13 gennaio 2015 |
Monitoraggio Corte Edu Settembre 2014
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale
A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte Edu.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Maria Chiara Ubiali e Paola Concolino. L'introduzione è a firma di Maria Chiara Ubiali per quanto riguarda gli artt. 1, 2, 3 e 7, mentre si deve a Paola Concolino la parte relativa agli artt. 5, 6 e 8.
1. Introduzione
a) Art. 1
b) Art. 2
c) Art. 3
d) Art. 5
e) Art. 6
f) Art. 7
g) Art. 8
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
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1. Introduzione
a) Art. 1 Cedu
Per prima cosa si segnala l'importante sentenza della Grande Camera, 16 settembre 2014, Hassan c. Regno Unito (cfr. infra per una sintesi), in tema di competenza ratione loci (art. 1 Cedu) della Corte europea, nonché in materia di art. 5 Cedu. A questo proposito la Corte di Strasburgo - non accogliendo l'eccezione del governo inglese secondo cui i principi in materia di competenza territoriale non si applicherebbero durante le prime fasi di un conflitto armato internazionale, quando gli agenti statali dello Stato contraente non sarebbero ancora forza occupante - afferma che il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti umani possono applicarsi contemporaneamente, come sostiene - tra l'altro - la costante giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia.
b) Art. 2 Cedu
In materia di diritto alla vita, si segnala in particolare la sent. 18 settembre 2014, Bljakaj e altri c. Croazia nella quale la Corte europea si esprime in merito allo standard di prova nell'accertamento della violazione dell'obbligo statale di prevenire atti violenti di soggetti che mostrano di soffrire di disturbi psichici. La Corte di Strasburgo ribadisce che ciò che è sufficiente per affermare la responsabilità di uno Stato per violazione dell'art. 2 Cedu, è la dimostrazione che le misure ragionevoli che lo Stato ha omesso di adottare avrebbero potuto alterare il decorso degli eventi o ridurre il pericolo; e non che - senza l'omissione delle autorità - la violenza non si sarebbe verificata.
Per quanto riguarda invece i limiti all'uso della forza da parte degli agenti delle forze dell'ordine, nella sent. 23 settembre 2014, Atiman c. Turchia, la Corte di Strasburgo afferma che è un dovere primario dello Stato quello di predisporre un quadro normativo preciso che definisca le circostanze nelle quali è ammissibile l'uso della forza, anche letale, da parte della polizia; e che la presenza - nella legislazione turca - di due leggi differenti in materia comporta un'inaccettabile incertezza nello stato del diritto sul punto.
Per quanto attiene invece agli obblighi procedurali discendenti dall'art. 2 Cedu si vedano le sent. 18 settembre 2014, Makayeva c. Russia e Petimat Ismailova e Altri c. Russia in cui la Corte europea ribadisce che sullo Stato incombe l'obbligo di garantire indagini effettive nel caso in cui un individuo sia stato ucciso in seguito all'uso della forza da parte di agenti statali.
c) Art. 3 Cedu
Per quanto riguarda invece la compatibilità con l'art. 3 Cedu dell'estradizione finalizzata all'esecuzione di una sentenza di ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata, si veda l'importante sent. 4 settembre 2014, Trabelsi c. Belgio in cui la Corte europea ribadisce i principi in tema di ergastolo recentemente enunciati dalla Grande Camera in Vinter c. Regno Unito, applicandoli per la prima volta ad un caso di estradizione - in questo caso - verso gli Stati Uniti (per un approfondimento si rimanda alla scheda di C. Parodi, Ergastolo senza liberazione anticipata, estradizione e art. 3 CEDU, in questa Rivista, 3 novembre 2014).
Per quanto concerne invece i maltrattamenti inflitti dalle forze dell'ordine, si segnala la sent. 30 settembre 2014, Anzhelo Georgiev e Altri c. Bulgaria, nella quale la Corte europea ribadisce che l'art. 3 Cedu non proibisce l'uso della forza in talune ben definite circostanze, nelle quali ciò si renda assolutamente necessario, e che l'onere della prova di mostrare la necessità di tale trattamento incombe sulle autorità statali. Nel caso di specie il ricorso riguarda l'utilizzo, da parte di alcuni agenti di polizia durante una perquisizione in un'azienda, di un'arma in grado di emettere scariche elettriche (Taser). La Corte europea afferma che la mancanza, nella legislazione bulgara, di una disciplina che regoli l'utilizzo di armi elettriche da parte delle forze dell'ordine, non solleva quest'ultime dagli obblighi imposti dall'art. 3 Cedu e quindi dal dovere di ricorrere all'utilizzo della forza in situazioni di assoluta necessità. Nella stessa materia si segnalano la sent. 20 settembre 2014, Bulgaru c. Repubblica Moldava e la sent. 4 settembre 2014, Rudyak c. Ucraina, nelle quali si riafferma, inoltre, il principio per cui spetta allo Stato condurre un'indagine effettiva che sia in grado di condurre all'identificazione e alla condanna di eventuali responsabili dei maltrattamenti.
Per quanto attiene alle condizioni inumane o degradanti di detenzione si veda in particolare la sent. 9 settembre 2014, Carrella c. Italia nella quale la Corte di Strasburgo ribadisce che la mancanza di cure mediche appropriate e, più in generale, la detenzione di una persona malata in condizioni inadeguate, possono, in linea di principio, costituire un trattamento contrario all'art. 3 della Convenzione. Si afferma quindi che le autorità penitenziarie debbano offrire al detenuto le cure mediche prescritte da medici competenti, e che la diligenza e la frequenza con cui le cure mediche vengono dispensate sono i due elementi da prendere in considerazione per valutare la compatibilità del trattamento del detenuto con l'art. 3 Cedu. Sempre in materia di condizioni inumane o degradanti di detenzione, si vedano la sent. 16 settembre 2014, Valerian Dragomir c. Romania e la sent. 25 settembre 2014, Logothetis e Altri c. Grecia.
I consueti principi in tema di divieto di refoulement trovano invece conferma nella sent. 4 settembre 2014, M.V. e M.T. c. Francia. Il caso riguarda due cittadini russi fuggiti in Francia e che qui avevano presentato richiesta d'asilo. In seguito al rigetto della domanda d'asilo era stato dato avvio alla procedura d'espulsione. I due avevano quindi adito la Corte di Strasburgo la quale afferma che l'eventuale espulsione dei ricorrenti verso la Russia integrerebbe una violazione dell'art. 3 Cedu, in relazione al rischio di essere ivi esposti a trattamenti inumani e degradanti.
Art. 5 Cedu
In materia di arbitrarietà della detenzione, è opportuno segnalare la sent. 23 settembre 2014, C. W. c. Svizzera: la Corte europea ha escluso l'illegittimità, ex art. 5 comma 1 Cedu, di un provvedimento giudiziale che prolungava di cinque anni la misura di internamento in ospedale psichiatrico adottato senza disporre una nuova perizia, in quanto i giudici di Strasburgo hanno ritenuto sufficiente la conferma di una perizia precedente da parte dell'equipe che aveva in cura il ricorrente; quest'ultimo non aveva, infatti, mai contestato la fondatezza scientifica di quella perizia né sussistevano circostanze peculiari alla luce delle quali dovesse ritenersi opportuno rivolgersi ad uno specialista esterno alla struttura perché venuto meno il rapporto di fiducia tra il ricorrente e i medici che l'avevano in cura.
Art. 6 Cedu
Sul tema dell'equità processuale, nella sent. 16 settembre 2014, Fodor c. Romania (per una sintesi, v. infra), i giudici di Strasburgo hanno affermato l'incompatibilità con l'art. 6 comma 1 Cedu di una sentenza di condanna fondata sull'errata affermazione di non contestazione da parte dell'imputato di una perizia essenziale ai fini della qualificazione giuridica del fatto di reato oggetto del procedimento nonché ai fini di prova del nesso causale tra la condotta del ricorrente e il danno lamentato dalla vittima.
Ancora in materia di equità processuale, si segnala la sent. 23 settembre 2014, Cevat Soysal c. Turchia (per una sintesi, v. infra), nella quale la Corte europea rileva una duplice violazione della Cedu: in primo luogo, con riferimento al contraddittorio sulla fonte di prova e alla parità delle armi tra accusa e difesa, ex art. 6 comma 1 Cedu, la Corte europea ha ritenuto illegittimo il rifiuto dei giudici nazionali di consentire al ricorrente di ascoltare in via diretta le intercettazioni poste a base della condanna ovvero di estrarne copia perché così facendo hanno impedito all'imputato di contestare l'affidabilità delle relative trascrizioni che erano state realizzate unilateralmente dalla polizia giudiziaria e dal perito nominato d'ufficio; in secondo luogo, con riguardo al diritto dell'imputato di interrogare i testimoni a carico, i giudici turchi sono incorsi in una violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, avendo posto a base della decisione dichiarazioni rese agli organi inquirenti da persone di cui è stato negato l'esame all'imputato, senza alcuna giustificazione.
Infine, in tema di ragionevole durata del processo, nella sent. 17 settembre 2014, Mocanu e altri c. Romania (per una sintesi, v. infra), la Corte europea ha ritenuto sussistente una violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu per l'irragionevole la durata di un procedimento penale, pari a 15 anni dall'avvio delle investigazioni alla sentenza definitiva di non luogo a procedere.
d) Art. 7 Cedu
Ribadisce consolidati principi in tema di chiarezza e precisione del precetto normativo e di necessaria prevedibilità della sanzione da parte dell'autore di un fatto di reato la sent. 16 settembre 2014, Plechkov c. Romania. Il ricorrente - cittadino bulgaro proprietario di un peschereccio - era stato arrestato dalle autorità rumene al largo della città di Costanza con l'accusa di avere illegalmente praticato la pesca industriale in una zona di esclusiva pertinenza rumena e, per di più, in un periodo in cui tale attività era proibita. Per le medesime ragioni al ricorrente veniva confiscato il peschereccio. La Corte europea - chiamata a decidere il ricorso ex art. 7 e 1 Prot. Add. Cedu - constata, innanzi tutto, che la formulazione della norma che stabilisce i confini della zona in cui la pesca è vietata (o comunque subordinata a particolari condizioni) dalle autorità rumene non è formulata in modo sufficientemente preciso: manca, infatti, un accordo con la Bulgaria o, comunque, ogni altro elemento suscettibile di permettere al ricorrente di riconoscere la presenza di un divieto e, conseguentemente, di adattare il suo comportamento. Inoltre - osserva la Corte europea - incertezze in ordine alla corretta applicazione della disposizione contestata si sono verificate tanto nel caso di specie (in primo grado i giudici avevano chiesto l'archiviazione), quanto nei pochissimi altri casi in cui la norma in questione è venuta in rilievo, evidenziando come non sussista una giurisprudenza consolidata sul punto. Per tali ragioni - confermando quanto più volte affermato in materia di prevedibilità della sanzione penale - la Corte europea dichiara che vi è stata violazione, da parte dello stato rumeno, dell'art. 7 della convenzione. La Corte di Strasburgo riscontra, inoltre, una violazione dell'art. 1 Prot. Add. per quanto concerne la confisca del peschereccio.
Art. 8 Cedu
Con riferimento al rispetto della vita privata e familiare, si ricorda la sent. 18 settembre 2014, Brunet c. Francia, con la quale i giudici di Strasburgo hanno affermato l'insufficienza dei rimedi offerti dalla legislazione francese per ottenere la cancellazione di un'iscrizione dallo "STIC" (il c.d. "registro delle infrazioni constatate"), assimilabile ad un casellario di notizie di reato. Nel caso di specie, la Corte europea ha ritenuto incompatibile con la Cedu la tassatività dei presupposti necessari per richiedere la cancellazione dell'iscrizione dal registro, tra i quali, irragionevolmente, non rientrava la mancata apertura di un procedimento a carico dell'iscritto per intervenuta mediazione penale.
Sempre in materia di diritto al rispetto della vita privata e familiare, la Corte di Strasburgo, nella sent. 18 settembre 2014, Avanesyan c. Russia (per una sintesi, v. infra), ha affermato l'illegittimità di un provvedimento di perquisizione disposto in assenza di alcuna delle finalità prescritte dall'art. 8 comma 2 Cedu; ha, inoltre, rilevato l'incompatibilità con i principi della Convenzione europea della normativa russa nella parte in cui non riconosce al perquisito il diritto di impugnare il provvedimento di perquisizione.
Sullo stesso tema, si segnala la sent. 30 settembre 2014, Prezhdarovi c. Bulgaria (per una sintesi, v. infra): la Corte europea ha riconosciuto l'illegittimità di un provvedimento di perquisizione e sequestro disposto dal pubblico ministero, senza un previo controllo del giudice, per presunte ragioni di urgenza che non esistevano nella realtà; i giudici di Strasburgo hanno, in secondo luogo, individuato la sussistenza di una violazione dell'art. 8 Cedu nella carenza di effettività dei successivi controlli, operati dai giudici nazionali intervenuti nel procedimento, sulla legittimità della perquisizione e sull'opportunità di mantenere il sequestro anche su dati personali privi di rilevanza probatoria.
La grande camera, con la sent. 30 settembre 2014, Gross c. Svizzera (per una sintesi, v. infra), ha rilevato, a norma dell'art. 35 comma 3 lett. a Cedu, il carattere abusivo della condotta della ricorrente che aveva adito la Corte europea affinché accertasse l'illegittimità della normativa svizzera in materia di eutanasia e, tuttavia, aveva praticato il suicidio assistito senza attendere la pronuncia dei giudici di Strasburgo e omettendo di comunicare tali intenzioni al proprio difensore e alla stessa Corte europea. La ricorrente temeva, infatti, che la sua morte comportasse l'arresto del procedimento, così precludendo una decisione definitiva sul suo caso e quindi l'affermarsi di un precedente importante su di un tema assai dibattuto e controverso in molti Stati aderenti alla Cedu. I giudici di Strasburgo, tuttavia, hanno dichiarato irricevibile il ricorso: la ricorrente ha deliberatamente nascosto al proprio difensore le sue reali intenzioni allo scopo precipuo di indurre in errore la Corte su una circostanza rilevante per la sostanza stessa del motivo di ricorso.
La Corte europea, nella dec. 16 settembre 2014, M.D. c. Irlanda, ha infine escluso l'illegittimità, per contrasto con l'art. 8 Cedu in combinato disposto con l'art. 14 Cedu, di una condanna deliberata sulla base di una norma nazionale che, nel reato di atti sessuali con minore di anni 17, attribuisce valore scriminante al consenso del minore di sesso maschile e non al consenso del minore di sesso femminile: il contenuto apparentemente discriminatorio della disposizione è, ad avviso di giudici di Strasburgo, conforme alle finalità perseguite dalla stessa Convenzione europea tra le quali certamente rientrano la tutela dei minori dai danni che derivano da un'attività sessuale prematura, con particolare attenzione alla prevenzione delle gravidanze precoci.
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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
C. eur. dir. uomo, Sez. II, 9 settembre 2014, Carrella c. Italia
Il caso di specie origina dal ricorso del sig. Carrella il quale, accusato di traffico di sostanze stupefacenti e di associazione per delinquere, era stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Napoli. Durante il periodo di detenzione al ricorrente era stata diagnosticata una seria forma di diabete mellito, giudicata tuttavia compatibile con il regime detentivo dal medico incaricato dal giudice delle indagini preliminari e da quello incaricato dal presidente della Corte d'Appello. Il sig. Carrella aveva poi avuto una serie di difficoltà nell'ottenere il permesso per poter eseguire un esame coronarografico, a cui il ricorrente riusciva a sottoporsi con molti mesi di ritardo e dal quale emergeva la necessità di sottoporsi ad un intervento chirurgico di angioplastica delle coronarie. Per questa ragione il sig. Carrella aveva anche sporto denuncia alla procura della Repubblica di Napoli, la quale aveva avviato un procedimento penale contro ignoti per omissione, ai sensi dell'articolo 328 c.p. Il Gip, tuttavia, in data 3 marzo 2007, aveva disposto l'archiviazione.
Il ricorrente lamenta che le sue condizioni di detenzione - e soprattutto la mancanza di cure mediche adeguate in carcere e i numerosi errori e omissioni che, secondo lui, hanno ritardato l'intervento chirurgico che ha dovuto subire - avevano messo in pericolo la sua vita e si erano tradotti in un trattamento inumano e degradante. Rimprovera anche alle autorità di non aver preso in considerazione la possibilità, visto il suo stato di salute, di farlo beneficiare di una misura alternativa alla detenzione in carcere e di aver proceduto all'archiviazione della sua denuncia, fatto che costituirebbe una violazione dell'obbligo positivo di perseguire effettivamente le violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione.
La Corte europea ribadisce che la mancanza di cure mediche appropriate e, più in generale, la detenzione di una persona malata in condizioni inadeguate, possono in linea di principio costituire un trattamento contrario all'articolo 3 della Convenzione. Le autorità penitenziarie devono quindi garantire al detenuto le cure mediche prescritte da medici competenti e la diligenza e la frequenza con cui le cure mediche vengono dispensate sono i due elementi da prendere in considerazione per valutare la compatibilità del suo trattamento con le esigenze dell'art. 3 della Cedu. Per quanto attiene al caso in questione, la Corte di Strasburgo è del parere che, nonostante alcuni ritardi, le autorità abbiano ottemperato al loro obbligo di proteggere l'integrità fisica del ricorrente attraverso la somministrazione dei controlli medici appropriati. Non viene riscontrata dunque la violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo sostanziale.
In merito agli obblighi procedurali previsti dall'art. 3 Cedu, la Corte europea riafferma che quando una persona sostiene in maniera difendibile di aver subito, da parte della polizia o di un altro simile servizio dello Stato, un trattamento contrario a detto articolo, questa disposizione richiede, implicitamente, che vi sia stata un'inchiesta ufficiale effettiva. In relazione al caso concreto, anche relativamente a questo profilo la Corte di Strasburgo ritiene che le autorità hanno condotto con diligenza l'inchiesta, e la circostanza che quest'ultima non abbia portato alla condanna delle autorità penitenziarie non toglie nulla alla sua effettività. Non viene rilevata dunque la violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo procedurale. (Maria Chiara Ubiali)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 16 settembre 2014, Fodor c. Romania
Il ricorrente è denunciato nel dicembre 2005 per presunte lesioni procurate nel corso di una rissa avvenuta nell'ottobre 2005. Il denunciante non si sottopone ad alcuna perizia medica che accerti l'entità delle lesioni fintanto che, nel corso del procedimento, il Tribunale non la dispone d'ufficio. Il medico legale, nel giugno 2006, accerta la sussistenza di lesioni alle costole temporalmente riconducibili all'ottobre 2005. Il ricorrente contesta la perizia affermando la possibilità che le lesioni risalgano ad un periodo posteriore alla rissa e chiede che venga disposta una nuova perizia. Il Tribunale di prima istanza non accoglie tale richiesta, non ritenendo necessario un nuovo accertamento, e assolve il ricorrente. Viceversa, la Corte d'appello condanna il ricorrente sulla base di alcune testimonianze ed anche sulla base della stessa perizia: la Corte d'appello ritiene, infatti, provati i fatti in essa contenuti perché afferma che il ricorrente non l'avesse mai contestata.
Il ricorrente lamenta, quindi, di avere subito una condanna iniqua, in violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, perché fondata su una constatazione erronea: contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, egli aveva formalmente ed espressamente contestato la perizia.
La Corte europea accoglie la censura del ricorrente. Il diritto ad un processo equo, sancito dall'art. 6 comma 1 Cedu, include l'effettiva garanzia per le parti di presentare nel processo tutte le osservazioni che ritengono rilevanti; a tale garanzia corrisponde il concreto dovere del giudice di valutare gli argomenti delle parti. Nel caso di specie, la Corte di Strasburgo rileva che il giudice dell'impugnazione ha violato i principi dell'equo processo: la sentenza di condanna disposta nei confronti del ricorrente si fonda, infatti, sull'errata affermazione di non contestazione da parte dell'imputato di una perizia essenziale ai fini della prova del nesso causale tra la condotta del ricorrente e le lesioni denunciate dalla vittima oltre che ai fini della qualificazione giuridica del fatto di reato contestato. (Paola Concolino)
C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 16 settembre 2014, Hassan c. Regno Unito
Il caso origina dal ricorso di Khadim Resaan Hassan, cittadino iracheno, il quale adisce la Corte europea affermando che - durante l'invasione dell'Iraq da parte di una coalizione armata guidata dagli Stati Uniti - suo fratello Tarek era stato arrestato e detenuto dall'esercito britannico presso Camp Bucca e che questi, successivamente al suo rilascio, era stato trovato morto e con segni di tortura sul proprio corpo. Il ricorrente lamenta quindi la violazione degli artt. 2, 3 e 5 Cedu.
Viene in rilievo per prima cosa la questione se al tempo delle sospette violazioni la vittima si trovasse sotto la giurisdizione del Regno Unito e quindi godesse o meno delle garanzie previste dalla Convenzione. Tale questione si pone, in particolar modo, in relazione alla lamentata violazione dell'art. 5 Cedu. Per quanto concerne, infatti, gli artt. 2 e 3 della Convenzione la Corte europea esclude la sussistenza di una violazione perché mancano prove effettive che dimostrino che la vittima fosse stata maltrattata durante la detenzione o che le autorità inglesi fossero in qualche modo responsabili della sua morte, avvenuta diverse settimane dopo il rilascio da Camp Bucca.
Chiamata innanzi tutto a decidere della propria competenza, prima di potersi occupare della lamentata violazione dell'art. 5 Cedu, la Corte europea ribadisce che il concetto di "giurisdizione" di uno Stato di cui all'art. 1 Cedu è essenzialmente territoriale, esercitandosi normalmente all'interno dei confini statali. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte ha riconosciuto una serie di eccezioni a tale principio, ammettendo che lo Stato parte della Convenzione ha "giurisdizione" ed è tenuto, conseguentemente, a rispettare i diritti umani riconosciuti dalla Convenzione quando gli atti di un'autorità dello Stato producono effetti al di fuori del proprio territorio, e quando - in conseguenza di un'operazione militare - uno Stato contraente esercita un effettivo controllo su un'area situata al di fuori dei propri confini territoriali.
Nel caso di specie, la Corte europea afferma che il sig. Hassan - per il fatto di essere stato catturato e detenuto dai soldati inglesi - si trovava sotto la giurisdizione del Regno Unito dal momento della sua cattura a quello del suo rilascio. La Corte di Strasburgo non accoglie l'eccezione del governo inglese secondo cui i principi in tema di competenza ratione loci non si applicherebbero durante le prime fasi di un conflitto armato internazionale, quando gli agenti statali dello Stato contraente non sarebbero ancora forza occupante, non sussistendo in questi casi il requisito dell'assoluto controllo del territorio. In queste prime fasi del conflitto la condotta di uno Stato contraente dovrebbe rispondere, secondo il Governo inglese, non agli standard stabiliti dalla Convenzione ma ai principi del diritto internazionale umanitario. Secondo la Corte europea infatti, seguire questa impostazione significherebbe porsi in contraddizione con la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia che costantemente afferma che il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti umani possono applicarsi contemporaneamente.
Per quanto attiene la violazione dell'art. 5, commi 1, 2, 3 e 4 Cedu l'attenzione della Corte europea si sofferma sull'eccezione dello Stato resistente secondo cui durante la fase attiva di un conflitto internazionale l'applicazione delle disposizioni della Convenzione deve tener conto del diritto internazionale umanitario, che si applica come lex specialis e può operare perfino nel senso di modificare o disapplicare una data disposizione della Cedu. È questo il primo caso in cui uno Stato chiamato a rispondere dinnanzi alla Corte di Strasburgo - nonostante non abbia avanzato nessuna richiesta di deroga formale ai sensi dell'art. 15 Cedu - chiede la disapplicazione degli obblighi che gli derivano dall'art. 5 Cedu, o meglio che questi vengano interpretati alla luce dei poteri di detenzione accordatigli dal diritto internazionale umanitario.
Richiamando il comma 3 dell'art. 31 del Trattato di Vienna, la Corte europea ribadisce che la Convenzione deve essere interpretata in armonia con le altre previsioni di diritto internazionale e che il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale umanitario coesistono persino in situazioni di conflitto armato. Alla luce di questa coesistenza le circostanze che permettono la privazione della libertà previste dalla lett. a alla lett. f del comma 1 dell'art. 5 Cedu devono armonizzarsi, per quanto è possibile, con quelle che permettono la cattura di prigionieri di guerra e la detenzione di civili secondo le disposizioni della terza e della quarta Convenzione di Ginevra. Di conseguenza - per quanto la Corte affermi che le privazioni di libertà permesse in applicazione del diritto internazionale umanitario non possano porsi in contrasto con l'art. 5 comma 1 Cedu - essa conclude che, durante un conflitto armato, l'art. 5 Cedu può interpretarsi alla luce del diritto internazionale umanitario, tanto da permettere allo Stato l'esercizio dei più ampi poteri di privazione della libertà previsti dalla terza e dalla quarta Convezione di Ginevra. Perché tale deroga si attui è necessaria - afferma la Corte - una specifica richiesta dello Stato contraente: non è infatti compito della Corte presumere che uno Stato intenda modificare gli impegni che ha assunto ratificando la Convenzione in assenza di una chiara indicazione. Tale richiesta, tuttavia, non deve necessariamente rivestire la forma della richiesta di deroga ex art. 15 Cedu. Nel merito non viene dunque riscontrata alcuna violazione dell'art. 5 Cedu. (Maria Chiara Ubiali)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 17 settembre 2014, Mocanu e altri c. Romania
I ricorrenti sono vittime delle misure di repressione adottate dalle forze dell'ordine rumene nel tentativo di sedare le insurrezioni popolari contro il regime totalitario di Ceausescu nel 1990.
In particolare, il marito di una delle ricorrenti è stato ucciso durante una manifestazione da un colpo di arma da fuoco partito dal quartiere generale del ministero dell'interno. Sempre nel corso di tali disordini, il secondo ricorrente lamenta di essere stato arrestato e di avere subito trattamenti inumani e degradanti da parte di agenti di pubblica sicurezza e altri civili preposti a coadiuvare le forze dell'ordine nelle operazioni di repressione. Infine, la terza ricorrente è l'associazione "21 Decembrie 1989" attivamente impegnata nell'assistenza alle vittime del regime, la cui sede, durante la repressione violenta del 1990, è stata attaccata e saccheggiata dagli agenti. Il procedimento avente ad oggetto l'omicidio del marito della prima ricorrente è ancora pendente. Il procedimento concernente i trattamenti inumani e degradanti subiti dal secondo ricorrente, nel quale l'Associazione "21 Decembrie 1989" si è costituita parte civile, si è concluso nel 2011 con una sentenza di non luogo a procedere. I ricorrenti lamentano, pertanto, una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu sotto il profilo processuale denunciando la mancanza di un'indagine effettiva in ordine ai fatti di cui sono stati vittime. Inoltre, l'Associazione "21 Decembrie 1989" contesta alla Romania la violazione della fairness processuale con riferimento alla durata del procedimento volto ad accertate la responsabilità civile e penale degli autori dei fatti contestati.
Tutte le doglianze dei ricorrenti sono state accolte dalla Corte europea.
Quanto alla violazione dell'aspetto processuale degli artt. 2 e 3 Cedu, la Corte europea evidenzia innanzitutto una ingiustificata lentezza delle investigazioni connotate da immotivati periodi di inattività e da una certa riluttanza nell'interrogare persone informate sui fatti. In secondo luogo, le investigazioni appaiono ai giudici di Strasburgo parziali e inadeguate. Le indagini sono state, infatti, affidate senza alcuna garanzia di indipendenza ad un pubblico ministero militare, anche lui ufficiale posto in rapporto di subordinazione all'interno della gerarchia militare proprio come gli imputati (due generali dell'esercito rumeno). Inoltre, nonostante la durata delle investigazioni, gli organi inquirenti non hanno chiarito, senza spiegarne le ragioni, gli aspetti essenziali ai fini dell'accertamento dei fatti contestati, quali le circostanze in cui le aggressioni si sono verificate e l'identità dei responsabili. Infine, la Corte europea ritiene che la durata del procedimento, pari a 15 anni dall'avvio delle investigazioni alla sentenza definitiva di non luogo a procedere, debba ritenersi irragionevole e, pertanto, ha accolto anche la censura del terzo ricorrente rilevando una violazione del principio di equità processuale come contemplato dall'art. 6 Cedu. (Paola Concolino)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 18 settembre 2014, Avanesyan c. Russia
Il ricorrente subisce una perquisizione domiciliare autorizzata da un provvedimento del giudice la cui motivazione si limitava ad affermare la probabilità che il ricorrente detenesse "oggetti di cui è proibita la libera circolazione e illecitamente acquisiti". La perquisizione dà esito negativo e nulla è sequestrato. Il ricorrente denuncia alla pubblica autorità l'illegittimità della perquisizione e il decesso del padre incorso proprio durante la perquisizione per via di un attacco cardiaco. La procura rifiuta l'avvio di un procedimento considerando la morte del padre del ricorrente una mera casualità e affermando la legittimità delle operazioni di perquisizione compiute dagli agenti.
Il ricorrente impugna allora il provvedimento che autorizzava la perquisizione per via della generica motivazione che esso recava. Il giudice nazionale rigetta tale ricorso affermando che la legge in applicazione della quale il provvedimento di perquisizione era stato disposto, c.d. "Operational-Search Activities Act", non ne consentiva l'impugnazione.
Il ricorrente si rivolge, così, alla Corte Costituzionale chiedendo la declaratoria di illegittimità del "Operational-Search Activities Act", nella parte in cui non consentiva l'impugnazione del provvedimento di perquisizione. La Corte Costituzionale, da un lato, sottolinea la caratteristica segretezza dei provvedimenti di perquisizione e quindi la ragionevolezza del fatto che il perquisito ne venga a conoscenza in un momento successivo alla sua adozione ed esecuzione. D'altro canto, essa riconosce la necessità che un provvedimento di perquisizione sia adeguatamente motivato in ordine agli specifici indizi, esistenti a carico del perquisito, di un reato grave che sia stato commesso o che si ritiene sia in fase di pianificazione; inoltre, afferma il diritto del singolo di rivolgersi a un giudice per la tutela dei propri diritti. Tuttavia, la Corte Costituzionale russa nega la propria competenza a verificare il modo in cui i singoli giudici interpretano e applicano un atto normativo specifico e, pertanto, rigetta il ricorso.
Il ricorrente adisce, quindi, la Corte europea, lamentando una violazione degli artt. 13 e 8 Cedu.
I giudici di Strasburgo, nell'accogliere le doglianze del ricorrente, ritengono sussistente la violazione dell'art. 13 Cedu, letto in combinato disposto con l'art. 8 Cedu: l'ordinamento russo, infatti, riconosce come unico rimedio avverso una perquisizione illegittima un ricorso avente ad oggetto la verifica della regolare condotta degli agenti che eseguono l'operazione; viceversa, nessuno strumento di impugnazione è garantito per accertare l'illegittimità del provvedimento giudiziale che autorizzi la perquisizione. Anche l'art. 8 Cedu nel caso di specie è stato violato. La Corte europea afferma, infatti, che l'ingerenza della pubblica autorità nella vita privata e familiare o nel domicilio di ogni persona è compatibile con la Cedu solo se funzionale al raggiungimento di uno degli scopi tassativamente indicati dall'art. 8 comma 2 Cedu. Ebbene, nel caso di specie, il provvedimento del giudice che autorizzava la perquisizione in casa del ricorrente non appare, ad avviso della Corte di Strasburgo, proporzionato ad alcuno di tali scopi né giustificato alla luce di taluno di essi: non indicava alcun procedimento pendente a carico del ricorrente, né alcun reato del quale il ricorrente fosse sospettato; non dichiarava quali fossero gli oggetti illecitamente acquisiti dei quali il ricorrente avrebbe dovuto essere in possesso, né per quale ragione una perquisizione in casa del ricorrente avrebbe fatto emergere la prova di un reato. (Paola Concolino)
C. eur. dir. uomo, Sez. I, 18 settembre 2014, Bljakaj e Altri c. Croazia
Il caso origina dal ricorso di quattro cittadini croati che contestano la violazione dell'art. 2 Cedu da parte delle autorità statali croate per non aver adottato tutte le misure necessarie a proteggere la vita della vittima, un'avvocatessa uccisa nel suo studio con un colpo di pistola dal marito di una sua cliente, A.N.
La mattina stessa del delitto l'omicida si era recato presso la propria banca per prelevare dal conto tutti i suoi soldi. In questa circostanza aveva attirato l'attenzione degli impiegati e dei clienti della filiale perché - come si evince dalle loro dichiarazioni - questi si comportava in modo strano tanto da sembrare mentalmente disturbato e instabile e quindi bisognoso di un medico. Per questa ragione un commesso della banca aveva contattato la locale stazione di polizia e due agenti si erano quindi recati presso l'abitazione di A.N. per un controllo. Secondo quanto riferito dai ricorrenti, i due ufficiali di polizia che si erano recati a casa dell'autore del delitto, pur rendendosi conto che il soggetto affermava l'intenzione di suicidarsi e di compiere altri atti violenti, non avvisavano tempestivamente le autorità mediche che, intervenendo, avrebbero potuto impedire il realizzarsi dell'omicidio.
La Corte europea afferma, in conformità alla sua costante giurisprudenza, che l'art. 2 Cedu comporta l'insorgere di una responsabilità nei confronti di uno Stato membro nel caso si sia dimostrato che le autorità conoscevano o avrebbero dovuto conoscere l'esistenza di un reale ed immediato rischio per la vita di un soggetto o di più soggetti determinati derivante dagli atti criminali di un soggetto terzo, e che tali autorità hanno omesso di adottare quegli atti che avrebbero potuto evitare il concretizzarsi del rischio.
Nel caso in oggetto viene in particolare in rilievo l'obbligo di garantire una protezione generale agli individui contro gli atti potenzialmente violenti di soggetti che danno l'impressione di soffrire di disturbi psichici. Secondo la Corte europea erano diversi gli interventi che le autorità croate avrebbero dovuto porre in essere per scongiurare i rischi alla vita delle persone derivanti dai comportamenti violenti di A.N. tuttavia, non si può concludere con assoluta certezza che - nel caso in cui gli agenti di polizia avessero agito in modo diverso - si sarebbe evitata la morte della vittima. Nonostante ciò, la Corte di Strasburgo ribadisce che ciò che è sufficiente per ritenere la responsabilità di uno Stato per violazione dell'art. 2 Cedu è la dimostrazione che le misure ragionevoli che lo Stato ha omesso di adottare avrebbero potuto alterare il decorso degli eventi o ridurre il pericolo, mentre non è necessario dimostrare che - se le autorità avessero agito - l'omicidio non si sarebbe verificato.
Con riguardo al caso concreto la Corte europea afferma che se gli agenti di polizia avessero avvisato con prontezza l'autorità medica, sottoponendo immediatamente A.N. ai necessari trattamenti sanitari, il decorso degli eventi sarebbe stato differente. Alla luce di ciò viene riscontrata la violazione dell'art. 2 Cedu. (Maria Chiara Ubiali)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 23 settembre 2014, Cevat Soysal c. Turchia
Il ricorrente è condannato in doppio grado di giudizio per essere membro e leader di un'organizzazione terroristica avente finalità eversive e secessionistiche. I giudici nazionali fondano la sentenza di condanna sulle trascrizioni di alcune intercettazioni telefoniche e sulle dichiarazioni precedentemente rese da persone informate e da altri imputati alla polizia e al pubblico ministero. Nonostante le reiterate richieste del difensore del ricorrente, i giudici nazionali hanno sempre, immotivatamente, rifiutato di consentire al ricorrente di ascoltare in prima persona le audio-registrazioni e di estrarne copia, nonché di chiamare a testimoniare i soggetti che avevano precedentemente reso dichiarazioni a suo carico.
La Corte europea rileva, nel caso di specie, una duplice violazione dell'art. 6 Cedu.
In primo luogo, i giudici nazionali hanno violato il principio di equità processuale non garantendo il contraddittorio sulla fonte di prova né la parità delle armi tra accusa e difesa: il ricorrente è stato infatti condannato sulla base di intercettazioni telefoniche delle quali non ha mai potuto conoscere il contenuto in via diretta e, pertanto, non è mai stato posto nelle condizioni di contestare l'affidabilità delle trascrizioni impiegate nel giudizio che erano state unilateralmente realizzate dalla polizia e dal perito nominato d'ufficio. Il diritto del ricorrente ad un processo equo è stato inoltre sacrificato dai giudici turchi senza giustificazione alcuna, così da non garantire all'imputato neppure un diritto di replica alle considerazioni che avrebbero dovuto motivare il rifiuto.
Inoltre, i giudici di Strasburgo accolgono le doglianze del ricorrente sotto un altro profilo, sempre afferente al principio di equità processuale. L'art. 6 comma 3 lett. d Cedu afferma il diritto dell'imputato di interrogare i testimoni a carico. La giurisprudenza della Corte europea ha, in diverse occasioni, affermato la necessità che sussista una valida ragione per escludere l'assunzione dei testimoni nel contraddittorio dibattimentale. Nel caso di specie, i giudici nazionali non hanno posto alcuna giustificazione a base del rigetto della richiesta dell'imputato di esaminare i testi. Peraltro, neppure il Governo turco, nel corso del procedimento davanti alla Corte europea, ha mai affermato che tale rifiuto avesse una finalità preventiva, quale poteva essere, in via esemplificativa, la sussistenza del timore di rappresaglie da parte del ricorrente nei confronti dei dichiaranti oppure la necessità di mantenere il riserbo sul metodo investigativo impiegato dalla polizia. (Paola Concolino)
C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 30 settembre 2014, Gross c. Svizzera
La grande camera era chiamata a pronunciarsi sull'appello promosso dal governo svizzero contro la sentenza adottata il 14 maggio 2013 con la quale la Corte europea aveva condannato la Svizzera per violazione dell'art. 8 Cedu. In quella sede, i giudici di Strasburgo avevano ritenuto che la mancanza di una puntuale e chiara regolamentazione interna sulla somministrazione di droghe ad uso terapeutico comportasse una lesione del diritto all'eutanasia come rientrante nel più ampio diritto al rispetto della vita privata.
Pendente il giudizio davanti alla grande camera, il Governo svizzero comunica alla Corte europea di avere appreso che la ricorrente già in data 24 ottobre 2011 aveva ottenuto la prescrizione medica del farmaco letale e il 10 novembre 2011 aveva posto fine alla propria vita assumendo la sostanza prescritta. Pertanto, la Svizzera chiede alla Corte di Strasburgo di dichiarare irricevibile il ricorso perché abusivo, avendo la ricorrente indotto in errore la medesima Corte su una circostanza essenziale ai fini dell'esame del ricorso. Sentito il difensore della ricorrente, la Corte europea apprende che anche questi era totalmente all'oscuro dell'avvenuta morte della sua assistita. La ricorrente aveva volontariamente omesso di comunicare le proprie intenzioni al difensore in quanto temeva che questi informasse la Corte europea, provocando così l'arresto del procedimento. Viceversa, essendo l'eutanasia un tema assai dibattuto e controverso in molti Stati aderenti alla Cedu, la ricorrente sperava che una decisione definitiva sul suo caso potesse aprire la strada a tutte le persone che si trovano nelle medesime condizioni.
La grande camera, pur premettendo di ritenere comprensibile la condotta della ricorrente per l'eccezionalità della situazione in cui versava, tuttavia la ritiene abusiva e accoglie l'obiezione del Governo svizzero. (Paola Concolino)
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 30 settembre 2014, Prezhdarovi c. Bulgaria
I ricorrenti, titolari di un computer club, sono sospettati di avere riprodotto e distribuito programmi informatici in assenza di autorizzazione da parte del titolare del copyright. Nel corso delle indagini, subiscono una perquisizione all'interno dei locali del computer club e il sequestro dei computer ivi in funzione. Le operazioni di perquisizione e sequestro sono state disposte dal pubblico ministero per dedotte ragioni di urgenza e, solo successivamente, convalidate dal giudice.
Nel corso del procedimento, i ricorrenti chiedono ripetutamente la restituzione dei computer perché contenenti dei dati personali irrilevanti ai fini dei fatti contestati. I giudici nazionali non hanno mai accolto le richieste dei ricorrenti.
I ricorrenti adiscono, quindi, la Corte europea lamentando di avere subito un'illecita ingerenza nella propria vita privata in violazione dei principi statuiti dall'art. 8 Cedu.
La Corte europea accoglie le censure dei ricorrenti: nel caso di specie, l'ordinamento bulgaro non ha offerto garanzie sufficienti a tutelare l'esercizio del diritto dei ricorrenti al rispetto della vita privata tanto nella fase antecedente quanto nella fase successiva alla perquisizione e al sequestro.
Innanzitutto, appare alla Corte europea molto discutibile la scelta di disporre un'operazione di perquisizione e sequestro senza, previamente, richiedere un'autorizzazione al giudice sulla base di presunte ragioni d'urgenza che di fatto non sussistevano nel caso di specie. L'operazione è stata, infatti, condotta ben tre settimane dopo l'adozione del provvedimento del pubblico ministero che la disponeva, tempo necessario, ad avviso dei giudici di Strasburgo, per avviare un formale procedimento penale nei confronti dei ricorrenti e chiedere l'autorizzazione alla perquisizione e all'eventuale sequestro direttamente al giudice competente.
L'assenza di una preventiva valutazione del giudice quanto all'opportunità dell'operazione non è stata neppure controbilanciata dalla garanzia di un effettivo controllo giudiziale successivo.
In sede di convalida della perquisizione e del sequestro, infatti, nulla il giudice nazionale afferma in relazione alle circostanze che avevano reso urgente e quindi legittima l'operazione. Non risulta, inoltre, che ai ricorrenti sia stata data alcuna ulteriore possibilità di ottenere un effettivo controllo da parte di un giudice sulla legittimità della perquisizione ed anche sull'opportunità di mantenere il sequestro. I giudici nazionali hanno sempre rigettato le richieste avanzate dai ricorrenti per ottenere la restituzione dei computer ed hanno motivato tale diniego affermando che fosse necessario mantenere il sequestro a fini probatori. Tuttavia, come evidenziato dai ricorrenti nelle loro reiterate richieste, i computer contenevano anche dati personali del tutto irrilevanti nel procedimento e i giudici nazionali non hanno mai preso in considerazione tale obiezione. Anche questa circostanza evidenzia, ad avviso della Corte europea, la carenza di effettività del controllo successivo operato dai giudici nazionali ai fini della tutela dei diritti dei ricorrenti, come garantiti dall'art. 8 Cedu. (Paola Concolino)