ISSN 2039-1676


19 febbraio 2015 |

Monitoraggio Corte Edu Novembre 2014

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Alberto Aimi e Fabio Cassibba. L'introduzione è a firma di Alberto Aimi per quanto riguarda gli art. 1 2, e 3 Cedu, mentre si deve a Fabio Cassibba la parte relativa agli art. 5, 6, 8 Cedu e 4 Prot. n. 7 Cedu.

 

1. Introduzione


a) Art. 1 Cedu

b) Art. 2 Cedu

c) Art. 3 Cedu

d) Art. 5 Cedu

e) Art. 6 Cedu

f) Art. 8 Cedu

g) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

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1. Introduzione

 

a) Art. 1 Cedu

In tema di competenza ratione loci della Corte europea, si segnala la sentenza 20 novembre 2014, Jaloud c. Olanda (su cui v. amplius infra), con la quale la grande camera ha ribadito il principio per il quale la giurisdizione degli Stati contraenti si estende in tutti i luoghi in cui questi esercitano la propria autorità su individui per il tramite dei propri agenti e, pertanto, anche sulle zone dell'Iraq occupate dalle proprie forze armate, con conseguente applicazione integrale delle garanzie convenzionali.

 

b) Art. 2 Cedu

Per quanto concerne gli obblighi discendenti dall'art. 2 Cedu, la Corte europea ha avuto innanzitutto modo, anche questo mese, di occuparsi dei trattamenti contrari ai diritti umani subiti da cittadini russi di etnia cecena nel corso della sanguinosa guerra ivi combattuta fino al 2006. Nell'ultimo caso sottoposto all'attenzione della Corte di Strasburgo è stata riconosciuta la responsabilità della Russia in relazione alla sparizione, avvenuta nel 2004, di un civile ceceno, il quale, secondo la testimonianza di un vicino, era stato sottoposto a perquisizione e interrogatorio da parte di uomini mascherati in uniforme nella notte della sparizione (sent. 27 novembre 2014, Kharayeva e altri c. Russia). La Corte europea, nel caso in parola, ha ravvisato una violazione procedurale dell'art. 2 Cedu, in relazione all'inefficienza delle indagini svolte dalle autorità russe sull'accaduto.

L'importanza dell'obbligo procedurale, discendente dall'art. 2 Cedu, di svolgere indagini effettive e indipendenti a fronte di morti che non appaiono prima facie dovute a cause naturali è stata ribadita più volte in questo mese, non solo in relazione a morti attribuibili all'operato di agenti statali (sent. 20 novembre 2014, Jaloud c. Olanda, riassunta nel paragrafo seguente), ma anche in relazione a fatti addebitabili a soggetti privati. In particolare, l'inadeguatezza delle indagini svolte intorno alla morte di cittadini dovuta alla presumibile opera di altri privati, è stata posta a fondamento della condanna per violazione procedurale dell'art. 2 Cedu, in relazione a due probabili omicidi trattati dalle autorità come suicidi (sent. 13 novembre 2104, Durmaz c. Turchia; sent. 18 novembre 2014, Emars c. Lituania), nonché ad una morte cagionata da un investimento stradale (sent. 13 novembre 2014, Starčević c. Croazia).

Per quanto riguarda, infine, gli obblighi di protezione rafforzata incombenti sulle parti contraenti nei confronti delle persone che sono affidate alla custodia delle autorità statali, si segnala la condanna per doppia violazione - sostanziale e procedurale - dell'art. 2 Cedu pronunciata a carico della Russia, per la morte di un indagato che, al momento del decesso, era detenuto in una stazione di polizia; morte in relazione alla quale le autorità competenti si erano peraltro sempre rifiutate di aprire un procedimento penale (sent. 27 novembre 2014, Karsakova c. Russia).

 

c) Art. 3 Cedu

La Corte europea ha avuto modo di occuparsi anche questo mese di casi di police brutality, commessa ai danni di indagati, detenuti o nel corso di operazioni dirette a mantenere l'ordine pubblico, ribadendo i principi espressi da una giurisprudenza ormai più che consolidata. Com'è noto, infatti, la Corte di Strasburgo non esita a ravvisare una violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu ogniqualvolta sussista la prova della commissione di violenze, o comunque di un utilizzo sproporzionato della forza, da parte delle autorità di pubblica sicurezza, nell'esercizio delle proprie funzioni, al quale si aggiunge una violazione procedurale del medesimo articolo in tutti i casi in cui la Corte europea ravvisa l'assenza - o l'ineffettività - delle indagini statali in relazione alle violenze denunciate dal soggetto maltrattato (sent. 13 novembre 2014, Cüneyt Polat c. Turchia: cfr. infra per una sintesi; sent. 13 novembre 2014, Aktürk c. Turchia; sent. 27 novembre 2014, Adnaralov c. Ucraina).

Nel caso in cui, invece, l'assenza o l'inefficienza di indagini sull'accaduto addirittura precluda la possibilità di condannare lo Stato contraente oltre ogni ragionevole dubbio, la Corte di Strasburgo ravvisa una responsabilità dello stesso per una violazione solo procedurale dell'art. 3 Cedu (sent. 4 novembre 2014, Flămînzeanu c. Romania n. 2).

Non basta, tuttavia, la mera allegazione di aver subito violenze a fondare la condanna dello Stato contraente: l'uso della forza durante un arresto, che abbia causato un infortunio dovuto anche alla precedente - e inconoscibile - fragilità fisica del soggetto arrestato, non integra alcuna violazione dell'art. 3 Cedu, quando sia stato necessario a vincere la resistenza all'arresto e sia stato seguito da un'indagine completa e imparziale sull'accaduto (sent. 20 novembre 2014, Perrillat-Bottonet c. Svizzera).

Sul diverso fronte rappresentato dalla tutela del diritto dei detenuti e degli internati a non scontare la pena in condizioni tali da integrare un trattamento inumano e degradante, in contrasto con l'art. 3 Cedu, si segnala innanzitutto la sentenza 25 novembre 2014, Vasilescu c. Belgio, con la quale la Corte di Strasburgo - sul modello della celebre sentenza Torreggiani c. Italia - ha rilevato le deficienze strutturali del sistema carcerario belga, raccomandando allo Stato l'adozione di misure generali al fine di garantire condizioni detentive conformi all'art. 3 della Convenzione e l'introduzione di uno strumento di ricorso effettivo attraverso il quale i detenuti possano evitare il protrarsi di una violazione in atto o ottenere il miglioramento delle condizioni di trattenimento (su cui v. la scheda di F. Cancellaro, Da Roma a Bruxelles: la Corte EDU applica i principi della sentenza Torreggiani anche alle condizioni di detenzione in Belgio, in questa Rivista, 9 dicembre 2014).

Condizioni di inaccettabile sovraffollamento, inadeguata assistenza medica per i detenuti, assenza di luce e ventilazione, nonché irragionevoli restrizioni della possibilità di uscire dalla cella hanno poi costituito il fondamento, anche questo mese, di numerose condanne pronunciate a carico degli Stati contraenti per violazione dell'art. 3 Cedu (sent. 4 novembre 2014, Enășoaie c. Romania; sent. 6 novembre 2014, Brlek c. Slovenia, Faganel c. Slovenia, Maselj c. Slovenia, Petrovic c. Slovenia e Puzin c. Slovenia; sent. 13 novembre 2014, Bahnă c. Romania, MD c. Grecia, Panagos c. Grecia e Papakonstantinou c. Grecia; sent. 27 novembre 2014, A.E. c. Grecia).

La Corte europea ha inoltre avuto modo di ricordare come la legittimità convenzionale della detenzione, sotto il profilo dell'art. 3 Cedu, non richiede soltanto che la stessa si svolga nel rispetto della dignità umana, ma anche che ad essa si accompagni la necessaria prospettiva, pur remota, di una sua conclusione, integrando altrimenti la pronuncia di una sentenza di condanna ad una pena perpetua senza possibilità di liberazione anticipata un trattamento contrario all'art. 3 Cedu. In applicazione di tale principio, la Corte di Strasburgo ha condannato la Bulgaria per avere commutato - a seguito dell'abolizione della pena di morte - una sentenza di condanna alla pena capitale, inflitta a un autore di una serie di crimini violenti, nella pena dell'ergastolo senza possibilità di liberazione diversa dall'emissione di un provvedimento di grazia (sent. 4 novembre 2014, Manolov c. Bulgaria); assolvendo invece la Francia in relazione a una simile doglianza proprio sulla base dell'esistenza di una possibilità legislativamente prevista di chiedere la liberazione condizionale anche nei casi di condanna all'ergastolo (sent. 13 novembre 2014, Bodein c. Francia, su cui v. infra).

La Corte di Strasburgo ha poi avuto modo di riaffermare i principi radicati nella propria giurisprudenza in tema di refoulement di stranieri verso paesi in cui costoro potrebbero incorrere in trattamenti contrari all'art. 3 Cedu. In particolare, oltre all'importante sentenza 4 novembre 2014, Tarakhel. c. Svizzera (v. infraper una sintesi), la Corte europea ha riconosciuto la violazione potenziale dell'art. 3 Cedu in caso di rimpatrio di un cittadino iraniano, entrato illegalmente in Svizzera, che era stato nel paese di origine condannato a sette anni di carcere per aver partecipato a una manifestazione di protesta (sent. 18 novembre 2014, M.A. c. Svizzera); d'altra parte, la Corte di Strasburgo ha negato che l'allegazione di asserite carenze del sistema sanitario della Russia - paese di origine del ricorrente - fosse sufficiente a far ritenere l'espulsione contraria all'art. 3 Cedu (sent. 18 novembre 2014, Senchishak c. Finlandia).

Infine, merita di essere segnalata la sentenza 6 novembre 2014, DvoÅ™áček c. Repubblica Ceca, con la quale la Corte europea ha esaminato nell'ottica dell'art. 3 Cedu il ricorso di un soggetto che, affetto dalla malattia degenerativa del sistema nervoso conosciuta come sindrome di Wilson, aveva sviluppato una pericolosa efebofilia e, più volte condannato, era infine stato sottoposto ad un trattamento di castrazione chimica, eseguito - a dire del ricorrente - senza consenso. La Corte di Strasburgo assolve lo Stato convenuto sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto il profilo procedurale delle obbligazioni discendenti dall'art. 3 Cedu, riconoscendo come le autorità nazionali avessero in realtà operato col pieno consenso del condannato.

 

d) Art. 5 Cedu

Sul versante della legalità della detenzione, protetta dall'art. 5 comma 1 Cedu, va anzitutto segnalata la sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania (per una sintesi, v. infra), che accerta la violazione della previsione pattizia sotto due profili. Da un canto, il trattenimento coattivo della ricorrente per diverse ore nell'ufficio del pubblico ministero, formalmente disposto da quest'ultimo affinché la prima prendesse visione del fascicolo contro di lei, viola l'art. 5 comma 1 lett. b Cedu poiché risulta misura arbitraria. Dall'altro, la traduzione della ricorrente in un ospedale psichiatrico, anch'essa disposta dal pubblico ministero, viola l'art. 5 comma 1 lett. e Cedu perché avviene in forza di pretesi - ma non comprovati - disturbi della personalità. In un caso analogo, la sent. 25 novembre 2014, K.C. c. Polonia, accerta la violazione della medesima previsione, dal momento che il ricovero coatto della ricorrente, per ordine dei servizi sociali, in una struttura protetta per schizofrenici non è giustificato, mancando la prova delle sue condizioni di schizofrenia permanente.

Il tema della legalità della custodia cautelare è pure affrontato dalla sent. 27 novembre 2014, Khomullo c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), in rapporto ai presupposti per disporre e mantenere la detenzione in pendenza di un procedimento di estradizione passiva. Qui, la Corte europea ravvisa la violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu: la custodia cautelare è stata inizialmente applicata in forza di una legge che non assicura gli standard qualitativi imposti dalla previsione sovranazionale; né, modificata la legge processuale interna, la situazione del ricorrente è cambiata perché le nuove norme non l'hanno posto al riparo dal rischio di subire condotte arbitrarie da parte dell'autorità procedente.

In rapporto alla durata ragionevole della custodia cautelare, merita segnalare la sent. 6 novembre 2014, Ereren c. Germania, che esclude la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu. Il mantenimento dello stato custodiale per complessivi cinque anni e otto mesi è sempre giustificato: la detenzione si fonda sull'esigenza di preservare l'attività di ricerca delle prove, compiuta per rogatoria nell'ambito di un complesso procedimento, svolto con diligenza e tempestività da parte delle autorità tedesche; inoltre, la sussistenza dei presupposti custodiali è stata costantemente ed effettivamente vagliata dai giudici competenti

Quanto, infine, al diritto a un controllo giurisdizionale effettivo circa la legalità della custodia cautelare ex art. 5 comma 4 Cedu, rilevano due pronunce appena rammentate (e per la cui sintesi v. infra). Da un lato, la sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania, accerta la violazione della previsione in parola poiché la ricorrente non ha potuto sottoporre a controllo giurisdizionale l'ordine del pubblico ministero di disporre la detenzione presso un ospedale psichiatrico. Dall'altro, la sent. 27 novembre 2014, Khomullo c. Ucraina, accerta la violazione della medesima disposizione perché alcuni ricorsi dell'imputato sono stati esaminati con ritardo dal giudice de libertate, mentre altri non sono stati neppure esaminati o sono stati rigettati con decisioni prive di motivazione. Viceversa, la violazione dell'art. 5 comma 4 Cedu è esclusa dalla già indicata sent. 25 novembre 2014, K.C. c. Polonia: il ricovero coatto della ricorrente in una struttura protetta per soggetti affetti da disturbi psichiatrici è sottoposto a controllo giurisdizionale effettivo e continuativo.

 

e) Art. 6 Cedu

Sul versante della tutela dell'equità processuale, la sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania (per una sintesi, v. infra) affronta il profilo della durata ragionevole del procedimento. I giudici di Strasburgo escludono la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, poiché i quasi otto anni trascorsi dalla notificazione dell'accusa alla decisione finale, impiegati per svolgere tre gradi di giudizio, sono dipesi quasi esclusivamente dalla condotta processuale dell'imputata, che ha chiesto ripetuti rinvii, addotto molti impedimenti a comparire e formulato diverse istanze di ricusazione.

Quanto alla tutela dell'equità processuale in rapporto all'osservanza dell'obbligo di motivazione della sentenza vengono in gioco diverse pronunce, riguardanti giudizi con giuria svolti dinanzi alla corte d'assise, all'esito dei quali la colpevolezza è stata dichiarata con verdetto non motivato. Anzitutto, la sent. 13 novembre 2014, Bodein c. Francia (per una sintesi, v. infra), esclude la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu: benché il verdetto emesso dalla corte d'assise d'appello non fosse motivato, il ricorrente ha potuto effettivamente conoscere le ragioni della condanna alla luce delle dettagliate istruzioni impartite alla giuria (all'esito del giudizio di primo e di secondo grado, ambedue conclusi con un verdetto di colpevolezza), su tutti i punti in fatto e diritto rilevanti alla luce dell'imputazione. Sulla base del medesimo criterio della conoscenza effettiva, in capo al ricorrente, delle ragioni in fatto e diritto che giustificano la condanna, la sent. 18 novembre 2014, Gybels c. Belgio (per una sintesi, v. infra), e le sent. 18 novembre 2014, Hechtermans c. Belgio, Khaledian c. Belgio, Yiman c. Belgio, accertano, invece, la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu. Nei casi in parola, i quesiti sulle questioni di fatto e di diritto, rilevanti alla luce dell'accusa, poste alla giuria e le relative risposte meramente affermative non consentono alla difesa di comprendere le ragioni del verdetto di colpevolezza, a sua volta non appellabile ma solo ricorribile in cassazione per ragioni di diritto.

Il tema del rispetto dell'obbligo di motivazione è affrontato pure dalla sopra rammentata e infra sintetizzata sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania, ove si giudica compatibile con l'art. 6 comma 1 Cedu la motivazione della sentenza d'appello che giustifica, per relationem alla motivazione della sentenza di primo grado come pure in forza di argomenti autonomi, sia la conferma della condanna di primo grado sia l'aumento di pena disposto in seconde cure.

Sul versante della tutela della presunzione d'innocenza, viene in gioco la dec. 13 novembre 2014, Bosti c. Italia (per una sintesi, v. infra), con cui la Corte di Strasburgo dichiara irricevibile il ricorso presentato per la pretesa violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu in rapporto all'acquisizione "per provata condotta illecita" di dichiarazioni accusatorie rese in indagine da un coimputato, sul presupposto che la condotta illecita esercitata sul dichiarante non fosse ascrivibile all'imputato. Per la Corte europea, invece, la colpevolezza sui temi dell'imputazione è stata legalmente dimostrata sulla base delle prove legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento mentre le minacce, sulla cui base sono state acquisite le dichiarazioni del coimputato ex art. 500 comma 4 c.p.p., non costituiscono oggetto di imputazione.

Quanto al profilo dell'esercizio del diritto di difesa, protetto dall'art. 6 comma 3 lett. c Cedu, con particolare riguardo al diritto dell'imputato di rendere dichiarazioni nel suo procedimento, la più volte citata sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania, esclude la violazione del canone convenzionale poiché l'imputata, già ascoltata nel giudizio di primo grado, non è stata nuovamente ascoltata in appello, pur avendone fatto richiesta, a causa delle reiterate, mancate comparizioni in udienza, dei cui effetti negativi ella era consapevole in quanto avvocato.

Il profilo della tutela del diritto al confronto fra l'imputato e chi lo accusi è, poi, considerato dalla già rammentata e infra sintetizzata dec. 13 novembre 2014, Bosti c. Italia. La doglianza, avanzata in rapporto alla pretesa lesione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, è dichiarata irricevibile perché il coimputato - le cui dichiarazioni di accusa, rese durante le indagini, erano state lette in forza dell'art. 513 c.p.p. - è stato esaminato in dibattimento (in videoconferenza) anche da parte della difesa del ricorrente e le medesime dichiarazioni non costituivano la prova esclusiva della colpevolezza.

 

f) Art. 8 Cedu

Sul versante della tutela del diritto alla privatezza, protetto dall'art. 8 Cedu, merita di essere segnalata la dec. 4 novembre 2014, Aboufadda c. Francia. La Corte europea dichiara non ricevibile la doglianza relativa alla pretesa lesione del diritto al rispetto della vita privata per effetto della confisca per equivalente dell'immobile in cui il ricorrente e la sua famiglia erano residenti: l'autorità nazionale ha osservato tutti i presupposti richiesti dall'art. 8 Cedu affinché l'interferenza nella vita privata sia legittima, poiché la misura, prevista dalla legge nazionale, è stata disposta legittimamente e conformemente alle finalità stabilite dalla legge.

L'art. 8 Cedu viene, poi, in gioco anche nella già rammentata sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania (per una sintesi, v. infra), che esclude la violazione del diritto alla privatezza in un caso in cui la ricorrente è stata fotografata da giornalisti, in stato di arresto, mentre era tradotta dalla procura a un ospedale psichiatrico: le fotografie sono state scattate in un luogo pubblico e non vi è la prova che i giornalisti fossero stati appositamente chiamati dalle autorità pubbliche.

 

g) Art. 4 Prot. n. 7 Cedu

In rapporto al divieto di secondo giudizio, sancito dall'art. 4 Prot. n. 7 Cedu, merita una segnalazione - anche per la stringente attualità del tema affrontato - la sent. 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia (per una sintesi, v. infra, nonché la scheda di M. Dova, Ne bis in idem e reati tributari: una questione ormai ineludibile, in questa Rivista, 11 dicembre 2014). Per la Corte di Strasburgo, lo svolgimento di "procedimenti paralleli" per lo stesso fatto (astrattamente riconducibile a una fattispecie penale tributaria e a una fattispecie "amministrativa" tributaria, avente, in realtà, natura penale) non lede, di per sé, il ne bis in idem. La violazione dell'art. 4 Prot. n. 7 Cedu è, invece, accertata perché il procedimento "amministrativo" è proseguito pure dopo che era divenuta definitiva la sentenza di condanna pronunciata nella sede penale.

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 4 novembre 2014, Tarakhel. c. Svizzera

I ricorrenti, una famiglia afgana di otto persone, tra cui sei bambini, sbarcano sulle coste della Calabria il 16 giugno 2011 e vengono immediatamente trasferiti nel centro di accoglienza per richiedenti asilo di Bari. Dopo aver lasciato illegalmente il centro, raggiungono la Svizzera, ove presentano una richiesta di asilo, che viene rigettata. A fronte dell'emanazione di un ordine di espulsione verso l'Italia da parte della competente autorità svizzera, i ricorrenti presentano un ricorso alla Corte europea, richiedendo altresì, in applicazione dell'art. 39 delle Rules of the Court, la misura cautelare della sospensione dell'ordine di espulsione in parola, che viene prontamente concessa. In particolare, i ricorrenti lamentano, da un lato, la violazione potenziale dell'art. 3 Cedu, in caso di allontanamento verso l'Italia, in ragione delle deficienze sistemiche delle strutture italiane di accoglimento dei richiedenti asilo (segnatamente: la lentezza della procedura di identificazione; il sovraffollamento delle strutture; le condizioni di vita inadeguate al loro interno); dall'altro, la violazione da parte del governo svizzero dell'art. 13 Cedu, in combinato disposto con l'art. 3 Cedu, in ragione dell'asserita arbitrarietà della procedura d'espulsione svizzera.

La Corte di Strasburgo, innanzitutto, ricordando come il regolamento di Dublino - vincolante anche per la Svizzera in virtù dell'accordo internazionale intercorso tra questa e l'Unione Europea nel 2004 - preveda la possibilità per qualunque Stato di valutare ogni richiesta d'asilo proposta ai sensi del regolamento stesso, rileva l'insussistenza di un obbligo internazionale, discendente dal regolamento in parola, di trasferire il soggetto richiedente nel paese originariamente competente a valutare la richiesta d'asilo secondo il sistema disegnato dal regolamento medesimo - nel caso di specie, l'Italia -, nell'eventualità in cui tale Stato debba considerarsi inadempiente agli obblighi convenzionali.  Premessa, dunque, l'insussistenza di una reale antinomia tra le disposizioni del regolamento di Dublino e quelle della Cedu, la Corte europea riconosce la violazione potenziale, da parte della Svizzera, dell'art. 3 Cedu, nel caso di espulsione dei ricorrenti verso l'Italia in assenza di adeguate assicurazioni, da parte del governo italiano, relative al futuro trattamento della famiglia afgana, che dovrà essere adeguato agli standard imposti dalla Cedu. La Corte di Strasburgo, infatti, pur affermando che lo stato delle strutture di accoglimento italiane non può essere paragonato a quelle delle omologhe strutture greche, e che non sia quindi tale da far ritenere contraria all'art. 3 Cedu ogni espulsione verso l'Italia, riconosce che in Italia un numero significativo di richiedenti asilo corre il rischio di subire trattamenti contrari all'art. 3 Cedu, in ragione del sovraffollamento dei centri di accoglienza, delle condizioni di vita insalubri o pericolose al loro interno, nonché dei frequenti casi di separazione delle famiglie e che, pertanto, per considerare il trasferimento dei ricorrenti conforme agli obblighi convenzionali, si rende necessaria la comunicazione della specifica struttura nella quale i ricorrenti saranno accolti, delle sue condizioni e l'assicurazione che la famiglia non sarà divisa. La Corte rigetta, invece, le doglianze relative all'asserita violazione dell'art. 13 Cedu, rilevando come, in realtà, ai ricorrenti fosse stato concesso un rimedio effettivo per far contestare in via giurisdizionale l'esito della procedura di asilo e conseguente espulsione. (Alberto Aimi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 13 novembre 2014, Bodein c. Francia

All'esito di un dibattimento di primo grado svolto di fronte alla corte d'assise, la giuria - ricevute da parte del Presidente le istruzioni imposte dal codice di rito - emette un verdetto di colpevolezza: conseguentemente, il ricorrente è condannato all'ergastolo. Appellata dall'imputato la condanna, all'esito del giudizio dinanzi alla corte d'assise d'appello (composta da un collegio allargato rispetto a quello di primo grado), la giuria - ricevute le doverose istruzioni dal Presidente - emette un nuovo verdetto non motivato di colpevolezza: la condanna all'ergastolo è, così, confermata. Dinanzi alla Corte europea, il ricorrente si duole della violazione dell'equità processuale per non avere potuto conoscere le ragioni in fatto e diritto della condanna confermata in appello. La Corte di Strasburgo, però, accerta la non violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu: il ricorrente ha potuto effettivamente conoscere le ragioni della condanna alla luce delle dettagliate istruzioni fornite alla giuria (sia in primo grado che in appello) su tutti i punti in fatto e diritto rilevanti alla luce dell'imputazione. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 13 novembre 2014, Bosti c. Italia

Durante le indagini preliminari in un procedimento per fatti di criminalità organizzata, X, collaboratore di giustizia, rende al pubblico ministero dichiarazioni d'accusa nei confronti del ricorrente. A dibattimento, X, esaminato a distanza in videoconferenza come coimputato, non conferma la chiamata in correità resa in indagine: così, i verbali d'indagine sono acquisiti al fascicolo del dibattimento, in forza degli art. 500 comma 4 e 513 c.p.p., poiché la ritrattazione è frutto di minacce. All'esito del dibattimento, X e il ricorrente sono condannati per duplice omicidio. Dinanzi alla Corte europea il ricorrente, in primo luogo, si duole della pretesa violazione del diritto al confronto, ai sensi dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, per effetto dell'acquisizione, come prova della colpevolezza, della chiamata in correità resa in indagine da X. La doglianza è dichiarata irricevibile: X è stato comunque esaminato durante il dibattimento in videoconferenza anche da parte della difesa del ricorrente; inoltre, le sue dichiarazioni rese in indagine, diverse da quelle dibattimentali, sono state legalmente acquisite "per provata condotta illecita", in forza di una valutazione non arbitraria né irragionevole da parte del giudice, e, in ogni caso, queste ultime non costituiscono la sola prova della colpevolezza, essendo riscontrate dalle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia. Il ricorrente, in secondo luogo, si duole della pretesa violazione della presunzione d'innocenza: a suo dire, l'acquisizione "per provata condotta illecita" ex art. 500 comma 4 c.p.p. della chiamata in correità resa in indagine violerebbe l'art. 6 comma 2 Cedu perché la condotta illecita, esercitata su X per indurlo a ritrattare le accuse, non è ascrivibile al ricorrente ma ad altri membri dell'organizzazione criminosa. Anche tale doglianza è irricevibile. Per la Corte europea, la colpevolezza per i reati contestati è stata legalmente dimostrata sulla base delle prove legittimamente acquisite e le minacce non costituiscono l'oggetto dell'imputazione: l'imputato, infatti, non è stato condannato per quel delitto ma per il duplice omicidio di stampo mafioso espressamente contestato. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 13 novembre 2014, Cüneyt Polat c. Turchia

Il ricorrente, cittadino turco di etnia curda, partecipa a una manifestazione a Istanbul allo scopo di protestare contro taluni aspetti della detenzione di Abdullah Öcalan, fondatore e leader del PKK. La manifestazione viene dispersa con la forza dalla polizia, il ricorrente - trovato in possesso di 15 bottiglie molotov - viene arrestato e il medico che lo visita all'ingresso del carcere riscontra una ferita profonda sul suo capo. Il ricorrente sporge denuncia contro i poliziotti presenti sul luogo della manifestazione, ma il procuratore della Repubblica pronuncia ordinanza di non luogo a procedere, successivamente confermata dalla Corte d'Assise. Il ricorrente - nel frattempo condannato a dieci anni di carcere per possesso di materiali esplosivi - propone allora ricorso presso la Corte di Strasburgo, lamentando una violazione dell'art. 3 Cedu da parte delle autorità turche, in relazione alle ferite riportate nel corso della manifestazione.

La Corte europea accoglie le doglianze del ricorrente, ritenendo che il certificato medico prodotto dal ricorrente sia sufficiente a corroborare le sue dichiarazioni e che, in assenza di alcuna prova atta a dimostrare che il ricorrente avesse tenuto un comportamento talmente aggressivo da non poter essere neutralizzato che con la forza, l'operato delle forze di polizia debba essere considerato quale trattamento inumano o degradante ai sensi dell'art. 3 Cedu. La Corte europea riconosce altresì una violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo procedurale, giusta l'ineffettività dell'inchiesta svolta sull'accaduto da parte delle autorità turche. La Corte osserva, in particolare, non solo come il procuratore della Repubblica, nell'interrogare i poliziotti incaricati di disperdere la manifestazione, non avesse posto domande in relazione alle violenze subite dall'interessato, ma anche come l'ordinanza di non luogo a procedere da questi pronunciata - e successivamente confermata dalla Corte d'Assise - fosse stata resa «senza un autentico ragionamento giuridico». (Alberto Aimi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 13 novembre 2014, Lazariu c. Romania

La ricorrente - avvocato, indagata in numerosi procedimenti penali per induzione alla falsa testimonianza - mentre si trovava presso la procura per sporgere denuncia contro il pubblico ministero che stava indagando contro di lei, è coattivamente trattenuta, su ordine del medesimo pubblico ministero, per diverse ore nell'ufficio di quest'ultimo, sotto controllo della polizia e senza potersi allontanare dalla stanza. L'ordine è stato formalmente emesso perché la ricorrente prendesse visione del fascicolo contro di lei (sembra che a ciò ella potesse essere tenuta sulla base della legge rumena, onde evitare ritardi nel procedimento). Dopo diverse ore, coattivamente trascorse in quella stanza, la ricorrente è tradotta, sempre su ordine del pubblico ministero, in un ospedale psichiatrico, dove è trattenuta per nove giorni prima di essere sottoposta a consulto. Rinviata a giudizio per i delitti oggetto d'indagine, l'imputata adduce numerosi impedimenti a comparire e formula varie istanze di ricusazione; dopo otto anni dalla notificazione dell'accusa, impiegati per svolgere tre gradi di giudizio, è, poi, definitivamente condannata. Dinanzi alla Corte europea, la ricorrente propone varie doglianze, reputando violate la legalità della detenzione e l'equità processuale. Per i giudici di Strasburgo, sussistono tutte le lamentate violazioni dell'art. 5 Cedu. In primo luogo, è violato l'art. 5 comma 1 lett. b ed e Cedu. Per un verso, il trattenimento coatto della ricorrente per diverse ore presso la procura, su ordine del pubblico ministero, integra un'arbitraria privazione della libertà personale: la misura appare eccessiva perché la ricorrente già si trovava nei locali della procura; inoltre, l'accesso al fascicolo sembra integrare un diritto e non già un obbligo dell'imputato; infine, anche a ritenere che il provvedimento fosse giustificato dall'esigenza di farne conoscere il contenuto, l'incartamento non è stato esibito alla ricorrente. Per altro verso, la traduzione della ricorrente, su ordine del pubblico ministero, in un ospedale psichiatrico e il trattenimento presso la struttura sanitaria sono illegittimi, poiché non si fondano su certificazioni cliniche; d'altra parte, la ricorrente è stata visitata da un'equipe di psichiatri solo nove giorni dopo l'ingresso nella struttura. In secondo luogo, risulta violato pure l'art. 5 comma 4 Cedu: la ricorrente non ha potuto sottoporre a controllo giurisdizionale l'ordine del pubblico ministero di disporre la detenzione presso l'ospedale psichiatrico.

Viceversa, la Corte europea esclude lesioni all'equità processuale. Anzitutto, non sussiste la violazione dell'art 6 comma 1 Cedu circa la durata ragionevole del procedimento. Benché dalla notificazione ufficiale dell'accusa sino alla decisione finale in cassazione siano trascorsi quasi otto anni, di cui cinque per il solo primo grado, una simile durata è dipesa dalla condotta processuale della ricorrente: quest'ultima ha chiesto ripetuti rinvii, addotto molti impedimenti a comparire e formulato diverse istanze di ricusazione. Insussistente è anche la pretesa lesione del diritto dell'imputata di essere ascoltata nel procedimento, protetto dall'art. 6 comma 3 lett. c Cedu: in primo grado, l'imputata ha reso testimonianza, come consentito dal codice rumeno; in appello, invece, non è stata ascoltata a causa delle reiterate assenze e la circostanza che la ricorrente rivestisse la qualità di avvocato la rendeva consapevole degli effetti della mancata comparizione. Infine, è del pari insussistente la pretesa violazione dell'equità processuale sotto il profilo della mancanza di motivazione della condanna in appello ex art. 6 comma 1 Cedu: il giudice d'appello ha giustificato il provvedimento oltre ogni ragionevole dubbio, con motivazioni proprie e per relationem a quelle spese dalla condanna di primo grado, sia con riguardo alla conferma della condanna sia con riguardo all'aumento di pena disposto in seconde cure. Infine, la Corte europea accerta pure la non violazione dell'art. 8 Cedu: le foto alla ricorrente, in stato di arresto, mentre è tradotta dalla procura all'ospedale psichiatrico sono state scattate da giornalisti fuori dalla procura, né vi è la prova che i giornalisti fossero stati appositamente chiamati dalle autorità pubbliche. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 18 novembre 2014, Gybels c. Belgio

All'esito di un dibattimento svolto dinanzi alla corte d'assise, la giuria emette un verdetto non motivato di colpevolezza e l'imputato viene condannato a ventisette anni di reclusione. Dinanzi alla Corte europea, il ricorrente si duole della violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per non avere potuto comprendere le ragioni in fatto e diritto della condanna. Secondo la Corte europea, nel caso di specie, l'equità processuale è stata lesa. I quesiti sulle questioni di fatto e diritto - rilevanti alla luce dell'accusa - posti da parte del Presidente alla giuria e, soprattutto, le risposte meramente affermative rese da quest'ultima non consentono alla difesa di comprendere le ragioni del verdetto di colpevolezza. Inoltre, il verdetto non è appellabile ma solo ricorribile per ragioni di diritto dinanzi alla Corte di cassazione. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 20 novembre 2014, Jaloud c. Olanda

Il ricorrente, cittadino iracheno, alla guida di una Mercedes, si scontra, senza fermarsi, con il barile di un checkpoint nel villaggio di Ar Rumaytah, nell'Iraq sudorientale. In direzione della macchina vengono esplose diverse raffiche di mitra da parte dei soldati che presidiano il checkpoint, tra i quali un sottotenente del regio esercito olandese. I proiettili colpiscono il figlio del ricorrente, che muore per le ferite riportate circa un'ora dopo l'incidente. Le indagini sull'accaduto, svolte dalla polizia militare olandese, si chiudono dopo solo un mese con la decisione di non incriminare il militare coinvolto, sulla base dell'osservazione secondo la quale la morte del figlio del ricorrente sarebbe «verosimilmente» da attribuirsi a un proiettile sparato dalle forze di difesa irachene. I successivi ricorsi sul punto del padre della vittima vengono rigettati dalle autorità olandesi. Il ricorrente adisce dunque la Corte europea, lamentando una violazione procedurale dell'art. 2 Cedu, in ragione dell'asserita mancanza di indipendenza e adeguatezza delle indagini svolte dalla polizia militare olandese sull'accaduto.

La Corte di Strasburgo riconosce, in primo luogo, la sussistenza della giurisdizione dello stato olandese in relazione ai fatti di causa, ricordando la propria costante giurisprudenza relativa all'art. 1 Cedu - secondo la quale è sufficiente che uno Stato eserciti la propria autorità sopra un individuo, tramite i propri agenti, perché possa affermarsi la responsabilità di tale Stato per la violazione di diritti convenzionali lesi dalle azioni dell'individuo medesimo - e rilevando che, nel caso di specie, le forze armate olandesi di stanza in Iraq erano sotto il diretto controllo delle autorità patrie e che, inoltre, la vittima era stata uccisa proprio mentre attraversava un checkpoint posto sotto la diretta supervisione di un ufficiale dell'esercito olandese. Riconosciuta la giurisdizione dello Stato parte in causa, la Corte procede quindi ad esaminare il merito del ricorso, ravvisando nel comportamento delle autorità olandesi una violazione procedurale dell'art. 2 Cedu, con particolare riferimento all'obbligo di condurre un'indagine effettiva per assicurare l'accountability degli agenti statali coinvolti nell'uccisione di un soggetto titolare di diritti convenzionali. Secondo la Corte, in particolare, l'ineffettività delle indagini svolte dalle autorità olandesi è dimostrata almeno da quattro elementi: in primo luogo, il fatto che diversi documenti relativi alle indagini non fossero stati messi a disposizione del ricorrente e delle autorità giudiziarie civili; in secondo luogo, l'omessa adozione, da parte delle autorità inquirenti, di precauzioni atte a evitare che il sottotenente coinvolto nella sparatoria potesse concordare una falsa versione dei fatti con gli altri testimoni; in terzo luogo, l'inadeguatezza dell'esame autoptico, svolto da uno sconosciuto patologo iracheno, senza la partecipazione di rappresentanti qualificati del governo olandese; infine, lo smarrimento in circostanze poco chiare dei frammenti dei bossoli estratti dal corpo della vittima, la cui analisi avrebbe consentito di attribuire la paternità del colpo (o dei colpi) fatali. (Alberto Aimi)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 27 novembre 2014, Khomullo c. Ucraina

Nel corso di un procedimento di estradizione passiva, il ricorrente è posto in custodia cautelare; mentre egli è detenuto, viene modificata la legge processuale che regola i presupposti della custodia cautelare ma ciò non incide sulla situazione del ricorrente almeno per un primo periodo: solo durante l'ultimo mese e mezzo di detenzione lo status custodiae è soggetto a un effettivo controllo giurisdizionale. Dinanzi alla Corte europea, il ricorrente si duole per la violazione dell'art. 5 Cedu sotto diversi profili: da un lato, tutto il periodo trascorso in custodia cautelare sarebbe stato privo di base legale ex art. 5 comma 1 Cedu, dall'altro, sarebbe mancato un effettivo controllo giurisdizionale sulla legalità della detenzione ex art. 5 comma 4 Cedu. Per la Corte europea, la custodia cautelare è, in effetti, inizialmente applicata in forza di una legge che non assicura gli standard qualitativi imposti dall'art. 5 comma 1 Cedu, poiché non individua con precisione i presupposti per disporre e mantenere la detenzione. Pure dopo il mutamento della legge processuale applicabile, la situazione soggettiva del ricorrente non cambia: anche le nuove norme non l'hanno posto al riparo dal rischio di arbitri dell'autorità procedente. Da qui, l'accertata violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu per un primo periodo di tempo, anteriormente e posteriormente alla novella legislativa. Quanto, invece, all'ultimo mese e mezzo trascorso dal ricorrente in custodia cautelare, la Corte europea esclude la violazione della norma pattizia: gli organi competenti hanno correttamente e non arbitrariamente accertato la sussistenza delle esigenze cautelari. Infine, sul versante del diritto a un controllo giurisdizionale effettivo sulla legalità della detenzione, i giudici di Strasburgo reputano violato l'art. 5 comma 4 Cedu: il ricorrente ha presentato varie istanze al giudice de libertate, volte alla revoca della misura custodiale, ma alcune di essere sono state esaminate (e poi rigettate) con significativi ritardi, mentre altre, addirittura, non sono state neppure esaminate o, comunque, sono state rigettate con provvedimenti non motivati. (Fabio Cassibba)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia

Contro la ricorrente vengono intentati due "procedimenti paralleli" per lo stesso fatto, astrattamente riconducibile a una fattispecie penale tributaria e a una fattispecie amministrativa tributaria (avente in realtà, natura penale). La ricorrente, dopo essere stata condannata, con sentenza definitiva, nella sede penale, è pure condannata all'esito del procedimento amministrativo tributario al pagamento della relativa sanzione. Dinanzi alla Corte europea, la ricorrente si duole della violazione dell'art. 4 Prot. n. 7 Cedu, per avere subito un doppio procedimento per lo stesso fatto, dinanzi a giurisdizioni diverse. I giudici di Strasburgo sottolineano come l'art. 4 Prot. n. 7 Cedu non assicuri una protezione dalla litispendenza, poiché non impedisce il contestuale svolgimento di due procedimenti paralleli per lo stesso fatto. La previsione convenzionale, piuttosto, è volta a escludere che un soggetto possa essere processato nuovamente per lo stesso fatto dopo che in un primo processo la decisione di proscioglimento o di condanna sia divenuta definitiva. Sulla scorta di tali argomenti, la Corte europea accerta, nel caso di specie, la violazione del divieto di secondo giudizio: divenuta definitiva la condanna nella sede penale, il processo per il medesimo fatto è nondimeno proseguito dinanzi all'organo giurisdizionale "amministrativo". (Fabio Cassibba)