ISSN 2039-1676


11 ottobre 2013 |

Monitoraggio Corte Edu Luglio-Agosto 2013

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

 

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Prosegue, rinnovato, il monitoraggio mensile delle più importanti sentenze e decisioni della Corte EDU. A partire dal mese di gennaio 2013 il monitoraggio abbraccia infatti, oltre alle sentenze che interferiscono con il diritto penale sostanziale, anche quelle rilevanti per il diritto penale processuale. All'introduzione - contenente la presentazione ragionata dei casi di maggior interesse decisi dalla Corte nel periodo di riferimento -  segue la sintesi delle pronunce più rilevanti, presentate in ordine cronologico.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, in questo periodo, da Natalia Jurisch, Federica Recanello, Elisabetta Tiani e Francesco Zacchè. L'introduzione è a firma di Francesco Mazzacuva per quanto riguarda gli art. 2, 3 e 7 Cedu e l'art. 3 Prot. add. Cedu, mentre si deve a Francesco Zacchè la parte relativa agli art. 5, 6 e 10 Cedu.

 

SOMMARIO

 

 1. Introduzione

a)                 Art. 2 Cedu

b)                 Art. 3 Cedu

c)                  Art. 5 Cedu

d)                 Art. 6 Cedu

e)                  Art. 7 Cedu

f)                  Art. 10 Cedu

g)                 Art. 3 Prot. add. Cedu

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

* * *

 

1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

 

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo rilevante in materia penale presenta, anche nel luglio 2013, numerose pronunce concernenti il diritto alla vita sancito dall'art. 2 della Convenzione. In particolare, si registrano diverse violazioni degli obblighi di tutela penale di tipo "procedurale" - ossia derivanti dalla mancanza di indagini effettive su casi di omicidio da parte delle autorità nazionali - a fronte di un maggior restraint sul profilo "sostanziale", spesso dovuto proprio all'insufficienza di elementi di giudizio causata dall'inadeguatezza delle inchieste interne.

Tale impostazione, anzitutto, si riscontra nella sent. 16 luglio 2013, Abik c. Turchia, relativa all'uccisione di persone sospettate di appartenere al partito dei lavoratori curdi (PKK) da parte delle autorità turche, così come violazioni (solo) degli obblighi procedurali promananti dall'art. 2 Cedu sono state riscontrate - in ragione dell'eccessiva lentezza delle indagini relative all'uccisione di cittadini nordirlandesi ad opera di militari britannici - anche nelle coeve sent. 16 luglio 2013, McCaughey and others c. Regno Unito e Collette e Micheal Hemsworth c. Regno Unito. Ancora, analoga statuizione caratterizza la sent. 23 luglio 2013, Dambean c. Romania, concernente il decesso cagionato da un privato in occasione di un incidente stradale, nonché la sent. 1 agosto 2013, Saidova c. Russia, relativa ad un "classico" caso di sparizione in Cecenia, in cui la Corte europea non si spinge sino a riscontrare una violazione sostanziale dell'art. 2 Cedu in ragione della contraddittorietà che caratterizza la descrizione dei fatti da parte della ricorrente.

Accanto alle pronunce sinora segnalate, non mancano casi in cui ai rilievi sul procedural aspect si accompagna anche una dichiarazione di violazione del substantive aspect della disposizione, come avvenuto nella sent. 2 luglio 2013, Gülbahar Özer e a. c. Turchia - in cui dall'ineffettività delle indagini sui decessi cagionati delle autorità nazionali è stata altresì dedotta l'assenza di ogni prova circa la proporzionalità dell'uso della forza - ovvero nelle sent. 4 luglio 2013, Baysultanova e altri c. Russia, e 1 agosto 2013, Kaykharova e a. c. Russia, ancora relative a casi di sparizione di persone in Cecenia (e nelle quali l'inerzia delle autorità investigative è stata altresì qualificata alla stregua di un trattamento inumano rispetto ai familiari degli scomparsi).

Per contro, nella decisione 2 luglio 2013, Kizmaz c. Turchia, la Corte europea ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai familiari di un militare morto suicida per depressione e nel quale veniva lamentata la violazione degli obblighi di tutela del diritto alla vita, dato che le misure adottate dalle autorità militari per prevenire tale evento (pur successivamente verificatosi) sono state ritenute idonee.

Piuttosto significativa, infine, risulta la decisione 9 luglio 2013, Alp c. Turchia (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte europea ha ritenuto inammissibile il ricorso interposto dai genitori di una bambina morta a causa del difettoso fissaggio di uno scivolo in un parco pubblico. Sebbene la punizione dei responsabili fosse stata impedita dall'intervento della prescrizione, infatti, il congruo risarcimento accordato in sede civile ha condotto i giudici di Strasburgo ad escludere la necessità di un'ulteriore accertamento sul terreno penale (con interessanti considerazioni anche circa la persistenza, in tale ipotesi, della qualità di "vittima").

 

b) Art. 3 Cedu

 

Sotto l'angolo dell'art. 3 della Convenzione, la pronuncia più rilevante dello scorso luglio è indubbiamente rappresentata dalla sentenza della Grande Camera 9 luglio 2013, Vinter e a. c. Regno Unito. Ribaltando la posizione espressa dalla Quarta Sezione (su cui cfr. il commento critico di Viganò F., Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 CEDU: (poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 4 luglio 2013), la Corte europea, censurando la disciplina della liberazione anticipata vigente nel Regno Unito, offre importanti precisazioni in ordine al problema della compatibilità dell'ergastolo con il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Se, infatti, nella giurisprudenza di Strasburgo era già stato affermato che la pena perpetua può considerarsi legittima solo se affiancata da regole che la rendano riducibile (compressible) in concreto - consentendo, appunto, la liberazione anticipata del condannato -, nella sentenza in parola la Corte europea precisa che tali regole devono offrire concrete prospettive di scarcerazione dopo un periodo minimo di detenzione prestabilito e predeterminare in maniera chiara tempi e modalità della revisione, così da permettere al condannato di comprendere le condizioni della sua liberazione (sul punto, cfr. Viganò F., Ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale nel Regno Unito e articolo 3 CEDU: la Grande Camera della Corte EDU ribalta la sentenza della Quarta Camera, in questa Rivista, 26 luglio 2013).

Rimanendo sul terreno del rapporto tra esecuzione della pena carceraria e divieto di trattamenti inumani e degradanti, inoltre, si devono segnalare le numerose pronunce che, come di consueto, attengono al problema del sovraffollamento carcerario: in particolare, tale circostanza ha condotto la Corte europea a rilevare violazioni dell'art. 3 Cedu nelle sent. 2 luglio 2013, Feher c. Ungheria; 4 luglio 2013, Rzakhanov c. Azerbaijan; 30 luglio 2013, Toma Barbu c. Romania; 1 agosto 2013, Horshill c. Grecia; 9 luglio 2013, Ciobanu c. Romania e Italia (quest'ultima con interessanti considerazioni anche sotto il profilo dell'art. 5 comma 1 Cedu, sulle quali si tornerà). In tali  pronunce, peraltro, i giudici di Strasburgo denunciano frequentemente anche il conseguente problema delle condizioni igienico-sanitarie degli istituti penitenziari sovraffollati. Quest'ultima tematica, d'altra parte, emerge talvolta come causa di violazione dell'art. 3 Cedu anche indipendentemente dal numero di detenuti per cella, come avvenuto nella sentenza 23 luglio 2013, Scarlat c. Romania, relativa alla contrazione di un virus da parte di un detenuto dovuta alle condizioni igieniche dei diversi istituti nei quali era stato recluso.

Talvolta, poi, modalità di esecuzione carceraria astrattamente compatibili con gli standard dell'art. 3 Cedu, sono considerate comunque illegittime alla luce delle condizioni personali del singolo ricorrente. Tale situazione ricorre nelle sent. 23 luglio 2013, Adem Ahmen c. Malta, in cui la Corte europea ha rivenuto una violazione alla luce delle misure inadeguate rispetto alle patologie psichiche sofferte dalla ricorrente; 30 luglio 2013, Mircea Dumitrescu c. Romania, relativa alle condizioni di detenzione di un soggetto paralitico al quale non era stata messa a disposizione una sedia a rotelle dalle autorità carcerarie; 16 luglio 2013, Stoleriu c. Romania, e 25 luglio 2013, Kummer c. Repubblica Ceca, entrambe relative ad un utilizzo di manette nei confronti di detenuti ritenuto sproporzionato alla luce delle concrete circostanze.

Infine, diverse violazioni dell'art. 3 Cedu, come di consueto, concernono l'uso illegittimo della forza da parte delle autorità di polizia in contesti di restrizione della libertà personale (arresto o detenzione) o di mansioni di ordine pubblico (in particolare, durante manifestazioni pubbliche). In queste ipotesi - anche sulla base dell'inversione dell'onere della prova che impone agli Stati di dimostrare l'assenza di ogni nesso di causalità tra lesioni riportate ed operato della autorità di sicurezza, ovvero una ragione giustificativa per l'uso della forza -, la Corte europea rileva frequentemente una violazione diretta della disposizione, così come un inadempimento degli obblighi procedurali derivanti dalla stessa. Ciò è avvenuto, nel periodo in esame, nelle sentenze 2 luglio 2013, Holodenko c. Lettonia e Mustafa Aldemir c. Turchia; 23 luglio 2013, Gorea c. Repubblica di Moldavia; (relative a violenze nelle fasi di fermo o arresto); 9 luglio 2013, SubaÅŸi e Çoban c. Turchia; 16 luglio 2013, Abdullah Yasa e altri c. Turchia; 23 luglio 2013, Izci c. Turchia (relative a violenze commesse in occasione della repressione di manifestazioni pubbliche, nell'ultima pronuncia citata tali da integrare altresì una violazione dell'art. 11 Cedu). Solo in un caso in cui i ricorrenti non avevano dato adeguata dimostrazione delle circostanze fattuali nelle quali sarebbe avvenuta la violenza, la Corte europea si è limitata a rilevare una violazione del profilo procedurale in ragione dell'insufficienza delle indagini svolte dalle autorità nazionali (sent. 9 luglio 2013, Bozdemir e YeÅŸilmen c. Turchia).

Come noto, peraltro, gli obblighi positivi derivanti dall'art. 3 Cedu rilevano anche in caso di condotte commesse da privati, come ribadito in maniera significativa dalla Corte europea nella sent. 16 luglio 2013, Mudric c. Repubblica di Moldavia (per una sintesi, v. infra). La pronuncia riguarda una lunga vicenda di violenze domestiche subite da una donna divorziata ad opera dell'ex marito ed è significativo che la Corte europea decida di ricondurre proprio sul terreno dell'art. 3 Cedu tale ipotesi, a conferma di un indirizzo in tema di violenza di genere emerso di recente (cfr. Parodi C., La Corte di Strasburgo alle prese con la repressione penale della violenza sulle donne, in questa Rivista, 22 maggio 2013). Sempre ribadendo quanto affermato in alcune precedenti sentenze, peraltro, i giudici di Strasburgo si spingono sino a denunciare sotto l'angolo dell'art. 14 Cedu il sistematico atteggiamento discriminatorio delle autorità pubbliche rispetto ai casi di violenza domestica.

 

c) Art. 5 Cedu

 

Con riguardo alla libertà personale, si segnala la sent. 9 luglio 2013, Ciobanu c. Romania e Italia, dove la Corte europea ha accertato come il ricorrente avesse sopportato una detenzione più lunga di quanto dovuto secondo la legislazione nazionale: nella determinazione della pena, il giudice rumeno non aveva tenuto conto del periodo trascorso dal ricorrente in Italia agli arresti domiciliari. Di qui, la lesione dell'art. 5 comma 1 Cedu per il surplus di pena.

La Corte di Strasburgo ha riscontrato altresì una violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu nella sent. 11 luglio 2013, Rudnichenko c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), stigmatizzando la prassi diffusa in tale Stato di ricorrere a misure limitative della libertà personale di natura amministrativa, in situazioni in cui dovrebbero trovare applicazione la disciplina e le garanzie dettate dal codice di procedura penale in materia di arresto. Nella medesima vicenda, il giudice europeo ha ravvisato una violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu per la durata irragionevole della detenzione provvisoria.

 

d) Art. 6 Cedu

 

Quanto all'equità processuale, si segnalano due sentenze relative all'imparzialità in senso oggettivo del giudice. La prima è la sent. 11 luglio 2013, Morice c. Francia (per una sintesi, v. infra) - dove si è concluso per la responsabilità dello Stato convenuto - concernente una vicenda in cui un giudice di Cassazione, che aveva confermato la condanna per diffamazione a mezzo stampa del ricorrente, in precedenza aveva espresso pubblicamente il proprio apprezzamento sull'operato del diffamato: questi era un magistrato che aveva svolto le funzioni d'istruttore in due casi in cui il diffamatore, in qualità di avvocato delle parti civili, aveva assunto un atteggiamento estremamente critico nei suoi confronti. La seconda pronuncia interessante è la sent. 11 luglio 2013, Rudnichenko c. Ucraina (per una sintesi, v. infra): qui, la Corte europea ha riscontrato una violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, perché il medesimo giudice aveva condannato il ricorrente, dopo aver espresso il convincimento sulla sua responsabilità nel processo a carico del complice. Ancora in relazione all'art. 6 comma 1 Cedu, va rammentata pure la sent. 25 luglio 2013, Castellino c. Belgio, dove la Corte europea ha accertato la responsabilità dello Stato belga per aver condannato in assise l'imputato sulla base di un verdetto, dove né il capo d'imputazione né i quesiti sottoposti alla giuria offrivano al ricorrente la possibilità di comprendere quali fossero stati gli elementi di prova e le circostanze di fatto posti a fondamento della sua colpevolezza.

Con specifico riguardo al diritto difesa, vanno poi richiamate la dec. 2 luglio 2013, Plesic c. Italia (per una sintesi, v. infra) e la sent. 25 luglio 2013, Sfez c. Francia. In entrambe le vicende, i ricorrenti si lamentano della mancata assistenza del difensore nelle udienze d'appello ex art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu. Nel primo caso, la Corte europea ha dichiarato non ricevibile il ricorso: nella specie, il giudice italiano aveva negato l'ennesima concessione di un rinvio delle attività dibattimentali, dopo che il ricorrente aveva revocato l'incarico al difensore nominato d'ufficio nel corso dell'udienza precedente, provvedendo al contempo alla scelta di un difensore di fiducia, il quale si era riservato d'accettare l'incarico. Nell'affare Sfez, invece, è accaduto che, dieci giorni prima dell'udienza, il ricorrente avesse revocato l'incarico al difensore d'ufficio nominato nel giudizio di prime cure; e, il giorno dell'udienza, avesse chiesto inutilmente un rinvio della causa, perché la corte d'appello provvedesse alla nomina di un altro difensore. La Corte europea ha escluso qui una lesione delle prerogative defensionali, perché l'imputato, nel caso concreto, era stato messo nelle condizioni di difendersi adeguatamente.

In tema di contraddittorio, si segnalano diverse pronunce le cui argomentazioni si sviluppano sulla base dei principi elaborati dalla Corte europea nei casi Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito. Anzitutto, nella sent. 11 luglio 2013, Rudnichenko c. Ucraina (per una sintesi, v. infra), la Corte di Strasburgo ha accertato che mancavano ragioni valide per ammettere in dibattimento la lettura delle dichiarazioni acquisite in precedenza, non avendo il giudice mai disposto l'audizione del dichiarante detenuto in carcere. Con la sent. 18 luglio 2013, Vronchenko c. Estonia (per una sintesi, v. infra), poi, la Corte europea ha constatato la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, perché l'uso determinante in condanna delle dichiarazioni rese dal teste assente - una minorenne abusata sessualmente - non era stato controbilanciato da misure idonee a salvaguardare l'equità processuale, come ad esempio la presenza del difensore al colloquio investigativo con la vittima; nelle sent. 9 luglio 2013, BobeÅŸ c. Romania e Sică c. Romania, infine, il giudice europeo è giunto alle medesime conclusioni, asserendo che le letture dibattimentali delle dichiarazioni dei testimoni assenti (rispettivamente, per motivi di salute e per irreperibilità), e determinanti ai fini delle condanne, non erano state controbilanciate da elementi di prova corroboranti.

A proposito dell'art. 6 comma 2 Cedu, va menzionata almeno la sent. 12 luglio 2013, Allen c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra), dove la grande camera ha escluso che abbia violato la presunzione d'innocenza il rifiuto delle corti civili britanniche di concedere l'indennizzo per ingiusta detenzione alla ricorrente, la cui condanna emessa dalla giuria era stata annullata in sede di appello (quale rimedio straordinario) per la sopravvenienza di nuove teorie mediche in grado d'offrire una spiegazione alternativa sulle cause del decesso della vittima.

 

e) Art. 7 Cedu

 

Nel luglio 2013, la Grande Camera della Corte europea ha emesso l'importante sent. 18 luglio 2013, Maktouf and Dajanovic c. Bosnia Erzegovina, sul principio di legalità sancito dall'art. 7 Cedu. In particolare, la pronuncia si caratterizza per le rilevanti affermazioni in tema di legalità della pena (nulla poena sine lege) - relativamente ad un problema di determinazione della disciplina più favorevole tra le diverse succedutesi nel tempo -, nonché per le importanti precisazioni circa lo spettro di operatività dell'art. 7 comma 2 Cedu. Infatti, una volta rilevata l'applicazione retroattiva della pena più sfavorevole stabilita dal codice penale del 2003 per i crimini di guerra commessi dai due ricorrenti durante il conflitto nella ex-Jugoslavia, la Corte chiarisce anche come la clausola di eccezione prevista dal secondo comma (c.d. formula di Radbruch) non possa essere invocata nel caso di specie in quanto riferibile, sulla base di un'interpretazione storica, esclusivamente ai fatti commessi durante la Seconda guerra mondiale (sul punto, v. Mazzacuva F., La Corte europea torna sul principio di legalità della pena e chiarisce la portata della c.d. formula di Radbruch, in questa Rivista, 17 settembre 2013).

 

f) Art. 10 Cedu

 

Nel periodo sotto osservazione, diverse sono state le pronunce rilevanti sotto l'angolo della libertà di espressione tutelata dall'art. 10 Cedu, la cui violazione è stata riscontrata, anzitutto, nella sent. 16 luglio 2013, Belek e Özkurt c. Turchia, relativa all'imposizione di una pena pecuniaria per la pubblicazione di interviste a membri del partito combattente curdo prive, tuttavia, di qualsiasi istigazione alla violenza, e nella sent. 23 luglio 2013, Sampaio e Piava De Melo c. Portogallo, in cui la condanna per diffamazione di un giornalista è stata ritenuta sproporzionata, pur essendo stata applicata esclusivamente una pena pecuniaria, alla luce della rilevanza pubblica del personaggio di cui erano state rivelate le pendenze legali.

Sempre con riguardo all'art. 10 Cedu, si segnala - oltre alla sent. 11 luglio 2013, Morice c. Francia (per una sintesi, v. infra) in tema di libertà di espressione e condanna per diffamazione a mezzo stampa del ricorrente - la sent. 16 luglio 2013, Nagla c. Lettonia, riguardante una perquisizione effettuata d'iniziativa dalla polizia - e convalidata a posteriori dal giudice - sul personal computer (e sui relativi accessori) di un giornalista televisivo, allo scopo di sequestrare materiale digitale riconducibile a un suo informatore, all'epoca sottoposto a procedimento penale per l'accesso abusivo a sistemi informatici e per la diffusione illecita di dati elettronici. Constatata l'interferenza con la libertà di ricevere e diffondere informazioni ex art. 10 Cedu, la Corte europea ha reputato che la perquisizione fosse prescritta dalla legge e perseguisse uno scopo legittimo, ma che, nella specie, non risultasse necessaria in uno Stato democratico: l'attività di ricerca della prova, infatti, era stata attivata d'urgenza, nonostante fossero passati oltre tre mesi dall'ultimo contatto fra il giornalista e la sua fonte, nel presupposto che il materiale da sequestrare potesse venire distrutto, cancellato o danneggiato.

 

g) Art. 3 Prot. add. Cedu

 

Infine, nel luglio 2013, la Corte torna nuovamente sul problema della legittimità dell'interdizione dal voto per i soggetti condannati durante il periodo di detenzione. Nella sentenza 4 luglio 2013, Anchugov e Gladkov c. Russia, infatti, la Russia è stata condannata per l'automatismo che caratterizza l'applicazione della sanzione accessoria nella disciplina interna quando, invece, le esigenze di tutela del diritto di voto sancito dall'art. 3 Prot. add. Cedu richiedono una specifica relazione "funzionale" tra il reato commesso e la privazione dell'elettorato attivo.

La pronuncia è particolarmente rilevante perché ribadisce l'orientamento espresso dalla Corte in alcune pronunce che sono state molto criticate in ambito nazionale (in particolare negli ambienti anglosassoni, a seguito della sent. 6 ottobre 2005, Hirst c. Regno Unito) e, soprattutto, perché nel caso di specie l'applicazione automatica della sanzione era prevista da una norma costituzionale. Riemerge, in effetti, quell'orientamento della Corte secondo il quale una violazione della Convenzione può derivare anche da misure esecutive di una disposizione costituzionale (cfr. già la sent. 29 ottobre 1992, Open Door c. Irlanda). Di notevole importanza, in particolare, risultano i termini della Corte nel momento in cui si afferma che «a Contracting Party is responsible under Article 1 of the Convention for all acts and omissions of its organs regardless of whether the act or omission in question was a consequence of domestic law or of the necessity to comply with international legal obligations (see, among other authorities, Nada, cited above, § 168). As has been noted in paragraph 50 above, Article 1 makes no distinction as to the type of rule or measure concerned and does not exclude any part of a member State's "jurisdiction" - which is often exercised in the first place through the Constitution - from scrutiny under Convention» (sul punto, cfr. la scheda di Zirulia S., La privazione del diritto di elettorato attivo a seguito di condanna penale, sullo sfondo dei rapporti tra Convenzione edu e Costituzioni degli Stati contraenti: crisi del modello della "norma interposta"?, in questa Rivista, 15 settembre 2013).

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 2 luglio 2013, Plesic c. Italia

Condannata in primo grado per circonvenzione d'incapace, la ricorrente nomina due difensori per l'appello. Il giorno prima dell'udienza, tuttavia, li revoca e nomina un nuovo difensore di fiducia che rinuncia al mandato. Viene perciò rinviato il processo. Alla nuova udienza, la corte d'appello nomina un difensore d'ufficio che ottiene un termine a difesa al fine di studiare le carte processuali. Il giorno prima dell'udienza, la ricorrente revoca l'incarico al difensore d'ufficio. Essa asserisce d'aver provveduto alla nomina di un altro avvocato, il quale avrebbe chiesto inutilmente l'ennesimo rinvio dell'udienza. Il giudice di secondo grado conferma la condanna, censurando la condotta dilatoria della ricorrente. Nella motivazione della sentenza della corte d'appello, si legge che, durante il dibattimento, la ricorrente aveva presentato una domanda d'aggiornamento della causa a seguito della nomina d'un altro difensore di fiducia che, però, si era riservato la facoltà d'accettare il mandato. La corte aveva così rigettato la richiesta e mantenuto il difensore d'ufficio. A questo punto, un altro difensore nominato di fiducia ricorre per cassazione, ma il giorno dell'udienza questi è assente, perché aderisce allo sciopero degli avvocati. La Cassazione rigetta il ricorso. La ricorrente lamenta, senza successo, la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu. Per la Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha dichiarato irricevibile il ricorso, la decisione adottata dal giudice di secondo grado non è arbitraria. Anzi, a suo parere, le corti nazionali devono tenere presente la durata ragionevole del processo, nel rispetto del diritto di difesa, condizione questa assicurata nel caso di specie. Quanto all'assenza del difensore nell'udienza di Cassazione, la Corte di Strasburgo osserva che l'avvocato, anzitutto, era stato informato molto tempo prima della celebrazione dell'udienza; inoltre, egli sapeva che, per giurisprudenza consolidata, l'adesione agli scioperi di categoria non comporta un aggiornamento automatico delle udienze. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 9 luglio 2013, Alp c. Turchia

Il 13 agosto 2000 i ricorrenti, due cittadini turchi, sono andati, insieme alla figlia di quattro anni in un parco giochi di Istanbul. Sulla piccola crollava uno scivolo non adeguatamente fissato al pavimento, causandone la morte. Il tribunale penale ha condannato i due ingegneri responsabili del parco e l'imprenditore privato responsabile dell'area giochi a pochi mesi di reclusione, poi commutati in sanzioni pecuniarie. La Corte Suprema, nel 2008, ha rigettato l'impugnazione delle parti dichiarando il reato estinto per decorrenza del termine di prescrizione e la sentenza è divenuta definitiva. Nel frattempo, il tribunale amministrativo nel 2003 ha condannato l'amministrazione a risarcire i danni morali e materiali ai due genitori, rinvenendo una negligenza nel mancato controllo della sicurezza delle strutture del parco. Il risarcimento è stato pagato, con interessi di mora, nel 2008, per un totale di 36.234 euro. La Corte europea ritiene infondata la violazione dell'art. 2 Cedu nella misura in cui i ricorrenti non possono considerarsi vittime ai sensi dell'art. 34 Cedu. Chiarisce infatti che la qualità di vittima può dipendere, fra l'altro, dalla persistenza di conseguenze negative per l'interessato dopo tali decisioni e dunque anche dal risarcimento concesso a livello nazionale. Afferma inoltre che l'obbligo positivo di cui all'art. 2 Cedu, di istituire un sistema giudiziario efficace, non richiede necessariamente in tutti i casi un rimedio penale e, al contrario, può essere soddisfatto anche se il sistema giuridico in questione prevede un rimedio in sede civile, al fine di stabilire le responsabilità ed ottenere una riparazione appropriata in sede civile. Ciò è quanto accaduto nel caso in esame, e pertanto, avendo i due genitori ricevuto un adeguato risarcimento dall'amministrazione, non vi è né violazione dell'art. 2 Cedu, né violazione dell'art. 6 Cedu, non avendo la prescrizione dell'azione penale impedito ai ricorrenti di ottenere un risarcimento del danno subito. (Natalia Jurisch)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 11 luglio 2013, Morice c. Francia

La ricorrente è un avvocato che, nel corso degli anni novanta del secolo scorso, assiste la moglie di un giudice francese, Borrel, ufficialmente morto per suicidio in un Paese africano, ma di cui in realtà si sospetta l'omicidio. Disposta l'apertura di una nuova inchiesta, viene incaricata quale giudice istruttore M. I ritardi nella conduzione dell'inchiesta spingono la corte d'appello ad attribuire l'affare a un altro giudice istruttore. In questo contesto, il 4 luglio del 2000, - J.M. - esprime pubblicamente solidarietà e fiducia alla collega M., al termine di un'assemblea generale dei magistrati appartenenti al Tribunale di grande istanza di Parigi; le dichiarazioni d'apprezzamento nascono dalle notizie di stampa, dove si riporta che il Consiglio superiore della magistratura avesse aperto - su iniziativa del Ministro di giustizia - un dossier relativo a M. in merito alla correttezza del suo operato nell'ambito di un'indagine su Scientology. A sua volta, il 6 settembre del 2000, la ricorrente chiede al Ministro di giustizia l'avvio di un procedimento disciplinare nei confronti di M. per la parzialità dimostrata nella conduzione dell'inchiesta sulle cause della morte di Borrel. Il giorno dopo, su Le Monde, appare un articolo dedicato a tale vicenda, in cui la ricorrente denuncia l'assenza d'imparzialità del giudice M. e la sua connivenza con le autorità giudiziarie del Paese africano. Di qui, il procedimento penale per diffamazione a mezzo stampa contro la ricorrente, il direttore del giornale e il giornalista, giudizio che si conclude con la loro condanna. In appello, la sentenza viene confermata; il giudice di seconde cure, in proposito, dà atto dell'ostilità fra M. e la ricorrente: proprio un paio di giorni prima della pubblicazione dell'articolo incriminato - si legge nella motivazione della sentenza d'appello - la ricorrente, avvocato delle parti civili pure nel processo a Scientology, aveva ottenuto che fosse la Camera d'istruzione di Parigi a svolgere la trattazione della causa, in sostituzione del giudice M., per il sospetto che quest'ultima avesse occultato alcune carte processuali. Nel 2009, la Cassazione - nel cui collegio siede il magistrato J.M. - conferma la condanna per diffamazione. A questo punto, la ricorrente si rivolge a Strasburgo lamentando la violazione degli art. 6 comma 1 e 10 Cedu. Quanto alla supposta ingerenza nella libertà di espressione, la Corte europea esclude la violazione del dettato convenzionale: l'articolo relativo al giudice M., in breve, è caratterizzato da una particolare virulenza; la ricorrente, inoltre, è stata condannata a una pena pecuniaria, proporzionata rispetto ai fatti in causa. Con riguardo all'equità processuale, invece, la Corte di Strasburgo ravvisa una lesione dell'imparzialità in senso oggettivo. Nonostante fossero passati nove anni dalle dichiarazioni di J.M., la Corte europea valorizza il fatto che, all'epoca dell'apprezzamento pubblico, il giudice M. fosse già stato incaricato della vicenda Borrel, cioè d'un caso di notevole impatto politico e mediatico; inoltre, prosegue la Corte, nella vicenda Scientology, il giudice M. era stato rimosso dall'incarico, perché sospettato d'essere all'origine d'una sparizione di carte processuali, proprio su segnalazione della ricorrente. Di conseguenza, per la Corte di Strasburgo, è chiaro come la ricorrente e il giudice M. fossero in contrapposizione tanto nell'affare relativo a Scientology, dove il giudice J.M. aveva espresso la propria fiducia nei confronti di M., quanto nella vicenda della diffamazione in cui l'alto magistrato sedeva nel collegio giudicante. Tutto ciò è sufficiente a suscitare dubbi sull'imparzialità della Corte di cassazione. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 11 luglio 2013, Rudnichenko c. Ucraina

Nel 2005, il ricorrente e il complice B. tentano un furto all'interno di un autoveicolo. B. viene arrestato. Nel 2006, il ricorrente viene sorpreso ancora a rubare in un'automobile. Arrestato dal proprietario dell'automezzo, viene consegnato, in stato di ebbrezza, alla polizia. Il giorno stesso l'autorità procedente mette il ricorrente in detenzione amministrativa per ubriachezza pubblica. Trascorsi tre giorni, viene (ri)arrestato per il furto commesso tre giorni prima e, successivamente, tenuto in custodia cautelare per oltre un anno e dieci mesi. Nel frattempo, il correo B. viene processato e condannato dal giudice R. A questo punto, anche il ricorrente viene processato dal giudice R. e condannato, per l'episodio del 2005, sulla base della lettura delle dichiarazioni rese dal complice nel procedimento a quo. La Corte europea accerta diverse violazioni del dettato convenzionale. Quanto alla libertà personale, anzitutto, la lesione dell'art. 5 comma 1 Cedu, perché l'arresto per il furto sarebbe dovuto avvenire in flagranza di reato e non una volta spirata la misura amministrativa. Quindi, la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu, poiché la detenzione del prevenuto è stata eccessiva, non sussistendo le ragioni sufficienti per la sua proroga, né avendo le autorità spiegato la diligenza dovuta nella conduzione dell'affare. Con riguardo all'equità processuale, inoltre, si riscontra la parzialità del giudice R., sotto il profilo oggettivo, perché questi aveva già espresso un giudizio sulla responsabilità del ricorrente nella sentenza pronunciata nel processo separato. Infine, la Corte europea ravvisa una violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, dato che la condanna del ricorrente si è fondata sulla lettura delle dichiarazioni accusatorie rese dal correo nel procedimento a quo, senza che venisse disposto dal giudice l'esame del dichiarante del processo ad quem: quest'ultimo era facilmente reperibile, considerato che stava scontando la propria pena in un carcere ucraino, né risulta un consenso implicito del ricorrente all'uso delle dichiarazioni raccolte senza contraddittorio; non sussistevano, dunque, motivi tali da giustificare una restrizione del diritto dell'accusato di controesaminare l'imputato di reato connesso. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 12 luglio 2013, Allen c. Regno Unito

La ricorrente viene condannata dalla giuria per l'omicidio colposo del proprio neonato; le consulenze degli esperti concordano che la morte sia stata provocata dallo scuotimento dell'infante, come si evince dalle tre tipologie di lesioni accertate sul cadavere. Dopo qualche anno, la ricorrente presenta un'impugnazione straordinaria alla corte d'appello finalizzata a ottenere l'annullamento della condanna, poiché nuove ipotesi scientifiche supportano la tesi che la triade di lesioni riscontrate sulla vittima possono essere attribuite anche a cause diverse dalla cosiddetta "sindrome da scuotimento". Dopo aver raccolto il contributo di vari esperti, la corte d'appello annulla la condanna, ritenendo che la stessa non potesse "dirsi sicura". A questo punto, la ricorrente chiede al giudice civile d'essere risarcita per la detenzione sopportata, ma la sua richiesta non ha successo. Di qui, la madre lamenta la violazione della presunzione d'innocenza. La Corte europea, però, nega l'inosservanza dell'art. 6 comma 2 Cedu. Nell'escludere l'indennizzo per l'errore giudiziario, si osserva, l'autorità inglese si è richiamata alle conclusioni raggiunte dalla corte d'appello che, dal canto suo, si è limitata a dichiarare la condanna della ricorrente "insicura", senza rivalutarne l'innocenza o la colpevolezza. Non solo: nelle proprie determinazioni, il giudice civile non ha mai suggerito l'idea che la corte d'appello si fosse sbagliata nell'apprezzare il rinnovato quadro probatorio. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 16 luglio 2013, Mudric c. Repubblica di Moldavia

La ricorrente, Livia Mudric, è una cittadina moldava nata nel 1939, divorziata da ventidue anni, che adisce la Corte lamentando una violazione dell'art. 3 Cedu con riguardo ai fatti avvenuti presso la sua abitazione fra il febbraio 2010 ed il gennaio 2011. Si tratta nello specifico di violenze fisiche e sessuali subite dall'ex marito e prontamente denunciate alle autorità nazionali. Le stesse, tuttavia, hanno omesso di agire fino al gennaio 2011 in ragione della malattia psichiatrica di cui il marito era affetto e non adottando gli strumenti messi a disposizione dal diritto interno (divieto di frequentazione della casa della vittima), giustificando il comportamento del marito sulla base del ruolo che la donna deve assumere nella famiglia. La Corte, nel valutare l'adempimento degli obblighi positivi gravanti sullo Stato membro derivanti dall'art. 3 Cedu, condanna la Repubblica di Moldavia per non aver adottato le misure necessarie ad evitare la prosecuzione di tali violenze, condannando di fatto la ricorrente a subire trattamenti disumani e degradanti. Nel far ciò, i giudici tengono conto dell'età della ricorrente che, di fatto, le impediva di reagire ai maltrattamenti. Inoltre, la Corte riconosce una violazione dell'art. 14 Cedu in combinato disposto con l'art. 3 Cedu, ravvisando nella condotta delle autorità nazionali un comportamento discriminatorio: nel caso di specie, infatti, non ci si trova di fronte a semplici omissioni o ritardi delle autorità nazionali, ma a atteggiamenti di sistematica tolleranza nei confronti delle violenze domestiche contro le donne, dai quali si evince come lo Stato non abbia compreso appieno la portata e la gravità del problema della violenza domestica e il suo effetto discriminatorio sulle donne. (Federica Recanello)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 18 luglio 2013, Vronchenko c. Estonia

Il ricorrente viene sottoposto a procedimento penale, perché sospettato d'aver abusato sessualmente della figliastra di nove anni. La bambina viene sentita svariate volte dalla polizia, alla presenza di psicologi o di assistenti sociali, nonché sottoposta ad accertamenti medici. Messo in custodia cautelare, il ricorrente chiede più volte un confronto con la vittima, ma sempre senza successo. Durante il dibattimento, vengono sentiti gli esperti e alcuni testimoni; viene, quindi, disposta la lettura delle dichiarazioni accusatorie rilasciate dalla minorenne nel corso delle indagini e mostrato il video registrato dalla polizia in occasione di uno dei colloqui. La corte condanna il ricorrente a otto anni di carcere, asserendo che il recupero degli atti d'indagine fosse giustificato dalle precarie condizioni psicofisiche della minorenne, come attestato dagli esperti. I successivi gradi di giudizio confermano la sentenza di primo grado. Così, il ricorrente si rivolge alla Corte europea sostenendo la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. Richiamati i propri principi in materia, anzitutto, la Corte europea osserva che le precarie condizioni di salute della bambina costituivano un buon motivo per ammettere nel dibattimento le dichiarazioni pregresse; in secondo luogo, il giudice europeo constata che le affermazioni della vittima risultano determinanti ai fini della condanna; quanto ai fattori idonei a controbilanciare la carenza di dialetticità, infine, la Corte di Strasburgo ritiene che, nonostante fosse chiaro fin dalle prime fasi delle indagini che la vittima non sarebbe stata in grado d'affrontare il dibattimento, le autorità procedenti non hanno mai adottato alcuna soluzione alternativa in grado di arrecare il minor disturbo possibile alla teste, garantendo al contempo le prerogative defensionali, come ad esempio lasciare che il difensore prendesse parte alle interviste o potesse porre indirettamente le domande alla fanciulla. Di qui, la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. (Francesco Zacchè)