini svolte in merito all’uccisione di un ragazzo in una rissa.
A conclusioni simili la Corte è pervenuta da ultimo nella sentenza Lapusan e altri c. Romania, nella quale i giudici europei hanno riscontrato una violazione procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione alla durata eccessiva dell’inchiesta relativa all’uccisione di sei cittadini rumeni ad opera delle autorità di polizia durante le manifestazioni di piazza del 1989 contro il regime comunista.
b) Assai numerose, anche nel mese di marzo, le sentenze emesse dalla Corte in tema di
art. 3 Cedu. Tra queste, tre riguardano l’inadeguatezza delle condizioni carcerarie (
Kuptsov e Kuptsova c. Russia; Tsarenko c. Russia; Vladimir Sokolov c. Russia); cinque riguardano, invece, casi di maltrattamenti ad opera delle forze dell’ordine, di cui tre al momento dell’arresto o immediatamente dopo (
Beristain Ukar c. Spagna;
Bocharov c. Ucraina; Nowak c. Ucraina); una al momento di una perquisizione (
Iljina and Saruliené c. Lituania) e una durante la detenzione (
Serdar Guzel c. Turchia). Tra le pronunce citate, si segnala il caso
Beristain Ukar in cui la Corte ha ritenuto che la Spagna avesse
violato l’articolo 3, non nel sul suo aspetto materiale, non sussistendo prove sufficienti per concludere in tal senso, bensì unicamente per quanto riguarda il profilo procedurale
, dal momento che i giudici spagnoli non avevavo effettuato un’indagine approfondita ed efficace dei maltrattamenti subiti dal ricorrente (sul caso, cfr. comunque ampiame
nte la scheda di Marta Muñoz de Morales Moreno, pubblicata in questa
Rivista).
Da ultimo, si segnala la sentenza Elmuratov c. Russia in tema di estradizione, nella quale la Corte ha escluso una violazione dell’art. 3 Cedu, perché il ricorrente non aveva fornito alcuna prova del rischio specifico di essere sottoposto a maltrattamenti in caso di estradizione in Uzbekistan.
c) In tema di art. 5 § 1 Cedu, merita menzione la sopra citata sentenza Elmuratov c. Russia, nella quale la Corte ha ritenuto che la privazione della libertà personale del ricorrente nel corso del procedimento di estradizione fosse priva di una base legale nell’ordinamento interno, in quanto l’ordine di internamento veniva disposto dal procuratore generale, e non dal giudice procedente, come previsto dalla normativa interna.
E ancora, nelle già menzionate sentenze Murtazovy c. Russia e Nowak c. Ucraina, la Corte ha ravvisato anche una violazione dell’art. 5 Cedu in relazione al mancato riconoscimento da parte delle autorità statali dell’avvenuta detenzione del ricorrente.
d) Tra le pronunce in tema di art. 10 Cedu, particolare importanza riveste la pronuncia Otegi Mondragon c. Spagna, nella quale la Core ha riconosciuto una violazione dell’art. 10 Cedu in relazione alla condanna penale subita dal ricorrente per aver aver diffamato, nel corso di un comizio, il Re di Spagna, affermando che il Re è colui che “difende la tortura e impone con torture e violenze il regime monarchico”. E in particolare, la Corte, pur riconoscendo la legittimità della previsione nell’ordinamento spagnolo di una norma incriminatrice che tutela in maniera specifica la reputazione del Re, ha ritenuto che nel caso di specie la condanna del ricorrente non fosse necessaria in una società democratica perché le sue parole non contenevano alcun incitamento all’odio o all’uso della violenza.
E ancora si segnala la sentenze
Cornelia Popa c. Romania, in cui la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 10 Cedu in relazione alla condanna del ricorrente per fatti di diffamazione commessi nei confronti di un magistrato affermando che l’articolo incriminato riguardava la vita professionale del magistrato, e non la sua vita privata. A conclusioni simili, la Corte è giunta anche nella sentenza
Gouveia Gomes Fernandes e Freitas e Costa c. Portogallo, relativa ad un procedimento intentato in sede civile per fatti di diffamazione nei confronti di un magistrato, in esito al quale i ricorrenti avevano riportato la condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. Essa presenta tuttavia profili di interesse (come anche la successiva sentenza
Siryk c. Ucraina), perché i principi in tema di diritto di critica e di cronaca in essa ribaditi dalla Corte sono del tutto analoghi a quelli che vigono in materia penale. (
Introduzione a cura di Lodovica Beduschi)
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2. Articolo 2 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 3 marzo 2011, ric. n. 33488/04, Khambulatova c. Russia (importance level 3)
La ricorrente, Amnat Khambulatova, è la madre di Timur Kambulatov, ragazzo trovato senza vita presso la stazione di polizia di Saveliyevskaya, dopo essere stato ivi portato dalle Forze dell’Ordine poiché sospettato di terrorismo.
Invocando gli artt. 2, 3 e 13 Cedu, lamenta che la morte del figlio è stata cagionata dai maltrattamenti delle autorità locali che, inoltre, hanno omesso di compiere delle effettive indagini volte ad accertare le circostanze del decesso.
La Corte, preso atto che l’autopsia sul cadavere ha accertato con chiarezza che la morte è sopravvenuta per una preesistente patologia cardiaca, ha negato la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo del diritto alla vita; al contrario, ha rilevato la violazione dell’art. 2 Cedu dal punto di vista dell’insufficienza delle indagini espletate per l’accertamento dei fatti.
I Giudici di Strasburgo hanno altresì concluso per la violazione dell’art. 3 Cedu, sottolineando come le ferite trovate sul corpo di Timur Kambulatov, inferte durante il periodo in cui lo stesso si trovava sotto la responsabilità delle Forze dell’Ordine, come risulta dall’autopsia sul cadavere, denotano oltre ogni ragionevole dubbio che la vittima è stata sottoposta a trattamenti inumani e degradanti.
Alla luce delle suddette conclusioni è stata esclusa la necessità di valutare separatamente la violazione dell’art. 13 Cedu.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 3 marzo 2011, ric. n. 21454/04, Merkulova c. Ucraina (importance level 3)
La ricorrente, Nataliya Merkulova, è una cittadina ucraina, madre di un ragazzo deceduto a seguito delle percosse subite da un conoscente.
Invocando gli artt. 2, 3, 6 § 1 e 13 Cedu, lamenta la negligenza delle autorità ucraine nelle indagini sulle circostanze della morte del figlio.
I Giudici di Strasburgo hanno escluso che le sofferenze patite dalla donna per le omesse indagini e per i ritardi nel procedimento possano costituire dei trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 Cedu.
La Corte, inoltre, dopo aver escluso l’applicabilità nel caso di specie degli art. 6 § 1 e 13, ha rilevato la violazione dell’art. 2 Cedu sul versante procedurale, a causa dei ritardi nel procedimento determinati dalle negligenze delle autorità locali nel corso delle indagini.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 8 marzo 2011, ric. nn. 29007/06, 30552/06, 31323/06, 31920/06, 34485/06, 38960/06, 38996/06, 39027/06, 39067/06, Lapusan e altri c. Romania (importance level 2)
I ricorrenti sono nove cittadini rumeni: sei feriti gravemente durante le manifestazioni del 1989 contro il regime comunista e tre parenti stretti di persone uccise durante tali proteste.
Invocando l’art. 2 Cedu, lamentano l’inefficienza del procedimento volto ad accertare le responsabilità penali dei presunti responsabili della repressione.
La Corte, dopo aver rilevato l’eccessiva durata del procedimento, benché questa non fosse tale da far maturare la prescrizione dei reati, ha concluso per la violazione procedurale dell’art. 2 Cedu, sottolineando come l’importanza della vicenda avrebbe richiesto maggior speditezza da parte delle autorità.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 15 marzo 2011, ric. n. 39358/05, Tsechoyev c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, Ruslan Tsechoyev, è un cittadino russo, il cui fratello, Suleyman Tsechoyev, è stato trovato privo di vita a seguito del rapimento, da parte di uomini che indossavano uniformi di polizia, dal centro di detenzione dove si trovava in quanto sospettato di concorso nel sequestro di un parente di un imprenditore locale. In particolare, i presunti agenti, presentandosi presso il centro di detenzione con dei documenti falsi con cui veniva richiesto l’affidamento del signor Suleyman Tsechoyev per trasferirlo in un diverso centro, riuscivano a farsi consegnare in custodia l’uomo.
Invocando l’art. 2 Cedu, il ricorrente lamenta l’assenza di effettive indagini volte all’individuazione dei responsabili dell’omicidio, nonché la responsabilità degli agenti in servizio presso il centro di custodia, rei di non essersi resi conto del pericolo che il fratello stava correndo.
La Corte ha escluso la violazione dell’art. 2 Cedu sul versante sostanziale, rilevando come non era in alcun modo prevedibile che la vita del signor Suleyman Tsechoyev sarebbe stata posta in pericolo consegnando l’uomo ad agenti, peraltro in possesso di documentazione apparentemente regolare, per un trasferimento ad un altro centro di detenzione.
I Giudici di Strasburgo, diversamente, hanno ritenuto violato l’art. 2 Cedu sul piano processuale, in quanto non sono state compiute indagini sufficienti, seguendo una precisa linea investigativa, dirette all’individuazione dei responsabili.
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 24 marzo 2011, ric. n. 23458/02, Giuliani e Gaggio c. Italia (importance level 1)
La grande camera si è pronunciata sulla vicenda dell’uccisione di Carlo Giuliani ad opera di un agente dell’arma dei Carabinieri, avvenuta durante gli scontri di piazza che accompagnarono il vertice del G8 di Genova nel 2001, in merito alla quale si era già pronunciata la quarta sezione.
Essa ha escluso, per 13 voti a 4, la violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu in relazione all’uso dell’arma da parte dell’agente, dal momento che questi aveva agito per evitare quello che percepiva, in buona fede, come un pericolo reale ed imminente per la vita propria e dei colleghi.
E ancora haescluso, per 10 voti a 7, la violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu sia in relazione all’inadeguatezza del quadro normativo che disciplina l’uso della forza e delle armi in Italia (affermando sul punto che l’interpretazione convenzionalmente orientata degli artt. 52 e 53 c.p. fatta propria dalla giurisprudenza italiana è sufficiente a escludere la sussistenza di una violazione dell’art. 2 Cedu),sia in relazione alla particolare carica offensiva delle armi con cui erano stati equipaggiati gli agenti.
La grande camera ha altresìescluso, per 10 voti a 7, la violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu in relazione alle carenze organizzative dell’operazione di law enforcement, affermando che le autorità nazionali non erano venute meno all’obbligo positivo di protezione che su di esse grava ex art. 2 Cedu (alriguardo, i giudici europei hanno precisato, da un lato, che l’oggetto della decisione della Corte non riguardava l’organizzazione delle operazioni di polizia nel loro complesso, ma solo la sussistenza di eventuali negligenze che avessero avuto un’efficienza causale diretta rispetto alla morte di Giulianie, dall’altro, che nulla faceva presagire un pericolo individuato per la vita del giovane).
Essa ha poiescluso, sempre per 10 voti a 7, la violazione procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione alle indagini sulle dinamiche della morte di Carlo Giulianidal momento che i ricorrenti non erano riusciti a dimostrare le lacune dell’esame autoptico.
I giudici europei hanno infine escluso, per 13 voti a 4, la violazione dell’art. 13 Cedu in relazione alle garanzie di partecipazione al processo e all'effettività del rimedio giurisdizionale a disposizione dei ricorrenti.
C. eur. Dir. Uomo, sez. I, sent. 29 marzo 2011, ric. n. 11564/07, Murtazovy c. Russia (importance level 3)
Tipico caso di sparizione ceceno: i ricorrenti sono i familiari dell’ex capo dell’amministrazione locale di Naurskaya (Cecenia), che veniva prelevato di forza dalla propria abitazione da alcuni uomini armati che indossavano l’uniforme dell’esercito russo, senza farvi più ritorno. La Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale (rilevando, da un lato, che in assenza di una diversa prova da parte delle autorità, il Governo russo doveva ritenersi responsabile dell’accaduto e, dall’altro, che nel caso di una detenzione protrattasi per anni, in assenza di conferme o smentite da parte delle autorità e in un contesto di conflitto armato, si dovesse presumere che l’uomo fosse morto) e procedurale con riferimento all’ineffettività delle indagini. Essa ha altresì ravvisato la violazione degli artt. 13 e 2 Cedu perché l’ineffettività delle indagini penali condotte aveva determinato l’ineffettività di qualsiasi altro rimedio, inclusi quelli civilistici.
E ancora, i giudici europei hanno concluso per la violazione dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamento inumano e degradante in riferimento alla sofferenza prolungata patita dai familiari dell’uomo scomparso, di cui per anni non hanno avuto più alcuna notizia. Essi non hanno invece ritenuto di esaminare separatamente la violazione degli artt. 13 e 3 Cedu.
Da ultimo, la Corte ha ravvisato la violazione dell’art. 5 § 1 Cedu in relazione al mancato riconoscimento da parte delle autorità statali della detenzione del ricorrente (unacknowledged detention).
Corte eur. dir. uomo, sez. II, sent. 29 marzo 2011, ric. n. 47357/08, Alikaj e altri c. Italia, (importance level 2)
I ricorrenti sono i genitori di un ragazzo albanese rimasto ucciso nel dicembre 1997 da un colpo di arma da fuoco esploso da un ufficiale della polizia che lo stava inseguendo dopo che era scappato durante un controllo sull’autostrada Milano-Bergamo. Sull’accaduto era stata immediatamente aperta un’inchiesta, cui inizialmente partecipavano alcuni ufficiali dello stesso corpo di appartenenza dell’agente, ma il procedimento penale per omicidio volontario aperto nei confronti del poliziotto si concludeva solo nel 2006. E in particolare, la Corte di assise di Bergamo riconosceva l’agente colpevole di omicidio colposo, ma – applicate le attenuanti generiche in ragione della sua giovane età e del fatto che appartenesse alla polizia – lo proscioglieva per intervenuta prescrizione. Dopo che il 20 marzo 2008 la Corte di Cassazione aveva rigettato il ricorso del Pubblico Ministero, i ricorrenti avevano adito la Corte europea dei diritti dell’Uomo invocando gli artt. 2, 6 e 13 Cedu.
La Corte ha ravvisato all’unanimità una duplice violazione dell’art. 2 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, ritenendo invece assorbite le ulteriori doglianze. Quanto al profilo sostanziale, essa ha, in primo luogo, sottolineato l’assenza nell’ordinamento italiano di una regolamentazione dell’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, in conformità con gli obblighi discendenti dall’art. 2 Cedu e, in secondo luogo, essa ha osservato che nel caso di specie l’uso della forza letale non poteva considerarsi necessario (prima ancora che proporzionato) ai sensi dell’art. 2 § 2 Cedu perché gli agenti non avevano alcun elemento per ritenere che i giovano fossero pericolosi e che fosse necessario impedirgli a tutti i costi la fuga (essi non erano armati e che non avevano tenuto un comportamento aggressivo, limitandosi a fuggire). Per quel che concerne il profilo procedurale, invece, la Corte ha censurato in primo luogo la mancanza di indipendenza delle indagini (perché i primi atti di indagine erano stati posti in essere da agenti appartenenti allo stesso comando e supervisionate dal diretto superiore del poliziotto coinvolto) e in secondo luogo ha ritenuto che l’intervenuta prescrizione avesse sottratto il poliziotto, pure riconosciuto colpevole, all’applicazione della pena. La Corte ha quindi riconosciuto ai ricorrenti, a titolo di equa riparazione ex art. 41 Cedu, 5.000 euro a testa in relazione al danno patrimoniale da essi subito, nonché 50.000 euro ciascuno ai genitori del giovane e 15.000 euro ciascuna alle due sorelle in relazione al danno non patrimoniale e 20.000 euro complessivi per le spese di causa.
Corte eur. dir. uomo, sez. I, sent. 29 marzo 2011, ric. n. 23445/03, Esmukhambeton e altri c. Russia, (importance level 2)
La vicenda riguarda l’operazione di bombardamento del villaggio di Kogi in Cecenia ad opera di un aereo militare russo avvenuta nel settembre 1999, perché nei pressi del villaggio si trovava un gruppo di combattenti ceceni. Durante il raid erano rimasti uccisi tre donne e due bambini e le case dei ricorrenti erano state danneggiate o distrutte.
La Corte ha riconosciuto anziutto una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale perché l’attacco – pur perseguendo uno scopo legittimo perché le autorità russe avevano avuto informazioni in merito alla presenza di terroristi nel villaggio – non era stata pianificato ed eseguito con le cautele necessarie per tutelare la vita della popolazione civile, e in particolare le autorità non prendevano nemmeno in considerazione la possibilità di utilizzare misure meno incisive, come ad esempio, il ricorso alle truppe di terra.
La Corte ha poi ravvisato anche una violazione procedurale dell’art. 2 Cedu con riferimento alla ineffettività delle indagini (osservando in particolare l’inchiesta penale veniva aperta due mesi dopo l’accaduto e durava per tre anni, subendo continue interruzioni, senza che le vittime venissero coinvolte nelle indagini).
E ancora, i giudici europei hanno riscontrato una violazione degli artt. 13 e 2 Cedu, affermando che il risarcimento ricevuto dai ricorrenti non poteva essere considerato un rimedio effettivo e che, inoltre, l’ineffettività delle indagini penali condotte aveva determinato l’ineffettività di qualsiasi altro rimedio. Sulla base di tale considerazione, essi hanno altresì riconosciuto una violazione del combinato disposto degli artt. 13, 8 e 1 Prot. N. 1 Cedu, sottolineando inoltre che, anche qualora fosse stato possibile esercitare un’azione civile per ottenere il risarcimento del danno subito, questa non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere accolta perché la giurisprudenza delle corti Russe nega il diritto al risarcimento dei danni causati dall’esercito nel contesto di conflitti armati.
La Corte ha quindi ravvisato una violazione degli artt. 8 e 1 Prot. n. 1 Cedu in relazione alla distruzione delle abitazioni dei ricorrenti, affermando che l’interferenza nei citati diritti convenzionali era priva di base legale perché la legislazione russa in materia di terrorismo non disciplina in maniera sufficientemente precisa lo scopo e i poteri delle autorità nazionali
Da ultimo, essa ha riconosciuto una violazione dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamento inumano, in relazione ad uno dei ricorrenti che assisteva alla uccisione di tutta la sua famiglia (escludendo invece la violazione della suddetta norma convenzionale in relazione agli altri ricorrenti).
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3. Articolo 3 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 3 marzo 2011, ric. n. 6110/03, Kuptsov e Kuptsova c. Russia (importance level 3).
I ricorrenti sono due cittadini russi: Denis Kuptsov e sua madre, Lyudmila Kuptsova.
Nel 2002 il signor Kuptsov, all’epoca minorenne, è stato sottoposto ad un lungo periodo di detenzione preventiva, in quanto accusato di concorso in rapina aggravata.
Invocando gli artt. 3 e 5 § § 1, 3 e 4 Cedu, i ricorrenti lamentano le condizioni inumane e degradanti della detenzione, nonché l’illegittimità della stessa in quanto eccessivamente lunga e senza adeguate garanzie processuali.
Sotto il profilo procedurale, inoltre, ravvisano la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu nell’illegittima composizione del collegio giudicante.
La Corte ha concluso per la violazione dell’art. 3 Cedu, rilevando come la detenzione per un lungo periodo di tempo in una cella sovraffollata – con meno di un metro quadrato a persona – priva di finestre, bagno e letto costituisce un trattamento inumano e degradante.
La Corte ha altresì riscontrato la violazione dell’art. 5 § 1, affermando che la detenzione del ricorrente era priva di base legale perché lo stesso era stato assoggettato alla misura privativa della libertà personale in assenza di un previo e motivato provvedimento del giudice che la giustificasse.
I Giudici di Strasburgo, inoltre, hanno affermato che il ritardo con cui ha avuto inizio il procedimento, valutato alla luce della minore età della vittima, privata della possibilità di frequentare le lezioni scolastiche per un lungo periodo, nonché la mancata partecipazione ad alcune udienze dell’imputato e del suo difensore, costituiscono violazioni dell’art. 5 § § 3 e 4.
Da ultimo, la Corte ha accolto le doglianze dei ricorrenti in ordine alla violazione dell’art. 6 § 1 Cedu, rilevando come un giudice fosse privo della legittimazione a sedere nel consesso.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 3 marzo 2011, n. 5235/09, Tsarenko c. Russia (importance level 3).
Il ricorrente, Vitaliy Tsarenko, è un uomo di nazionalità russa, sottoposto a custodia cautelare in carcere dal Marzo del 2007 all’Aprile del 2010, in quanto sospettato di omicidio.
Invocando l’art. 3 Cedu lamenta di aver subito trattamenti inumani e degradanti, poiché detenuto in una cella sovraffollata.
Il ricorrente, inoltre, afferma di essere stato illegittimamente detenuto, in violazione degli artt. 5 § § 1, 3 e 4 Cedu.
Sotto il profilo procedurale, infine, ritiene che l’assenza di un effettivo rimedio contro i trattamenti inumani e degradanti subiti costituisce una violazione dell’art. 13 Cedu.
I Giudici di Strasburgo, in accoglimento del ricorso, hanno rilevato come il signor Tsarenko ha subito dei trattamenti inumani e degradanti, contrari al dettato di cui all’art. 3 Cedu, in quanto costretto in una cella sovraffollata, con quattro detenuti in otto metri quadrati ed uno spazio personale di soli due metri quadrati.
La Corte, inoltre, ha ravvisato la violazione dell’art. 5 § 1 nel fatto che la custodia cautelare in carcere è stata prolungata arbitrariamente, in assenza di una norma di legge che lo consente, e senza l’indicazione di un limite temporale alla sua durata.
La Corte ha altresì ritenuto che l’eccessivo arco di tempo trascorso in detenzione preventiva e la sua estensione in assenza di specifiche motivazioni, nonché il periodo di tempo superiore a quaranta giorni impiegato dalla Suprema Corte di Mosca per decidere sui ricorsi presentati dal signor Tsarenko, costituiscono violazioni degli artt. 5 § § 3 e 4 Cedu.
I Giudici di Strasburgo, da ultimo, hanno concluso per la violazione dell’art. 13 Cedu, in relazione all’art. 3, laddove la Russia non prevede né degli strumenti interni finalizzati a porre rimedio ai trattamenti inumani e degradanti determinati dal problema strutturale del sovraffollamento delle celle, né una azione per il risarcimento dei danni subiti a causa delle condizioni di detenzione.
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 8 marzo 2011, ric. n. 40351/05, Beristain Ukar c. Spagna (importance level 3)
Il ricorrente, Aritz Beristain Ukar, è un cittadino spagnolo, arrestato a San Sebastian in quanto sospettato di aver preso parte a violenti scontri in città.
Invocando l’art. 3 Cedu, lamenta di aver subito trattamenti inumani e degradanti nei cinque giorni in cui è stato detenuto a San Sebastian ed a Madrid.
La Corte, dopo aver rilevato che a seguito della denuncia di trattamenti inumani e degradanti da parte del ricorrente non hanno fatto seguito delle indagini effettive volte alla individuazione dei responsabili e che i giudici spagnoli non hanno valutato in modo sufficientemente approfondito tutte le perizie dei medici volte ad accertare la sussistenza di segni di maltrattamenti (sono state prese in considerazione solo tre delle cinque perizie effettuate), ha concluso per la violazione dell’art. 3 Cedu, sotto il profilo processuale.
I Giudici di Strasburgo, tuttavia, hanno ritenuto di dover escludere la violazione dell’art. 3 Cedu sul versante sostanziale, sottolineando come, anche a causa delle insufficienti indagini, non sia stata fornita dal ricorrente la prova oltre ogni ragionevole dubbio delle violenze subite.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 15 marzo 2011, ric. n. 39414/06, Serdar Guzel c. Turchia (importance level 3).
Il ricorrente, Serdar Guzel, è un cittadino Turco, arrestato nel febbraio del 1999 in quanto sospettato di appartenere ad un’organizzazione criminale.
Invocando l’art. 3 Cedu, lamenta di aver subito torture durante la sua detenzione e che le autorità locali non hanno provveduto a svolgere delle indagini effettive volte ad individuare e punire i responsabili delle violenze.
Il ricorrente, inoltre, lamenta l’assenza di un rimedio effettivo avverso l’illecito subito, l’eccessiva durata della detenzione cautelare – protrattasi per undici anni –, nonché l’eccessiva durata del procedimento a suo carico – sfociato nella sentenza di primo grado dopo dodici anni –, in netto contrasto con i principi di cui agli artt. 5 § 3, 6 § 1 e 13 Cedu.
La Corte – dopo aver ribadito in via preliminare i principi consolidati nella giurisprudenza di Strasburgo secondo cui lo Stato è responsabile della salute dei soggetti detenuti, in quanto particolarmente vulnerabili, che il reato di tortura, perpetrato durante il servizio da parte di agenti di polizia, non può essere soggetto a prescrizione o beneficiare di una eventuale amnistia e, infine, che l’agente accusato di tali gravi reati deve essere immediatamente sospeso dal servizio – ha ravvisato la violazione dell’art. 3 Cedu, tanto dal punto di vista sostanziale, quanto dal punto di vista procedurale.
Nel caso di specie, infatti, le violenze subite dal ricorrente, così come documentate dai referti medici prodotti, permettono di affermare agevolmente che lo stesso è stato vittima di maltrattamenti, qualificabili come tortura.
Le autorità nazionali, inoltre, non hanno adottato alcun provvedimento volto a sospendere dal servizio i presunti responsabili delle violenze perpetrate nei confronti del ricorrente, né hanno agito con solerzia e diligenza, facendo sì che il processo non si sia potuto concludere prima del decorso del termine di prescrizione del suddetto reato.
I Giudici di Strasburgo hanno altresì concluso per la violazione degli artt. 13, 5 § 3 e 6 § 1 Cedu, stante l’assenza di un effettivo rimedio avverso l’illecito subito e l’eccessiva durata della detenzione cautelare e del procedimento penale.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 15 marzo 2011, ric. n.32293/05, Iljina and Saruliené c. Lituania (importance level 2)
Le ricorrenti, Denuta Ilijna ed Evelina Saruliené, sono due cittadine lituane, aggredite senza alcun motivo da agenti di polizia impegnati in un’operazione diretta alla perquisizione dei locali del loro vicino di casa al fine di rinvenire beni oggetto di un precedente furto.
Invocando l’art. 3 Cedu, lamentano di aver subito dei trattamenti inumani e degradanti, nonché la mancanza di indagini effettive volte all’identificazione ed alla punizione dei soggetti responsabili.
La Corte di Strasburgo ha ravvisato la violazione dell’art. 3 Cedu sia sul versante sostanziale che processuale.
Quanto al primo profilo, la Corte ha sottolineato come le lesioni riscontrate sul corpo delle ricorrenti – risultanti dai referti medici prodotti in giudizio – oltre ad essere coerenti con il loro racconto dell’episodio, sono tali da costituire trattamenti degradanti. Quanto, invece, al profilo procedurale, i giudici europei hanno osservato che le persone offese ed i testimoni sono stati sottoposti a pesanti pressioni psicologiche, tali da impedire agli stessi di riferire liberamente in merito all’accaduto, posto che la loro audizione è avvenuta nei locali della polizia ove prestano servizio gli agenti coinvolti.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 17 marzo 2011, n. 21037/05, Bocharov c. Ucraina (importance level 3)
Il ricorrente – un cittadino ucraino arrestato dalla polizia perché sospettato di detenere e vendere armi – veniva picchiato ripetutamente alla testa, al torace e ai reni, prima di essere condotto alla stazione di polizia, dove confessava il crimine di cui era accusato.
La Corte, chiamata a valutare la sussistenza di una violazione sostanziale e procedurale dell’art. 3 Cedu, ha ritenuto che il ricorrente avesse fornito riscontri sufficienti alle proprie allegazioni, e che doveva ritenersi che lo stesso fosse stato vittima di maltrattamenti ad opera delle guardie carcerarie. Essa ha riscontrato inoltre una violazione procedurale dell’art. 3 Cedu in relazione all’ineffettività delle indagini svolte a seguito della denuncia dei maltrattamenti subiti dal ricorrente. E in particolare, i giudici europei hanno anzitutto censurato l’attività svolta per assicurare importanti elementi di prova, sottolineando che vi erano stati gravi ritardi e che, inoltre, la perizia disposta nei confronti del ricorrente non era stata disposta mentre il ricorrente si trovava ancora in ospedale, nonostante questi avesse riferito al personale medico di aver subito dei maltrattamenti da parte delle forze di polizia. Quanto allo svolgimento delle indagini, invece, essi hanno rilevato che i poliziotti coinvolti nell’accaduto venivano interrogati dopo che erano trascorsi nove mesi dalla commissione del fatto. La Corte ha, quindi, condannato il Governo turco a pagare al ricorrente, ex art. art. 41 Cedu, 10.000 euro per i danni morali e 5.000 euro per le spese legali.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 29 marzo 2011, n. 31242/05, Vladimir Sokolov c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, un cittadino russo, è attualmente detenuto nel carcere di Nizyhniy Novgorod, dove sta scontando una condanna alla pena detentiva di diciannove anni di reclusione per omicidio e importazione illecita e detenzione di armi da fuoco. Il ricorso si fonda sugli artt. 3 (in relazione alle condizioni della custodia cautelare in carcere e all’assenza di cure mediche adeguate) e 34 Cedu (in quanto sosteneva che le autorità russe avessero tentato di intimidire lui e i suo familiari nella decisione di ricorrere alla Corte europea).
La Corte ha affermato una violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamenti inumani e degradanti sotto il profilo delle condizioni della detenzione, perché per tutta la durata della detenzione preventiva (quasi due anni e sette mesi) il ricorrente aveva avuto a disposizione uno spazio individuale di meno di 3 metri quadri etri quadri. Invece, la Corte ha dichiarato irricevibile la doglianza relativa al mancato apprestamento di cure mediche adeguate per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
Quanto alla asserita violazione dell’art. 34 Cedu, la Corte ha escluso che il ricorrente avesse fornito elementi di prova sufficienti per ritenere che le autorità russe avessero sottoposto lui e i suoi familiari ad intimidazioni di alcun tipo.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 31 marzo 2011, n. 60846/10, Nowak c. Ucraina (importance level 2)
Il ricorrente, cittadino polacco, nel 2004 lasciava la Polonia per l’Ucraina. Prima di partire, tuttavia, comunicava alle autorità polacche dove poteva essere contattato in quanto era pendente nei suoi confronti un procedimento penale per furto. Nel gennaio 2005, era stato arrestato, mentre si trovava presso la stazione di polizia di Lviv per denunciare il furto della sua auto, perché le autorità ucraine avevano accertato che il suo nominativo era stato inserito in Polonia in una lista di ricercati con l’accusa di furto. Durante l’arresto, gli agenti di polizia lo picchiavano ripetutamente e gli spegnavano delle sigarette sul braccio. Dopo essere stato trattenuto per quattro giorni presso la stazione di polizia, gli veniva notificato un provvedimento di espulsione, nonostante il suo permesso di soggiorno fosse valido fino a maggio 2005.
La Corte, chiamata a valutare anzitutto la sussistenza di una violazione sostanziale e procedurale dell’art. 3 Cedu, ha ritenuto che i referti medici prodotti dal ricorrente, in assenza di spiegazioni alternative da parte del governo ucraino, fossero sufficienti per ritenere che lo stesso fosse stato vittima di maltrattamenti ad opera delle guardie carcerarie. Essa ha riconosciuto inoltre la violazione procedurale dell’art. 3 Cedu perché le autorità ucraine non aprivano una inchiesta penale sull’accaduto.
Il ricorrente sosteneva altresì la violazione dell’art. 5 §§ 1, 2, e 4 Cedu affermando che la sua detenzione era illegale e che non era stato informato dei motivi del suo arresto né che gli era stata data la possibilità di fare ricorso. La Corte ha accolto tutte le censure del ricorrente. Per ciò che concerne la legalità della privazione della libertà personale del medesimo, i giudici europei hanno sottolineato che le autorità ucraine non avevano fornito alcun documento che comprovasse l’avvenuta detenzione del ricorrente. Tuttavia, in assenza di spiegazioni alternative da parte del Governo, essi hanno ritenuto che il ricorrente fosse stato effettivamente privato della libertà personale e che tale privazione fosse priva di base legale nel diritto interno..
Infine, la Corte ha concluso anche per la violazione dell’art. 1 Prot. n. 7 Cedu (garanzie procedurali in materia di espulsione di stranieri) poiché il provvedimento di espulsione veniva comunicato al ricorrente in una lingua a lui non conosciuta e senza l’assistenza di un legale.
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4. Articolo 5 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 3 marzo 2011, n. 66317/09, Elmuratov c. Russia (importance level 3).
Il ricorrente, Ziyadullo Khuzhayarovich Elmuratov, cittadino uzbeco residente in Russia dal febbraio 2008, veniva sottoposto a custodia cautelare in carcere dalla polizia russa nell’aprile del 2009 in quanto iscritto in una lista di ricercati per furto di bestiame in Uzbekistan e, al momento della decisione della Corte, si trovava ancora in stato di detenzione in attesa di essere estradato verso il Paese di origine.
Il ricorrente lamenta la violazione da parte della Russia dell’art. 3 Cedu, poiché, in caso di estradizione, correrebbe il rischio di subire maltrattamenti da parte della polizia uzbeca, e dell’art. 5 §§ 1 lett. f e 4 Cedu, affermando di essere stato illegittimamente privato della libertà personale, in attesa del procedimento di estradizione, senza che venisse garantito nemmeno il suo diritto ad un rapido giudizio finalizzato a valutare la legittimità del provvedimento al quale lo stesso è stato assoggettato.
La Corte ha negato la violazione dell’art. 3 Cedu, rilevando che il ricorrente non ha fornito alcuna specifica prova del rischio di essere sottoposto a maltrattamenti in caso di estradizione in Uzbekistan.
I Giudici di Strasburgo, al contrario, hanno affermato la violazione dell’art. 5 § 1, in quanto la privazione della libertà del ricorrente contrasta con il diritto russo che, sebbene ammette che un soggetto possa essere sottoposto a misura cautelare in carcere per un periodo non superiore a due mesi sulla base della decisione del solo procuratore generale, richiede che il prolungamento del periodo di privazione della libertà personale possa avvenire solo sulla base di una decisione di un giudice in tal senso. Nel caso di specie era stato lo stesso procuratore generale, trascorsi i due mesi, a disporre il prolungamento della detenzione, senza l’intervento di alcun giudice.
La Corte, inoltre, ha rilevato la violazione dell’art 5 § 4 Cedu, in quanto è stato negato al ricorrente un effettivo mezzo di impugnazione finalizzato a valutare la legittimità del provvedimento di privazione della libertà personale.
C. eur. dir. uomo, sez. XIII, sent. 15 marzo 2011, ric. n. 20448/02, Begu c. Romania (importance level 2).
Il ricorrente, Ion Begu, è un agente di polizia rumeno, condannato a due anni di reclusione per aver preso delle tangenti da un soggetto sospettato di frode, al fine di evitare che lo stesso venisse assoggettato a misura cautelare personale.
Invocando gli artt. 5 § § 2, 3 e 4 Cedu, lamenta di non essere stato informato delle ragioni del suo arresto, nonché dell’illegittimità e dell’eccessiva durata della detenzione preventiva.
Il ricorrente, inoltre, lamenta la violazione degli artt. 6 § § 1, 2 e 3 Cedu, in quanto asserisce di non essere stato giudicato da una Corte indipendente e imparziale, di aver subito una violazione del diritto alla presunzione di innocenza per via di affermazioni in ordine alla sua responsabilità da parte del Primo Ministro e, infine, di essere stato assistito da un difensore d’ufficio in luogo del difensore di fiducia da lui nominato.
Nel ricorso, inoltre, lamenta la violazione dell’art. 1 protocollo n. 1 realizzata mediante il sequestro di beni non connessi con il reato contestato e privi di qualsiasi valenza processuale, mai restituiti.
La Corte, ritenuti infondati gli altri motivi di ricorso, ha riconosciuto la violazione degli artt. 5 § 3 Cedu e 1 protocollo n. 1, rilevando come la detenzione preventiva sia stata prolungata dai Giudici senza fornire adeguate motivazioni e come i beni sottoposti a sequestro debbano essere restituiti al proprietario una volta che sia esclusa la loro pertinenza con il reato.
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5. Articolo 10 Cedu
C. eur. dir. uomo, sez. XIII, sent. 15 marzo 2011, ric. n. 2034/07, Otegi Mondragon c. Spagna (importance level 1)
Il ricorrente, Arnaldo Otegi Mondragon, è un cittadino spagnolo, portavoce di un gruppo parlamentare separatista Basco.
Durante l’inaugurazione di una centrale elettrica a San Sebastien, in qualità di portavoce del gruppo separatista, riferendosi ad una vicenda di poco precedente e relativa all’arresto ed ai maltrattamenti subiti da giornalisti di un quotidiano sospettato di avere legami con l’organizzazione terroristica ETA, ha affermato che la presenza del Re di Spagna all’evento rappresentava “una vera vergogna politica”, in quanto il Re, essendo a capo delle forze di polizia che hanno ingiustamente maltrattato i giornalisti, è colui che “difende la tortura e impone con torture e violenze il regime monarchico”. Per tali affermazioni il ricorrente è stato condannato dai giudici spagnoli ad un anno di reclusione.
Invocando l’art. 10 Cedu, il signor Otegi Mondragon lamenta la violazione del diritto alla libertà d’espressione.
La Corte, sebbene abbia rilevato la sussistenza nell’ordinamento spagnolo di una norma incriminatrice che tutala la reputazione del Re di Spagna, ha concluso per la violazione dell’art. 10 Cedu, rilevando come le affermazioni del ricorrente, anche se provocatorie, non sono né espressioni d’odio che incitano alla violenza, né attacchi personali al sovrano, ma rappresentano una critica, peraltro mossa nell’ambito di un pubblico dibattito, al Re come istituzione e simbolo dello Stato, strettamente connessa alla gestione della vicenda che ha interessato i giornalisti maltrattati.
I Giudici di Strasburgo hanno altresì sottolineato la severità della sentenza che ha condannato il ricorrente alla reclusione ed hanno rimarcato il principio secondo cui la privazione della libertà rispetto ad un’offesa perpetrata nell’ambito di una discussione politica è compatibile solo in casi di incitamento alla violenza o espressioni d’odio.
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 29 marzo 2011, ric. n. 17437/03, Cornelia Popa c. Romania (importance level 2)
La ricorrente, una giornalista, veniva condannata, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2002, alla pena della multa e a pagare una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale .per aver pubblicato un articolo – dal titolo “La juge C.C. récidive dans des jugements stupéfiants” – in cui criticava il comportamento professionale di un magistrato, mettendo in dubbio la competenza del medesimo.
Chiamata a pronunciarsi sulla violazione dell’art. 10 Cedu, la Corte ha rilevato anzitutto che l’articolo incriminato riguardava un argomento di interesse generale, cioè la fiducia della società nella giustizia, e trattava esclusivamente della vita professionale del magistrato e non della vita privata. Pertanto, la Corte ha escluso che nel caso di specie la condanna della ricorrente, pur prevista dalla legge, potesse considerarsi necessaria in una società democratica e, pertanto, ha riconosciuto una violazione dell’art. 10 Cedu. Essa non ha accolto, invece, la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu, ritenendo che il ricorrente avesse la possibilità di fornire la prova della veridicità dei fatti oggetto del suo articolo.
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 29 marzo 2011, ric. n. 1529/08, Gouveia Gomes Fernandes e Freitas e Costa c. Portogallo (importance level 3)
I ricorrenti, entrambi avvocati, avevano fatto delle osservazioni sulla stampa in merito al presunto coinvolgimento di un giudice in una vicenda di corruzione in atti giudiziari: essi avevano sottolineato, in particolare, come la facoltà (prevista nell’ordinamento portoghese al momento dei fatti e ora abrogata) di richiedere la separazione dei procedimenti quando uno dei coimputati fosse un magistrato avrebbe potuto comportare nel caso di specie a pronunce diverse nei confronti delle persone coinvolte. Erano stati riconosciuti civilmente responsabili per diffamazione e condannati al pagamento di 25.000 euro a titolo di risarcimento del danno. La Corte ha riconosciuto una violazione dell’art. 10 Cedu, osservando che l’interferenza nella libertà di espressione dei ricorrenti, pur prevista dalla legge, non poteva considerarsi né necessaria (in quanto l’articolo in questione, inserendosi nell’ambito di un dibattito sul funzionamento della giustizia, perseguiva un chiaro interesse pubblico) né proporzionata (sul punto la Corte – estendendo alla materia civile il principio elaborato con riferimento alle condanne penale secondo cui deve sussistere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra il risarcimento del danno e il danno alla reputazione – ha ritenuto che i ricorrenti fossero stati condannati ad un importo abbastanza elevato tale da scoraggiare le persone a contribuire al dibattito pubblico su temi riguardanti la collettività).
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 31 marzo 2011, ric. n. 6428/07, Siryk c. Ucraina (importance level 2)
La ricorrente, invocando l’art. 10 Cedu, si doleva di essere stata ritenuta civilemente rresponsabile per diffamazione per aver presentato un atto di denuncia-querela nei confronti delle autorità tributarie, accusando di corruzione alcuni funzionari del «Tax Service Academy», dove suo figlio stava studiando, e condannata a ritirare la denuncia e di pagare un risarcimento al presidente dell’Accademia. La Corte ha accolto il ricorso, osservando anzitutto che la condanna della ricorrente era priva di una base legale prevedibile (sottolineando come nella giurisprudenza nazionale esistesse all’epoca dei fatti un contrasto interpretativo sulla nozione di “diffusione di informazione” rilevante ai sensi della disciplina in tema di diffamazione) e, in secondo luogo, rilevando che essa non poteva nemmeno considerarsi necessaria in una società democratica (perché la condanna civile della ricorrente per aver denunciato gli abusi di alcuni funzionari pubblici al loro superiore gerarchico, non poteva considerarsi proporzionata rispetto allo scopo legittimo di proteggere la reputazione dei pubblici ufficiali).