9 aprile 2015 |
Monitoraggio Corte Edu Dicembre 2014
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale
A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Alberto Aimi e Sara Longo. L'introduzione è a firma di Alberto Aimi per quanto riguarda gli art. 2, 3 e 11 Cedu, mentre si deve a Sara Longo la parte relativa agli art. 5, 6, 8 e 13 Cedu.
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
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Per quanto concerne l'art. 2 Cedu, la giurisprudenza del mese di dicembre della Corte europea si è caratterizzata per la particolare attenzione riservata all'accertamento di violazioni dell'obbligo procedurale di svolgere indagini tempestive ed efficienti a fronte di decessi dovuti a cause non naturali.
Infatti, oltre alla sentenza 9 dicembre 2014, McDonnell c. Regno Unito (cfr. infra per una sintesi) - con la quale la Corte di Strasburgo ha invitato, ormai per la terza volta, il Regno Unito a porre in essere misure generali volte a velocizzare il procedimento investigativo dell'inquest - e alla sentenza 18 dicembre 2014, Belenko c. Russia (cfr. infra per una sintesi) - con la quale la Corte europea ha avuto modo di ribadire che gli obblighi procedurali discendenti dall'art. 2 Cedu concernono anche morti causate colposamente -, debbono segnalarsi altre due pronunce con le quali si è riconosciuta la responsabilità di uno stato contraente per una violazione procedurale dell'art. 2 Cedu.
Nel primo caso, la Corte europea ha condannato l'Ucraina in ragione dell'ineffettività delle indagini svolte attorno alla morte di un uomo a seguito di un pestaggio da parte di un gruppo di privati (sent. 11 dicembre 2014, Padura c. Ucraina). Con la seconda pronuncia, la Corte di Strasburgo ha rilevato l'inadeguatezza delle indagini svolte dalle autorità turche a seguito del ritrovamento in un campo delle ossa di un anziano e di un ragazzo curdo - spariti dieci anni prima - accanto a proiettili normalmente utilizzati dalle forze armate turche. La Corte europea, in particolare, ha stigmatizzato la quasi totale inazione del Procuratore della Repubblica nazionale che, a fronte di un rapporto medico legale che pur chiaramente attribuiva la morte delle vittime a dei colpi di arma da fuoco, si era limitato a chiedere agli operanti il compimento di una serie di atti identici, privi di reale contenuto investigativo (sent. 9 dicembre 2014, Kadri Budak c. Turchia).
Anche questo mese la Corte di Strasburgo non ha esitato a riconoscere una violazione dell'art. 3 a fronte di violenze commesse dalle forze dell'ordine in danno di indagati o arrestati, ravvisando una violazione sostanziale dell'articolo in epigrafe quando gli atti di police brutality siano stati provati dal ricorrente oltre ogni ragionevole dubbio (sent. 16 dicembre 2014, Mehmet Fidan c. Turchia); una violazione soltanto procedurale, in tutti i casi in cui allegazioni credibili di maltrattamenti subiti da parte delle forze di polizia non siano state adeguatamente (o per nulla) indagate dalle autorità nazionali (sent. 11 dicembre 2014, Khismatullin c. Russia); ovvero, infine, una doppia violazione - sostanziale e procedurale - dell'art. 3 Cedu, quando alla sottoposizione di un soggetto ad un trattamento inumano e degradante si sia cumulata l'assenza di uno sforzo investigativo teso ad individuare e punire i responsabili (sent. 16 dicembre 2014, Dimcho Dimov c. Bulgaria).
Nessuna novità particolare, poi, in tema di verifica della compatibilità delle condizioni di detenzione con gli standard imposti dall'art. 3 Cedu e declinati nel tempo da una più che consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Com'è noto, infatti, secondo la Corte europea, integra un trattamento inumano e degradante - e comporta per lo stato responsabile una condanna per violazione dell'art. 3 Cedu - la detenzione di condannati o migranti in strutture sovraffollate e/o in condizioni igieniche precarie; la restrizione eccessiva delle "ore d'aria"; la mancata protezione del detenuto dalla violenza degli altri detenuti; nonché la mancanza di adeguate cure mediche (sent. 2 dicembre 2014, Cozianu c. Romania; sent. 4 dicembre 2014, PeÄenko v. Slovenia; sent. 11 dicembre 2014, Kushnir c. Ucraina). Altresì essenziale, inoltre, che il detenuto abbia la possibilità di accedere ad un rimedio giurisdizionale interno, adeguato e effettivo, per dolersi delle proprie condizioni detentive, potendosi in caso contrario ravvisare anche una violazione dell'art. 13 Cedu, in combinato disposto con l'art. 3 Cedu (sent. 11 dicembre 2014, Mohamad c. Grecia). Infine, qualora il trattamento subito dal ricorrente non abbia raggiunto quel livello minimo di gravità tale da integrare una violazione dell'articolo in epigrafe, ma venga riscontrata l'inefficienza del rimedio nazionale da lui attivato, la Corte di Strasburgo ravvisa la violazione del solo art. 13 Cedu (così in relazione a un caso in cui il ricorrente era stato sottoposto - seppur per soli 18 giorni - a un regime carcerario peggiore rispetto a quello cui avrebbe avuto diritto secondo la legge nazionale: sent. 16 dicembre 2014, Dmitrijevs c. Lettonia).
Occorre segnalare, tuttavia, come la Corte europea abbia in un caso condannato la Grecia per una violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu non solo con riferimento alle condizioni inumane e degradanti nelle quali si era svolta la detenzione di un richiedente asilo, ma anche in relazione al periodo successivo al suo rilascio, a seguito del quale il ricorrente era stato completamente abbandonato a sé stesso da parte delle autorità competenti e costretto, di fatto, a vivere di espedienti (sent. 11 dicembre 2014, Al. K. c. Grecia).
Infine, anche questo mese la Corte europea ha avuto modo di esprimersi in tema di refoulement verso Stati in cui il rimpatriato correrebbe il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti, dichiarando potenzialmente contraria all'art. 3 Cedu l'estradizione dalla Russia all'Uzbekistan di un cittadino uzbeko, accusato in patria di gravi reati di stampo terroristico, proprio in ragione del rischio concreto di essere sottoposto a tortura, che quest'ultimo correrebbe in caso di rimpatrio. La Corte di Strasburgo ha ricordato che, ai fini della prova del rischio di subire trattamenti contrari all'art. 3 Cedu, non è necessario che il ricorrente produca alcuna «inconfutabile» evidenza, essendo sufficiente il riferimento a rapporti provenienti da organizzazioni internazionali - nel caso di specie, le Nazioni Unite - o alla giurisprudenza della stessa Corte europea (sent. 11 dicembre 2014, Fozil Nazarov c. Russia).
Con riguardo ai profili attinenti alla legalità della detenzione, va anzitutto segnalata la sent. 4 dicembre 2014, Hassan e altri c. Francia (per una sintesi, v. infra), con cui la Corte europea accerta plurime violazioni dell'art. 5 Cedu.
In primo luogo, la privazione di libertà dei ricorrenti, accusati di aver commesso atti di pirateria in danno di una nave francese ed arrestati nelle acque nazionali somale dalle autorità francesi, contrasta con l'art. 5 comma 1 Cedu. Se l'arresto ad opera delle autorità francesi risulta legittimamente disposto, le stesse non avevano tuttavia titolo per trattenere in stato di custodia i ricorrenti in attesa di ottenere l'autorizzazione delle autorità somale a trasferirli in Francia: infatti, la legge vigente all'epoca dei fatti si limitava a disciplinare l'arresto e non anche l'eventuale misura custodiale.
In secondo luogo, è violato l'art. 5 comma 3 Cedu, poiché dopo essere stati trattenuti per diversi giorni dalle autorità francesi, in attesa della traduzione verso la Francia, i ricorrenti una volta giunti sul territorio francese sono sottoposti, dal pubblico ministero, a misura precautelare e sono tradotti davanti al giudice quarantotto ore dopo il loro arrivo. Secondo i giudici di Strasburgo, una volta arrivati in Francia i ricorrenti avrebbero dovuto essere condotti davanti al giudice senza ulteriori ritardi: da qui la violazione.
La medesima violazione è ravvisata pure dalla sent. 4 dicembre 2014, Ali Samatar e altri c. Francia. Anche in questo caso, a seguito di atti di pirateria in danno di una nave francese, le autorità d'oltralpe procedono all'arresto, nelle acque nazionali somale, dei ricorrenti. Una volta ottenuta l'autorizzazione da parte del governo somalo a condurre i ricorrenti in Francia, questi vengono dapprima sottoposti a misura precautelare e tradotti davanti al giudice solo a distanza di quarantotto ore. Anche qui il ritardo nella traduzione dei ricorrenti di fronte al giudice dà luogo a una violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu.
Sul versante dell'equità processuale, si segnala che con la sent. 2 dicembre 2014, Taraneks c. Lituania (per una sintesi, v. infra), la Corte europea ha accertato la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, per essere stato il ricorrente istigato a commettere il reato da un agente provocatore infiltrato. A tale riguardo, le autorità nazionali non hanno nemmeno verificato se in assenza dell'intervento dell'agente provocatore, il ricorrente avrebbe comunque commesso il reato.
La Corte europea accerta la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu pure con la sent. 4 dicembre 2014, Lonic c Croazia. In questo caso ad essere leso è il profilo della parità delle armi, per non esser state trasmesse al ricorrente le conclusioni del procuratore generale in ordine all'appello proposto dal ricorrente. La sentenza riconosce, poi, violato il diritto di difesa ex art. 6 comma 3 lett. c, poiché il ricorrente, nonostante l'espressa richiesta, non ha potuto partecipare al giudizio d'appello celebrato davanti alla Suprema corte, legittimata a procedere ad un novo esame tanto in fatto quanto in diritto.
La violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, è poi riconosciuta dalla sent. 4 dicembre 2014, Aleksandr Valeryevich Kazakov c. Russia, essendosi la condanna del ricorrente basata principalmente sulle dichiarazioni predibattimentali rese da un teste mai comparso in dibattimento, senza che le autorità si siano attivate per assicurarne la presenza in udienza. Al ricorrente è così mancata un'occasione adeguata e sufficiente per controinterrogare il testimone, né sono state adottate contromisure idonee a controbilanciare il pregiudizio al diritto di difesa del ricorrente. Resta, invece, assorbita la questione relativa alla mancata audizione dei testimoni della difesa.
Il diritto al contraddittorio nella formazione della prova è oggetto pure della sent. 18 dicembre 2014, Efendyev c. Azerbaijan, con cui la Corte europea accerta la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d per avere le autorità azerbaigiane proceduto alla perquisizione del giardino del ricorrente, in assenza dello stesso e del suo difensore; senza peraltro mai dare alla difesa un'occasione per visionare le videoriprese delle operazioni. Vi è poi un ulteriore profilo di violazione, poiché la condanna del ricorrente si è basata in modo decisivo sulle dichiarazioni predibattimentali rese da un teste sottrattosi all'escussione dibattimentale sulla scorta di pretese gravi condizioni di salute, non documentate né verificate dai giudici nazionali.
Al contrario la sent. 16 dicembre 2014, Horncastle e altri c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra), nonostante l'impiego nel primo procedimento di dichiarazioni rilasciate in fase di indagini da un testimone deceduto prima del dibattimento e, nel secondo giudizio, di dichiarazioni rese dalla vittima, troppo spaventata per testimoniare in aula, le autorità hanno adeguatamente controbilanciato il pregiudizio del diritto di difesa dei ricorrenti. Anzitutto le dichiarazioni rese dal teste del primo giudizio sono corroborate dalle dichiarazioni rese dagli stessi imputati e da prove scientifiche; in secondo luogo, la difesa ha potuto introdurre tutti gli argomenti a proprio favore e, infine, la giuria è stata avvisata della particolare attenzione da riservare alla valutazione delle dichiarazioni rese dal teste deceduto. Quanto al secondo giudizio, poi, lo stato di timore del teste è stato debitamente valutato e le autorità hanno cercato in ogni modo di assicurarne la presenza in udienza. Non solo, ma anche in questo caso le dichiarazioni rese dal testimone sono state corroborate da altre prove. Le cautele apprestate dalle autorità inglesi sono state tali da far escludere la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu.
Con riguardo al diritto di difesa, la sent. 2 dicembre 2014, Cutean c. Romania (per una sintesi, v. infra), riconosce la violazione dell'art. 6 comma 3 lett. c e d, per essere stato il ricorrente condannato sulla base di un'istruttoria condotta da un giudice diverso da quello che ha pronunciato la sentenza. L'istruttoria, infatti, era stata celebrata dalla Cassazione, competente per materia in virtù dello status di parlamentare del ricorrente. Una volta conclusosi il mandato parlamentare, gli atti del procedimento sono stati trasmessi al tribunale ordinario di primo grado, il quale ha emesso la sentenza, senza procedere a una rinnovazione istruttoria, nonostante le plurime richieste del ricorrente. Lo stesso vizio ha afflitto pure la sentenza d'appello, basatasi del pari sulle prove raccolte dal primo collegio.
Nel caso della sent. 16 dicembre 2014, Ibrahim e altri c. Regno Unito (per una sintesi, v. infra), invece la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu è esclusa poiché sebbene l'accesso dei ricorrenti all'assistenza difensiva sia stato posticipato, il ritardo è risultato conforme alla legislazione inglese anti terrorismo. I primi tre ricorrenti, infatti, erano accusati di far parte del gruppo terroristico responsabile degli attentati di Londra del luglio 2005 e la polizia si è trovata ad agire in costanza di una minaccia particolarmente grave e imminente per la sicurezza pubblica. Quanto al quarto ricorrente, inizialmente sentito come testimone, una volta avuto accesso all'assistenza del difensore ha scelto di non ritrattare le sue precedenti dichiarazioni. Non solo, anche in sede dibattimentale le autorità hanno adeguatamente bilanciato il pregiudizio difensivo: il giudice ha valutato attentamente l'ammissibilità delle dichiarazioni rese dai ricorrenti senza l'assistenza del difensore ed ha comunque debitamente informato la giuria. Ai fini della decisione, poi, le dichiarazioni sono state corroborate da altre prove.
Con riguardo alla presunzione d'innocenza ex art. 6 comma 2 Cedu, con la sent. 18 dicembre 2014, N.A. c. Norvegia (per una sintesi, v. infra), la Corte europea ha escluso la violazione, posto che, nel condannare i ricorrenti - già assolti nel giudizio penale - al risarcimento del danno derivante da reato, il giudice civile ha adeguatamente e opportunamente valutato tutte le prove alla luce della legislazione civile, prendendo al contempo le distanze dalle conclusioni raggiunte in sede penale. Non solo, il giudice civile non ha nemmeno impiegato espressioni tali da far apparire i ricorrenti come colpevoli in sede penale.
In ordine al diritto al diritto alla privatezza, con la sent. 2 dicembre 2014, Taraneks c. Lituania (per una sintesi, v. infra), la Corte europea accerta la violazione per aver le autorità nazionali disposto l'intercettazione delle comunicazioni fra il ricorrente e l'agente provocatore, in assenza di una base legale sufficientemente chiara. Del pari, viola l'art. 8 Cedu la perquisizione disposta sull'ufficio del ricorrente, in assenza di una normativa interna precisa e prevedibile.
In tema di libertà convenzionale di riunione e associazione, si segnala come la Corte europea abbia riconosciuto il contrasto con l'art. 11 Cedu della condotta delle autorità russe che, per disperdere una piccola manifestazione non autorizzata, guidata da alcuni esponenti dell'opposizione, ne avevano arrestato i partecipanti, condannandoli poi ad una pena detentiva. Nello stigmatizzare l'operato delle autorità nazionali, le Corte di Strasburgo ha posto in particolare l'attenzione sul c.d. «chilling effect» che azioni di questo genere provocano sugli arrestati e sulla generalità dei cittadini, dissuadendoli dall'esercizio futuro dei propri diritti convenzionalmente tutelati (sent. 4 dicembre 2014, Navalnyy e Yashin c. Russia: cfr. infra per una sintesi).
Quanto al diritto a un ricorso interno effettivo, la violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 Cedu è accertata dalle sent. 4 dicembre 2014, Lonic c. Croazia, poiché nonostante le plurime denunce del ricorrente in ordine alle pessime condizioni della sua detenzione, le autorità croate non le hanno mai esaminate né si sono mai pronunciate sulle pretese violazioni addotte dal ricorrente.
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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 2 dicembre 2014, Cuteanu c. Romania
Il ricorrente è accusato di abuso di ufficio e frode. In ragione del suo status di parlamentare, il procedimento si incardina davanti alla Corte di cassazione ed in tale sede viene celebrata gran parte della fase istruttoria. In pendenza del giudizio, tuttavia, il mandato parlamentare del ricorrente giunge al termine e gli atti del processo vengono trasmessi al tribunale di primo grado. Il giudice di prime cure, dichiarata chiusa l'istruttoria, condanna il ricorrente sulla scorta delle prove formatesi davanti alla Cassazione, ritenute tutte quante utilizzabili. Nonostante l'appello proposto dal ricorrente e la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, la Corte d'appello conferma le conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado. La Corte di Strasburgo condanna la Romania per la violazione dell'art. 6 comma 3 lett. c e d, perché la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nonostante le richieste del ricorrente di essere nuovamente sentito dai giudici procedenti e di verificare la credibilità di alcuni dei testimoni dell'accusa, ha gravemente pregiudicato il principio di immediatezza: la prova non si è formata nel contradditorio fra le parti davanti al giudice chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell'imputato. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 2 dicembre 2014, Taraneks c. Lituania
Accusato di estorsione, il ricorrente viene condannato all'esito di un'operazione condotta da un agente sotto copertura. Specificatamente, il ricorrente, un funzionario dirigente degli ufficiali giudiziari di Riga, è indotto a richiedere e a farsi dare una somma di denaro dal titolare di una società per assicurargli la piena disponibilità di alcuni beni posti sotto sequestro.
La Corte europea ai fini della decisione sull'equità del processo celebrato nei confronti del ricorrente, deve stabilire se in mancanza dell'operato dell'agente provocatore il ricorrente avrebbe ugualmente commesso il reato. Anzitutto, i giudici europei ritengono che non vi fosse alcun elemento tale da far sospettare un'attività criminosa del ricorrente; in secondo luogo tutti gli episodi oggetto della condotta criminosa sono nati sulla scia di un'iniziativa dell'agente provocatore e delle autorità; nemmeno risulta con chiarezza se l'operazione sotto copertura sia stata autorizzata da un giudice ovvero dal solo pubblico ministero. Non solo, i giudici lituani nel corso del processo non ha nemmeno mai verificato se l'operazione fosse o meno conforme alla legislazione interna in materia. Ritenuto quindi che le autorità nazionali non hanno adeguatamente verificato se in mancanza dell'istigazione a delinquere dell'agente sotto copertura il ricorrente avrebbe comunque commesso il reato, la Corte europea condanna la Lituania per la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu. Del pari, si ritiene violato anche l'art. 8 Cedu, poiché l'intercettazione delle conversazioni occorse fra il ricorrente e l'agente provocatore è stata disposta in virtù di una legge non sufficientemente chiara né precisa circa i presupposti per procedere a tali registrazioni. La mancanza di prevedibilità finisce dunque col riverberarsi sul diritto alla privatezza, che non risulta garantito. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 4 dicembre 2014, Hassan e altri c. Francia
La notte del 2 settembre 2008 una nave battente bandiera francese viene assalita, nelle acque internazionali al largo delle coste somale, e l'equipaggio viene preso in ostaggio. Il 15 settembre 2008, una nave della marina francese procede all'arresto di sei uomini, con l'accusa di aver commesso atti di pirateria in danno di una nave francese. I ricorrenti sono così posti sotto la custodia dei militari francesi, in attesa del rilascio da parte del governo somalo dell'autorizzazione a condurre i sei ricorrenti in Francia per sottoporli a giudizio. L'autorizzazione viene concessa il 21 settembre 2008 ed i ricorrenti sono tradotti in Francia il 23 settembre 2008. Una volta giunti in Francia, i ricorrenti sono posti in misura precautelare dal pubblico ministero, il quale ne dispone la traduzione davanti al giudice solo il 25 settembre 2008.
Sebbene la normativa internazionale e la legislazione penale francesi vigenti all'epoca dei fatti, legittimassero l'arresto dei ricorrenti, responsabili di atti di pirateria in danno di una nave francese, tuttavia, non disciplinavano adeguatamente le misure successive all'arresto, rischiando di dar corso a privazioni arbitrarie delle libertà personale: da qui la violazione dell'art. 5 comma 1 Cedu.
Le autorità francesi sono altresì responsabili della violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu, poiché il differimento di quarantotto ore fra l'arrivo dei ricorrenti in territorio francese e la loro presentazione al giudice non appare giustificato, né sorretto da alcuna motivazione, soprattutto in considerazione del fatto che le autorità francesi avevano avuto a disposizione diciotto giorni per organizzare la tempestiva traduzione dei ricorrenti di fronte al giudice. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 4 dicembre 2014, Navalnyy e Yashin c. Russia
I ricorrenti, un blogger e il leader di un movimento politico di opposizione, partecipano a Mosca ad una manifestazione regolarmente autorizzata per protestare contro presunti brogli nell'elezione della Duma di Stato. A conclusione della manifestazione, un gruppo di persone, tra le quali i ricorrenti, iniziano una marcia non autorizzata - sebbene del tutto pacifica - verso la sede del comitato elettorale, bloccando il traffico e cantando slogan con il partito di maggioranza. Dopo ripetuti avvertimenti, la polizia arresta i ricorrenti con l'accusa di aver disobbedito a un ordine dell'autorità di pubblica sicurezza. I ricorrenti rimangono in custodia presso diverse stazioni di polizia per circa un giorno; durante le prime sei ore, non viene loro fornito cibo e successivamente vengono detenuti in celle prive di finestre, servizi igienici o financo un materasso. Il giorno seguente, i ricorrenti vengono riconosciuti colpevoli delle accuse a loro ascritte e condannati a 15 giorni di detenzione amministrativa. I ricorrenti adiscono quindi la Corte europea lamentando una violazione da parte del governo russo degli art. 3, 5, 6, 10, 11, 13, 18 Cedu, in relazione al loro arresto per aver partecipato ad una marcia non autorizzata, alla loro condanna e alle condizioni della loro detenzione preventiva.
La Corte di Strasburgo innanzitutto esamina, nell'ottica dell'art. 11 Cedu, le doglianze relative all'interferenza delle autorità russe con la libertà di riunione, manifestazione ed espressione dei manifestanti. In particolare, pur riconosciuta la legittimità dello scopo perseguito dalla polizia antisommossa - garantire l'ordine pubblico - con l'intervento operato sui manifestanti, la Corte ne rileva la sproporzione e, dunque, la contrarietà con l'art. 11 Cedu. Infatti, osserva la Corte europea, disperdere una manifestazione pacifica, arrestandone i partecipanti e condannandoli a scontare una pena detentiva senza svolgere un previo bilanciamento tra lo scopo perseguito dalle autorità e gli interessi legittimi dei ricorrenti, provoca un vero e proprio «chilling effect», sia nei confronti degli arrestati, sia nei confronti dei cittadini, che non possono che essere dissuasi dal partecipare in futuro a manifestazioni di protesta o dall'occuparsi apertamente di politica; in particolar modo, quando - come nel caso in esame - tra gli arrestati si trovino personalità pubbliche note per il proprio antagonismo al governo.
In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ravvisa, nella condotta delle autorità russe, una violazione degli art. 5 comma 1 e 6 comma 1 Cedu, in relazione, rispettivamente, all'illegittimità della privazione di libertà dei ricorrenti, la quale - secondo la legge russa applicabile - non sarebbe potuta durare più di tre ore, e alla sommarietà del giudizio svolto nei confronti dei ricorrenti, i quali non avevano avuto la possibilità di produrre alcuna prova a discarico.
La Corte riconosce poi la responsabilità della Russia anche per la violazione dell'art. 3 Cedu, con riferimento alle condizioni di detenzione dei ricorrenti, e dell'art. 13 Cedu, in combinato disposto con l'art. 3 Cedu, in ragione dell'inesistenza di un rimedio giurisdizionale effettivo, tramite il quale questi ultimi avrebbero potuto dolersi delle loro condizioni detentive. L'accoglimento del ricorso relativamente ai profili poc'anzi succintamente enunciati implica infine, nell'opinione della Corte di Strasburgo, l'assorbimento dell'ulteriore questione inerente all'art. 18 Cedu. (Alberto Aimi)
C. eur dir. uomo., sez. IV, sent. 9 dicembre 2014, McDonnell c. Regno Unito
Nel 1996, il figlio della ricorrente, cittadina irlandese, è informato della morte del padre la sera prima di essere trasferito dal carcere di Crumlin Road a Belfast - dove è detenuto - al carcere di Maghaberry, nella vicina cittadina di Lisburn. Chiede immediatamente di essere trasferito in una cella singola, avvertendo le guardie carcerarie che, in caso contrario, avrebbe aggredito un altro detenuto. La sua richiesta viene respinta; ne segue una colluttazione con i secondini e il suo trasferimento in regime di isolamento. Dopo qualche ora, il detenuto muore per un attacco di cuore. Nonostante il rinvenimento sul suo corpo di numerose lesioni - tra cui la frattura dell'osso isoide e della cartilagine tiroidea - e l'esecuzione di un'autopsia il giorno stesso della morte, il Direttore dell'ufficio delle Public Prosecutions dell'Irlanda del Nord emette, a più di anno dal fatto, una direttiva di non promuovere l'azione penale nei confronti delle guardie carcerarie coinvolte nella colluttazione. L'inquest dell'ufficio del Coroner sull'accaduto viene rinviata per più di diciassette anni e si conclude, nel 2013, con la constatazione del fatto che la morte del detenuto fosse dovuta anche ad errori commessi dalla polizia penitenziaria, e segnatamente dall'eccessivo uso della forza da parte delle guardie carcerarie. Nel 2014, ad un anno dalla conclusione dell'inchiesta, è ancora attesa una nuova decisione dell'ufficio delle Public Prosecutions sull'opportunità di esercitare l'azione penale. La ricorrente adisce la Corte europea lamentando una violazione procedurale dell'art. 2 Cedu, con riferimento al ritardo delle indagini sulla morte del figlio.
La Corte di Strasburgo, dopo aver richiamato la propria costante giurisprudenza in tema di obblighi procedurali discendenti dall'art. 2 Cedu, condanna il Regno Unito, stigmatizzando in particolare la tardiva informazione ai parenti della vittima della decisione di non promuovere l'azione penale; i numerosi rinvii, motivati in ragione della pendenza presso la stessa Corte europea o presso la House of Lords di procedimenti attinenti a questioni che avrebbero potuto influenzare l'inquest nel caso in parola; nonché la lunghezza di un procedimento preliminare scaturito dall'inquest all'esame della corte, relativo alla richiesta di un testimone rilevante di rimanere anonimo. La Corte europea, infine, in applicazione dell'art. 46 Cedu, raccomanda l'adozione di misure generali necessarie per assicurare che il procedimento di common law dell'inquest si conformi agli standard richiesti dall'art. 2 Cedu - misure che peraltro erano già state sollecitate nelle precedenti sentenze McCaughey e Hemsworth -, rilevando come, sia in questo sia nei casi citati, tale procedimento si sia rivelato «strutturalmente» inadeguato ad assicurare la speditezza necessaria a garantire un'indagine conforme alle obbligazioni convenzionali. (Alberto Aimi)
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 16 dicembre 2014, Horncastle e altri c. Regno Unito
I quattro ricorrenti, in due vicende separate, sono condannati all'esito di due giudizi in cui sono impiegate dichiarazioni predibattimentali rilasciate in fase d'indagini. Nello specifico, nei confronti dei primi due ricorrenti vengono utilizzate le dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla vittima, deceduta prima dell'inizio del dibattimento. Quanto al secondo giudizio, la vittima del reato è risultata a tal punto spaventata ed intimorita rispetto ai ricorrenti da essersi sempre rifiutata di comparire in dibattimento. I ricorrenti lamentano la violazione del diritto al contraddittorio nella formazione della prova, così come garantito dall'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. Ai fini della decisione in ordine al pregiudizio del predetto diritto, la Corte europea ritiene di dover verificare se le dichiarazioni predibattimentali abbiano rappresentato la prova esclusiva o decisiva ai fini della condanna dei ricorrenti e, se del caso, se le autorità abbiano adottato misure idonee a controbilanciare il pregiudizio dei diritti della difesa. In merito alla prima vicenda, i giudici di Strasburgo, dopo aver accertato che la condanna dei ricorrenti si è basata in modo decisivo - seppur non esclusivo - sulle dichiarazioni predibattimentali rese dalla vittima, riconosce altresì che il giudice procedente ha adottato tutte le cautele necessarie: anzitutto, l'impiego delle dichiarazioni è avvenuto in conformità alla legge nazionale; in secondo luogo, il giudice ha adeguatamente valutato la necessità e l'opportunità di farne uso; infine, la giuria è stata debitamente informata circa la costanza in cui le dichiarazioni erano state rese e richiamata ad un'attenta valutazione delle stesse.
Con riferimento al secondo procedimento, nonostante il giudice abbia valutato con attenzione e diligenza lo stato di timore in cui versava la vittima del reato, ha comunque provveduto alla regolare citazione della teste e ne ha addirittura disposto l'arresto, in mancanza della comparsa in udienza. Tuttavia, la Corte europea non ritiene nemmeno di dover valutare se le misure adottate dalle autorità inglesi abbiano adeguatamente controbilanciato il diritto al contradditorio, poiché la condanna dei ricorrenti si è basata su prove differenti dalle dichiarazioni predibattimentali della vittima. In nessuno dei due casi, dunque, è ravvisabile la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 16 dicembre 2014, Ibrahim e altri c. regno Unito
I primi tre ricorrenti, accusati di far parte di un gruppo terroristico responsabile degli attenti alla linea metropolitana londinese del luglio 2005, vengono arrestati dalla polizia e interrogati dagli inquirenti, senza alcuna assistenza difensiva. In forza della legislazione inglese antiterrorismo, infatti, le autorità possono tenere segretato l'arresto di un sospettato e differirne, fino a un massimo di quarantotto ore, i colloqui con il difensore.
Il quarto ricorrente, invece, inizialmente sentito come persona informata sui fatti, una volta divenuto imputato ed alla presenza del suo difensore, ha scelto di non ritrattare le precedenti dichiarazioni.
Le dichiarazioni rese da tutti e quattro i ricorrenti in costanza dei sopra richiamati interrogatori sono poi impiegate ai fini della condanna.
I ricorrenti adducono la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, tanto in ordine al differimento nell'accesso all'assistenza difensiva, quanto nell'impiego delle dichiarazioni rese alla polizia in mancanza di un difensore.
La Corte europea, ribadita l'importanza del diritto d'accesso al difensore nell'ottica di assicurare l'equità processuale, riconosce tuttavia la possibilità di limitare tale diritto in presenza di validi motivi. Nel caso di specie, in riferimento ai primi tre ricorrenti, la polizia si è trovata ad agire in una situazione di grave pericolo per la sicurezza pubblica tale da giustificare una restrizione del diritto di accesso all'assistenza difensiva. Quanto all'impiego delle dichiarazioni rese dai ricorrenti, accertato che le stesse si sono formate in conformità al dettato normativo ed evidenziato come nessuna censura sia mai stata mossa nei riguardi della condotta degli agenti di polizia procedenti; ritenuto che i ricorrenti abbiano ricevuto tutti gli avvisi di rito circa le conseguenze delle loro dichiarazioni; e da ultimo, viste le cautele del giudice procedente nel valutare il contenuto dichiarativo e la concorrenza di ulteriori prove a sostegno della condanna, i giudici i Strasburgo non ravvisano alcuna violazione del dettato convenzionale. Lo stesso dicasi anche rispetto al quarto ricorrente, il quale ha liberamente scelto di non ritrattare le proprie precedenti dichiarazioni, sebbene rilasciate in assenza del difensore e sotto le erronee spoglie di testimone. Anche in questo caso, poi, la difesa ha avuto tutte le occasioni per ritrattare e per addurre ogni prova necessaria in sede dibattimentale; il giudice ha comunque informato la giuria circa la delicatezza della prova dichiarativa in questione e, in ogni caso, vi sono state altre prove che hanno confermato la tesi accusatoria. (Sara Longo)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 18 dicembre 2014, Belenko c. Russia
La figlia della ricorrente inizia a comportarsi in maniera gravemente isterica. I genitori la portano in una clinica psichiatrica, dove le viene diagnosticata una rara forma di schizofrenia, di natura potenzialmente fatale. La figlia della ricorrente viene allora internata su ordine della competente corte distrettuale, senza che i genitori si oppongano. Nel corso dei mesi seguenti, preoccupata del trattamento ricevuto dalla figlia nella clinica, la ricorrente chiede più volte di poterla riportare a casa, ma le sue richieste vengono respinte. Dopo circa quattro mesi, la paziente muore a causa di un edema cerebrale, collegato alla sua malattia e aggravato da una polmonite contratta nell'ospedale. La madre sporge denuncia contro il personale medico e, tra il 2003 e il 2011, vengono aperti e chiusi ben sette procedimenti penali sull'accaduto. La ricorrente si duole presso la Corte europea dell'asserita violazione dell'art. 2 Cedu da parte delle autorità russe, affermando che la figlia sarebbe morta a causa della negligenza del personale medico di stanza nella clinica.
La Corte di Strasburgo, innanzitutto, esclude la violazione dell'art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale. Pur rammentando infatti che, per propria costante giurisprudenza, l'art. 2 Cedu costituisce il fondamento di una generale obbligazione positiva a carico dello Stato di proteggere la vita dei soggetti posti sotto la propria giurisdizione, e che tale obbligazione riguarda in via di principio anche i pazienti di ospedali pubblici o privati, la Corte europea ricorda anche che, qualora lo Stato abbia posto in essere disposizioni adeguate per assicurare uno standard elevato di professionalità dei medici e per proteggere la vita dei pazienti, lo Stato stesso non possa essere chiamato a rispondere per una violazione sostanziale dell'art. 2 Cedu in ragione di un'asserita negligenza del personale sanitario nel trattamento della patologia di uno specifico paziente. Tanto più che, secondo la Corte di Strasburgo, la figlia della ricorrente non potrebbe essere nemmeno considerata una vera e propria «detenuta», considerato che il suo «confinamento forzato» era stato imposto dalla gravità delle sue condizioni, era finalizzato alla sua salute ed era stato approvato dai genitori.
La Corte europea condanna invece la Russia per la violazione procedurale dell'art. 2 Cedu. La Corte di Strasburgo ricorda, infatti, che, sebbene l'adempimento degli obblighi convenzionali, con riferimento ai casi di medical malpractice, non richieda necessariamente l'apertura di un procedimento penale a carico dei responsabili, l'art. 2 Cedu imponga cionondimeno lo svolgimento di indagini effettive nell'ambito di un procedimento penale, ogniqualvolta la sua mancata o inefficiente esecuzione possa diminuire le chanches della vittima di ottenere soddisfazione con strumenti non penalistici. In particolare, nel caso di specie, la lentezza e la generale inefficienza delle indagini aveva causato la perdita dei campioni di tessuto prelevati dal cadavere della figlia della ricorrente e della sua cartella clinica; vale a dire, elementi di prova essenziali per determinare l'esatta eziologia del decesso ed eventuali responsabilità mediche. (Alberto Aimi)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 18 dicembre 2014, N.A. c. Norvegia
I ricorrenti, accusati di maltrattamenti in danno dei due figli, vengono assolti in sede penale per insufficienza di prove. Il giudice accoglie però la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei due bambini. La decisione viene confermata anche in grado d'appello.
I ricorrenti, sulla scorta della condanna civile, adiscono la Corte europea adducendo la pretesa violazione della presunzione d'innocenza. I giudici di Strasburgo, tuttavia, ritenuto che la decisione sull'azione civile promossa in danno dei ricorrenti sia stata valutata conformemente alla legislazione norvegese in tema di risarcimento del danno; che il giudice nel pronunciarsi in materia civile si sia espressamente distanziato dalle conclusioni raggiunte in sede penale; ed infine che le espressioni impiegate in sede civile in nessun modo abbiano lasciato emergere un'eventuale responsabilità penale dei ricorrenti, escludono la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu. (Sara Longo)