ISSN 2039-1676


11 dicembre 2012 |

Monitoraggio Corte EDU agosto-settembre 2012

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale

 

Prosegue il monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni della Corte EDU che interferiscono con il diritto penale sostanziale. La scheda mensile è, come di consueto, preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

  

SOMMARIO

 

1. Introduzione

2. Articolo 2 Cedu

3. Articolo 3 Cedu

4. Articolo 5 Cedu

5. Articolo 8 Cedu

6. Articolo 10 Cedu

7. Articolo 11 Cedu

 

* * *

 

1. Introduzione

 

a) Solo due le pronunce rese nel mese di agosto dalla Corte europea con riferimento all'art. 2 Cedu: la sentenza Fedorchenko e Lozenko c. Ucraina  (relativa ad un'operazione di polizia durante la quale avevano persona la vita cinque persone, in relazione alla quale i giudici europei hanno riscontrato una duplice violazione, sostanziale e procedurale, dell'art. 2) e la sentenza Rrapo c. Albania (in cui la Corte è tornata ad occuparsi di estradizione, escludendo una violazione sostanziale degli artt. 2 e 3 Cedu in caso di estradizione del ricorrente verso gli Stati Uniti).


b) Si inseriscono, invece, nel filone della giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo le pronunce rese in tema di art. 3 Cedu, tra le quali si contano cinque casi concernenti le cattive condizioni della detenzione (Bygylashvili c. Grecia; Patsos c. Grecia; Titarenko c. Ucraina; Ahmade c. Grecia; Vikulov e altri c. Lettonia) e cinque casi di police brutality (Ahmet Duran c. Turchia; Tarkan Yavaç c. Turchia; Ferat Kaya c. Turchia; Rèti e Fizli c. Ungheria; Stepanov c. Russia).

 In tema di estradizione, merita infine un cenno la sentenza Umirov c. Belgio (nella quale la Corte europea ha riconosciuto una violazione potenziale dell'art. 3 Cedu in relazione all'estradizione del ricorrente, un cittadino Uzbeko, ritenuto un estremista religioso, verso il Paese di origine).


c) Sul fronte dell'art. 5 Cedu si segnala per importanza la sentenza James, Wells e Lee c. Regno  Unito, relativa alla misura inglese dell'Imprisonment for Public Protection, in cui la Corte ha fissato alcuni punti fermi in merito alle condizioni di legittimità di misure custodiali disposte con la sentenza di condanna in funzione esclusiva di prevenzione della pericolosità sociale, affermando che le autorità statali sono obbligate a predisporre modalità esecutive funzionali al reinseremento sociale del condannato. In linea con quanto affermato nella sentenza M. c. Germania del 2009, la Corte ha in particolare ribadito che ogni limitazione della libertà personale si giustifica solo nei limiti in cui essa sia indispensabile a ridurre la pericolosità dell'internato. Conseguentemente, i giudici europei hanno ritenuto arbitrario, e quindi incompatibile con l'art. 5 Cedu, l'internamento indeterminato dei ricorrenti poiché le modalità esecutive dello stesso erano caratterizzate esclusivamente da esigenze di prevenzione speciale negativa, e non da una finalità terapeutico-riabilitativa.

Riveste inoltre profili di grande interesse la sentenza della Grande Camera Nada c. Svizzera, in cui la Corte ha ritenuto che le prescrizioni imposte nei confronti del ricorrente - un uomo d'affari italo-egiziano, che era stato confinato per diversi anni nell'enclave di Campione d'Italia, poiché sospettato di attività terroristiche - non avessero comportato una privazione della sua libertà personale in quanto a quest'ultimo era stato concesso di muoversi liberamente all'interno del territorio di Campione, ove egli aveva scelto liberamente di soggiornare: conseguentemente, essa ha escluso una violazione dell'art. 5 § 1 Cedu.

Meritano, poi, un cenno anche le sentenze Dervishi c. Croazia, Sergey Solovyev c. Russia e Kilangiç c. Turchia in tema di custodia cautelare in carcere.

 

d) Per quel che concerne l'art. 8 Cedu, assai significativa è la sentenza Costa e Pavan c. Italia - già oggetto di un dettagliato contributo di Alessandra Verri pubblicato in questa Rivistain cui la Corte ha ritenuto sproporzionato, e quindi incompatibile con la citata norma convenzionale, il divieto stabilito dalla legge n. 40 del 2004, che impedisce il ricorso alla fecondazione omologa in vitro a una coppia fertile portatrice sana di fibrosi cistica. Peraltro, è apparsa sulla stampa la notizia che il Governo italiano ha presentato, in data 28.11.2012 (nell'ultimo giorno a disposizione prima dello scadere del termine), ricorso alla Grande Camera avverso la pronuncia in parola, adducendo, tra l'altro, il mancato previo esaurimento delle vie di ricorso interne.

Riveste inoltre profili di grande interesse la già citata sentenza Nada c. Svizzera, in cui i giudici europei (pur escludendo una violazione dell'art. 5 Cedu) hanno ravvisato una violazione dell'art. 8 Cedu in relazione all'inserimento dei dati personali del ricorrente, sospettato di attività terroristica, in una black list e all'imposizione nei confronti del medesimo del divieto di ingresso in Svizzera, affermando in particolare che la misura (benché giustificata dalla gravità dei reati in relazione ai quali era stata effettuata) non poteva ritenersi proporzionata in quanto all'interessato non era stato riconosciuto per legge il diritto di chiederne la revoca. 

In tema di obblighi positivi derivanti da violazioni colpose dell'art. 8 Cedu, si segnala invece la sentenza Spyra e Kranczkpwski c. Polonia relativa ad un caso di medical malpractice, in cui la Corte ha escluso una violazione della norma in parola sia sotto il profilo sostanziale (non rilevando alcun deficit nel trattamento medico fornito ai ricorrenti) che procedurale (ribadendo il principio, consolidato nella giurisprudenza di Strasburgo, secondo il quale, a fronte di violazioni colpose dell'art. 8 Cedu è sufficiente che alla vittima venga riconosciuto il rimedio, civilistico, del risarcimento del danno).

 

e) Entrambe le pronunce rese dalla Corte in tema di art. 10 Cedu nel mese di settembre riguardano la compatibilità con la norma in parola della condanna dei ricorrenti per diffamazione. In particolare, nel primo caso (Falter Zeitschriftern GmbH c. Austria) la Corte, riconosciuto ha ritenuto proporzionata e quindi compatibile con l'art. 10 Cedu la condanna civile del ricorrente al pagamento di un risarcimento di 7.000 euro per la pubblicazione di notizie il cui contenuto diffamatorio era stato diligentemente accertato. Per contro, nel secondo caso (Lewandowska-Malec c. Polonia), essa ha accertato una violazione della citata norma convenzionale in relazione alla condanna ad una pena pecuniaria del ricorrente per la pubblicazione di notizie di indubbio interesse pubblico.

 

f) Con riferimento all'art. 11 Cedu, si segnala innanzitutto la sentenze Sindacato di polizia della Repubblica slovacca e altri c. Slovacchia in cui la Corte ha ritenuto compatibili con la norma in parola, nonché con l'art. 10 Cedu, le critiche e la minaccia di licenziamento formulate dal Ministro degli interni nei confronti dei vertici del sindacato della polizia, responsabile di aver organizzato una manifestazione di protesta contro il Governo.

In tema di misure preventive finalizzate al mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblica, giova ricordare anche la sentenza EÄŸitim ve Bilim Emekçileri Sendikasi c. Turchia, in cui i giudici europei hanno ravvisato una violazione dell'art. 11 Cedu, in relazione allo scioglimento del "sindacato dei lavoratori dell'educazione e della scienza", eseguito in seguito alle pressioni delle autorità nazionali che avevano contestato una modifica statutaria volta a prevedere il "diritto di tutti gli individui nella società di ricevere, in uguaglianza e libertà, un'istruzione democratica, laica, scientifica e gratuita nella propria lingua madre", e dunque anche quella curda (Introduzione a cura di Lodovica Beduschi).

 

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2.  Articolo 2 Cedu

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 20 settembre 2012, ric. n. 387/03, Fedorchenko e Lozenko c. Ucraina (importance level 3)

I ricorrenti, Yuriy Fedorchenko e Zoya Lozenko, sono cittadini ucraini, i quali hanno denunciato che, il 28 ottobre 2001, un ufficiale di polizia aveva minacciato e colpito M. Fedorchenko e dato fuoco al suo domicilio. Durante l'incendio, avevano perso la vita 5 persone.

I ricorrenti lamentano la mancanza di un'inchiesta approfondita ed effettiva sulle circostanze del dramma e sull'implicazione del poliziotto nell'episodio dell'incendio.

Per queste ragioni, reputano sussistente una violazione dell'art. 2 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale.

I ricorrenti affermano altresì una violazione dell'art. 14, poiché ritengono che il fatto sia stato motivato da sentimenti razzisti, essendo stati appiccati incendi nella stessa giornata alle abitazioni di persone tutte appartenenti all' etnia rom.

La Corte riconosce una violazione dell'art. 2 sotto il profilo procedurale - vista l'assoluta inefficacia delle indagini nonostante la gravità dei fatti accaduti - e dell'art. 14 in combinato con l'art. 2, in quanto la presumibile origine razzista dei crimini - vista la diffusa discriminazione e  violenza contro i Rom in Ucraina come è stato reso noto, in particolare, dalla relazione dell' ECRI - non era stata sufficientemente verificata.  Tuttavia, la Corte non riconosce la responsabilità relativamente ai decessi, in quanto - proprio la mancanza di una seria indagine - ha determinato l'impossibilità di esprimersi, in proposito, oltre ogni ragionevole dubbio, essendo presenti solo indizi generici.

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 58555/10, Rrapo c. Albania (importance level 3)

Il ricorrente, Almir Rrapo, è un cittadino albanese ed americano, attualmente detenuto negli Stati Uniti ove era stato estradato nel novembre 2010 dall'Albania.

Negli Stati Uniti, è stato condannato ad  80 mesi per appartenenza ad un'impresa di racket organizzato praticante l'omicidio, traffico di droga, incendio criminale, rapina aggravata, estorsione ecc.

Egli lamenta che la sua estradizione l'abbia esposto al rischio di vedersi infliggere la pena di morte e che, dunque, essa aveva comportato violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, nonché dell'art. 1 (relativo all'abolizione della pena di morte) del Protocollo n°13 della Convenzione.

Rileva altresì una violazione dell'art. 34, essendo stato estradato in violazione di un misura cautelare imposta dalla Corte, a norma dell'articolo 39 del Regolamento.

La Corte non ha riconosciuto nessuna violazione degli artt. 2, 3, 1 Prot. n°13, in quanto l'Ambasciata degli Stati Uniti, attraverso una nota diplomatica, mezzo standard in questi casi, ha dichiarato che la pena di morte non sarebbe stata richiesta o imposta in caso di estradizione verso gli Stati Uniti, affermazioni giudicate specifiche, chiare e inequivocabili. A dire della Corte, tali rassicurazioni determinerebbero una presunzione di buona fede, attendibile allorché lo Stato richiedente abbia una lunga storia di rispetto della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto, nonché accordi di estradizione di lunga data con gli Stati concedenti.

La Corte riconosce, invece, la violazione dell'art. 34.

 

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3. Articolo 3 Cedu

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 28 agosto 2012, ric. n. 37552/06, Ahmet Duran c. Turchia (importance level 3)

Il ricorrente è un cittadino turco che nell'aprile 2005 viene arrestato, perché sospettato di essere coinvolto in un traffico illegale di immigranti.

Egli invoca la violazione dell'art. 3 Cedu, perché ritiene, da un canto, di aver subito dei trattamenti degradanti e inumani durante la fase detentiva e, dall'altro, che le indagini espletate sono state inefficaci.

La Corte riconosce la violazione dell'art. 3 in relazione al solo profilo delle indagini ineffettive.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 18 settembre 2012, ric. n. 17455/11, Umirov c. Russia (importance level 3)

Il ricorrente, Sadirbek Umirov, è un cittadino uzbeko trasferitosi a Mosca.  Ricercato in Uzbekistan per l'appartenenza al gruppo - ritenuto estremista religioso - "Guerrieri dell'Islam", è stato arrestato in Russia nel maggio 2010, e sottoposto a  procedimento di estradizione. Nel novembre del 2011, è stato rilasciato, essendo scaduto il termine massimo di detenzione (18 mesi). Nel giugno del 2012, ha ricevuto asilo temporaneo in attesa della decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Il sig. Umirov lamenta la violazione dell' art.  3 Cedu, per il rischio di trattamenti disumani e degradanti in caso di estradizione nel Paese d'origine, e dell'art. 5 § 1 Cedu, in ragione della eccessiva durata della detenzione cui è stato sottoposto per la realizzazione dell'estradizione.

La Corte ha riconosciuto una violazione dell'art. 3; infatti, premessa una generale situazione preoccupante in materia di diritti umani in Uzbekistan, la natura e la base fattuale delle accuse nei confronti del ricorrente, inerenti a reati a sfondo politico-religioso, ed il materiale a disposizione rivelano un rischio reale e specifico di maltrattamenti: ciò sarebbe confermato dalla situazione in cui si trovano detenuti per situazioni analoghe, e dall'assenza di elementi sufficienti in senso contrario. D'altronde, l'esistenza di leggi nazionali e la ratifica dei trattati internazionali che garantiscono il rispetto dei diritti fondamentali non sono di per sé sufficienti a garantire un'adeguata protezione contro il rischio di maltrattamenti quando, come nel caso di specie, fonti affidabili hanno segnalato pratiche - usate o tollerate dalle autorità - che sono manifestamente contrarie ai principi della Convenzione.

La Corte non riscontra, invece, alcuna violazione dell'art. 5 § 1 Cedu.

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 18 settembre 2012, ric. n. 58210/08, Tarkan YavaÅŸ c. Turchia (importance level 3)

Il ricorrente, Tarkan Yavas, è un cittadino turco, posto sotto custodia dal 12 al 17 novembre 1999 per associazione a delinquere (accusa caduta nel dicembre 2009), che ha sostenuto di aver subito abusi da parte della polizia.

Lamenta, altresì,  l'inefficacia del procedimento a carico dei poliziotti : infatti, esso, dopo 12 anni dal fatto, è ancora in corso.

Il ricorrente rileva pure  l'eccesiva durata - oltre dieci anni - della procedura penale intentata contro di lui.

La Corte non riscontra nessuna violazione dell'art. 3 sotto il profilo sostanziale, in quanto quattro relazioni di quattro medici diversi non hanno fatto riferimento ad alcun tipo di maltrattamento. Tuttavia, riconosce una violazione dell'aspetto procedurale dell'art. 3 Cedu, ribadendo il dato per cui il fatto che la Corte Edu stabilisca la mancanza di effettivi maltrattamenti, non preclude un suo giudizio negativo sulla mancanza o i ritardi nelle indagini interne, a seguito della denuncia dei maltrattamenti stessi.

 Ritiene, inoltre, che vi sia stata una violazione dell'articolo 6 § 1 ed attribuisce al ricorrente 16 250 euro a titolo di danni morali.

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 20 settembre 2012, ric. n. 31720/02, Titarenko c. Ucraina (importance level 2)

Il ricorrente, Pyotr Titarenko, è un cittadino ucraino, condannato a 15 anni di reclusione, nell'aprile 2004, per omicidio e  tentato  omicidio di taluni poliziotti, nonché per detenzione illegale di armi da fuoco.

Il ricorrente si lamenta delle condizioni della sua detenzione e di essere stato sottoposto a custodia cautelare - peraltro, per un periodo eccessivamente lungo - nonostante fosse ancora pendente il giudizio di appello. Ha rilevato, altresì, che non gli è stato fornito immediatamente un avvocato (essendo ciò avvenuto solo dopo 15 giorni dall'inizio della detenzione e comunque con forti limitazioni).

Constata, ancora, che alla sua famiglia non era stato permesso di fargli visita nel corso del procedimento. Infine, ritiene di non aver ottenuto un ricorso effettivo in relazione alle sue denunce.

La Corte riconosce una violazione dell'articolo 3, in relazione alle condizioni di detenzione, in quanto bisogna presumersi dalla documentazione allegata dal ricorrente - e non smentita dal materiale del governo - che i detenuti avessero circa 2 mq di spazio individuale.

 La Corte, invece, non riconosce violazioni relativamente alla questione della sottoposizione a custodia in un gabbiotto durante un' udienza pubblica, in quanto tale segregazione era stata determinata da ragioni di sicurezza, visti i crimini violenti commessi dal ricorrente, e, comunque, - considerato lo scarso eco massmediatico del caso - non aveva provocato un effetto di pubblica umiliazione.

Ancora, la Corte afferma non vi sia stata nessuna violazione degli artt. 5 § 3, relativamente alla legalità e durata della detenzione, determinata da un concreto rischio di fuga e dalla gravità delle contestazioni, mentre vi è stata una violazione dell'art. 5 § 4 Cedu, tenuto conto della mancanza di rapidità del riesame della legittimità della detenzione.

Ulteriormente, ritiene sussistente la violazione dell'art. 6 § § 1 e 3, in ragione della mancata attuazione di un diritto di difesa tecnica immediata, nonché dell'art. 8 per l'assenza di contatti con i familiari : infatti,  il giudice nazionale non ha motivato il rifiuto delle visite dei familiari, affermando solo che, ai sensi dell'articolo 345 del codice di procedura penale - disposizione già in altre occasioni criticata dalla Corte-,  potevano essere concesse visite familiari solo dopo la condanna.

Riconosce, infine, una violazione dell'articolo 13 ed attribuisce 10 000 euro a titolo di danni morali e 1 000 euro per le spese.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 58164/10, Bygylashvili c. Grecia (importance level 3)

La ricorrente, Gannet Bygylashvili, è una cittadina georgiana, residente ad Atene. Nel 2010, fu arrestata per ingresso illegale sul territorio greco e messa nel centro di attesa d'espulsione di Petrou Ralli.

Invocando, in particolare, l'articolo 3, ella lamenta le condizioni della sua detenzione,  rilevando problemi di sovrappopolazione, di infestazione da pidocchi, di assenza di acqua potabile ecc.

La Corte riconosce la violazione dell'art. 3, attribuendo 8000 euro a titolo di danno morale.

A questo proposito, la Corte rileva che la ricorrente ha sostenuto  che divideva una cella di 12 m² con 15-20 altri prigionieri; da parte sua, il governo ha dichiarato che la ricorrente è stata posta con quattro altri detenuti in una cella di 12 m². Tuttavia, qualunque sia l'area esatta della cella in cui la Bygylashvili ha trascorso la maggior parte dei suoi giorni, lo spazio che le è stato assegnato era comunque inferiore a quello richiesto per evitare un contrasto con l'art. 3 Cedu. Inoltre, già in altre occasioni la Corte aveva rilevato che il centro di Petrou Ralli - ove la ricorrente ha trascorso più di cinque mesi  - è un luogo inadatto per una detenzione di lunga durata. A questo si aggiunge il fatto che la ricorrente, prima di essere trasferita al centro, è stata detenuta per diciotto giorni nella stazione di polizia, cosa che la stessa legge nazionale vieta (articolo 66 § 6 del decreto 141/1991).

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 10067/11, Patsos c. Grecia (importance level 3)

Il ricorrente, Stefanos Patsos, è un cittadino greco, condannato ad una pena di 25 anni e 5 mesi di reclusione, e soggetto già a 7 trasferimenti - per  ragioni afferenti alla procedura giudiziale diretta contro lui - tra le prigioni di Korydallos e Larissa.

Il Patsos sostiene che la sua età avanzata, il suo stato di salute, le sue condizioni di detenzione, ed i continui spostamenti  tra le prigioni di Korydallos e Larissa hanno reso la sua carcerazione incompatibile con le esigenze dell'art. 3 Cedu.

Tuttavia, la Corte non riconosce alcuna violazione.

La Corte ricorda che la Convenzione non vieta la detenzione di persone in età avanzata, a cui però siano assicurate le adeguate cure mediche. In particolare, osserva che il ricorrente ottantaduenne - pur affetto da diabete, malattia coronarica, esofagite con malattia da reflusso gastroesofageo, iperlipidemia, anemia da carenza di ferro - non ha una disabilità fisica che colpisce significativamente e duraturamente capacità sensoriali e motorie. Inoltre, ha ricevuto cure mediche adeguate, e la sua condizione non pare essere peggiorata, al di là della normale evoluzione della sua malattia, in ragione della detenzione.

La Corte rimarca, infine, che l'articolo 56 del codice penale, entrato in vigore il 23 dicembre 2010, il quale prevede la possibilità di rilascio del condannato allorché abbia superato settantacinque anni, non può trovare applicazione quando la persona sia punita con la reclusione : e, nel caso di specie, il ricorrente è stato condannato al carcere a vita quando aveva 79 anni.

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 12673/05, Ferhat Kaya c. Turchia (importance level 3)

Il ricorrente, Ferhat Kaya, è un cittadino turco che, al momento dei fatti, era il segretario della sezione locale del Partito popolare democratico (DEHAP).

Il 5 maggio 2004, fu portato all'ufficio di polizia in virtù di un mandato avente ad oggetto la sua comparizione ad un'udienza dell'indomani.

Il ricorrente si lamenta di essere stato maltrattato dai poliziotti in quell'occasione. In particolare, afferma di essere stato spinto su pezzi di una porta di vetro rotta e che cinque o sei poliziotti l'avevano picchiato e gli avevano tirato calci mentre era steso al suolo. Ciò aveva causato un'incapacità al lavoro di tre giorni.

La Corte riscontra una violazione dell'art. 3 Cedu, sia relativamente al trattamento subito che all'inchiesta svolta. Infatti, per quanto riguarda i profili sostanziali, sebbene talune ferite fossero compatibili con episodi di autolesionismo - così come sostenuto dal governo -, le autorità non sono riuscite a dare una prova sufficiente in tal senso. Ciò che è sicuro, dunque, è che durante il tempo in cui il soggetto era sottoposto al controllo delle autorità ha riportato delle lesioni di origine non spiegata.

Contestualmente, non erano state svolte indagini efficaci, e, peraltro, in contrasto con quanto stabilito dal   CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti), a detta del ricorrente - versione non smentita dal governo - pare che le visite mediche siano avvenute in presenza di un poliziotto, compromettendone così l'efficacia e l'affidabilità.

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 31373/11, Réti et Fizli c. Ungheria (importance level 3)

I ricorrenti, G. M. Réti e Z. V. Fizli, sono cittadini ungheresi ed americani, residenti a Budapest. Affermano di  essere stati maltrattati dalla polizia all'alba del 1 ottobre 2006, dopo essere stati fermati ,per un controllo di identità per sospetta guida in stato d'ebbrezza, mentre si spostavano in moto a Budapest. Denunciano, in particolare, che un poliziotto aveva colpito a più riprese M. Réti, gettandolo al suolo, dove un altro poliziotto lo aveva manganellato alla nuca facendogli perdere coscienza; e che anche la sig.ra Fizli era stata strattonata e spinta a terra.

La Corte ha riscontrato una violazione dell'art. 3 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, in quanto lo Stato non era riuscito a provare quale condotta avesse giustificato una simile reazione, soprattutto a fronte del dato per cui alla fine si era verificato che i ricorrenti erano uno sotto una molto lieve influenza da alcol ed un altro totalmente sobrio. Peraltro, nessuna indagine o procedimento disciplinare sembra siano stati effettuati all'interno delle forze di polizia, né è stato possibile addivenire a nessuna affermazione di responsabilità penale.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 50520/09, Ahmade c. Grecia (importance level 3)

Il ricorrente, Seydmajed Ahmade, è un cittadino afghano che vive ad Atene dal  2007. In Grecia,è stato più volte arrestato e trattenuto in custodia presso la stazione di polizia. Contestualmente, è stato sottoposto a vari ordini di espulsione e detenuto in attesa di espulsione.  L'8 settembre 2009, il ricorrente ha presentato una domanda d'asilo alla Commissione rifugiati, rigettata il 14 dicembre 2009.

Il ricorrente lamenta una violazione degli artt. 3 e 13 Cedu, per le condizioni di detenzione e la mancanza di un ricorso effettivo. Egli ha inoltre affermato che, se rinviato in Afghanistan, sarebbe stato esposto a trattamento inumano.

Il signor Seydmajed Ahmade ha anche invocato l'articolo 5 § 1 della Convenzione, sostenendo  che la sua detenzione sia stata arbitraria.

La Corte constata una violazione di tutte e tre le suddette disposizioni.

Per quanto riguarda le condizioni di detenzione del ricorrente nella stazione di polizia, la  Corte fa riferimento alla relazione del mediatore che aveva fatto visita al ricorrente il 10 settembre 2009. Questo rapporto indica un grave sovraffollamento, un deficit di ventilazione, scarsità di illuminazione e pulizia, nonché difficoltà di uscire in un cortile.

Tali conclusioni risultavano confermate da una relazione speciale delle Nazioni Unite.

La Corte, dunque, nel ricordare che l'ordinamento greco ammette la detenzione in una stazione di polizia per la durata strettamente necessaria per il trasferimento in carcere, e constatando che il ricorrente è stato detenuto per un totale di 83 giorni in due uffici, conclude per la violazione dell'articolo 3.

La Corte, ancora, stima che il ricorrente non abbia avuto un'effettiva possibilità di ricorso per lamentarsi delle sue condizioni di detenzione, in violazione dell'art. 3 in combinato disposto con l'art. 13.

Essa, infatti, constata che la legge greca permette ai tribunali di esaminare la decisione di detenere un migrante clandestino sulla sola base del rischio di fuga o della minaccia per l'ordine pubblico, ma non dà competenza ai tribunali per esaminare le condizioni di vita nei centri di detenzione per 'clandestini' ed eventualmente ordinare la liberazione di un detenuto in ragione delle sue intollerabili condizioni di detenzione.

Ancora, per quanto riguarda l'arbitrarietà del respingimento, la Corte ricorda di avere rilevato, nel caso M.S.S. c. Belgio e Grecia (n° 30696/09), le carenze del sistema greco di asilo. La Corte nota che, nel caso di specie, l'opposizione al rigetto della domanda di asilo, così come la richiesta di rinvio dell'esecuzione dell'espulsione, sono ancora pendenti e tale ritardo non è ragionevole. Dunque,  la Corte conclude per la violazione dell'art. 13 in combinato con l'art. 3, in quanto il ricorrente ha corso il rischio di essere espulso prima dell'esame del ricorso relativo alla sua domanda di asilo.

La Corte ha riscontrato altresì una violazione dell'art. 5 § 1 f) Cedu, poiché conformemente alla Convenzione di Ginevra ed allo stesso diritto greco, la detenzione o l'espulsione di una persona che ha depositato una domanda di asilo non sono permessi finché la sua domanda non è stata esaminata.

La Corte constata altresì la violazione dell'art. 5 § 4, in quanto, in Grecia, il controllo giurisdizionale sullo stato di detenzione - limitato ai soli profili del rischio di fuga o della minaccia per l'ordine pubblico - è inefficace.

La Corte ha affermato che la Grecia deve pagare alla ricorrente 10.000 euro per i danni morali, e 2500 euro per le spese.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 33872/05, Stepanov c. Russia (importance level 3)

Il ricorrente, Ruslan Stepanov, è un cittadino russo condannato, nel 2004 e nel 2008 - per aggressione aggravata, aggressione ad un agente di polizia, omicidio - a pene detentive rispettivamente di nove anni e mezzo e nove anni.

Lamenta una violazione dell'art. 3 Cedu, in ragione dei maltrattamenti subiti dalla polizia durante la sua detenzione nel marzo 2004, nonché dell'inefficacia dell'inchiesta. Sostiene, altresì, che la sua detenzione dal 27 marzo al 10 maggio 2006 sia stata irregolare.

La Corte non ritiene sussistente alcuna violazione dell'art. 3,in quanto rileva che, sebbene il ricorrente fosse in inferiorità numerica rispetto agli agenti di polizia, era un istruttore di arti marziali ed, inoltre, egli aveva opposto resistenza, rifiutandosi di rispettare le richieste verbali degli agenti ed aggredendo uno di essi. Invece, riconosce la violazione dell'articolo 5 § 1 (c) per il periodo di custodia cautelare dal 27 marzo al 10 maggio 2006. Sul punto, d'altronde, la Corte sottolinea che la stessa interpretazione delle pertinenti disposizioni del Codice russo di procedura penale fornita dalla Corte Suprema della Federazione Russa stabilisce che, al momento di decidere il prolungamento della detenzione di un imputato, il giudice debba specificarne il termine e le ragioni.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 16870/03, Vikulov e altri c. Lettonia (importance level 3)

I ricorrenti, Sergey Vikulov, Galina Vikulova Vikulov e Anton, una coppia di sposi ed il loro figlio, sono cittadini russi; il signor Vikulov è un ex membro dell'esercito sovietico.

Nel 1985, è stato assegnato alla Repubblica Socialista Sovietica lettone, ove è rimasto con la sua famiglia fino al congedo dall'esercito nel 1998. Nel frattempo, nel 1991, la Lettonia è diventata indipendente. Per rimanere sul territorio, dunque, i ricorrenti hanno dovuto chiedere un permesso di soggiorno, che, tuttavia, gli è stato rifiutato. A questo punto,  le autorità hanno emanato un ordine di espulsione nei loro confronti, rimasto ineseguito fino al settembre 2003, quando i ricorrenti sono stati arrestati e portati in un centro di detenzione per immigrati clandestini. Due settimane più tardi, sono stati deportati in Russia.

La famiglia Vikulov si lamenta circa le condizioni della loro detenzione, avvenuta in una cella sporca e stretta, talvolta condivisa con altri detenuti, nonché in una complessiva situazione di malnutrizione.

Afferma altresì che la loro detenzione sia stata illegale, in quanto la decisione su cui si fondava era stata presa solo cinque giorni dopo l'arresto.

La Corte non riconosce la violazione né dell'art. 3, né dell'art. 5 § 1 Cedu. Per quanto riguarda l'adeguatezza complessiva del centro di accoglienza Olaine, la Corte fa riferimento alle conclusioni del CPT che depongono in tal senso; inoltre, constata che solo in due occasioni le autorità sono state costrette da circostanze impreviste a mettere temporaneamente - per non oltre 24 ore - un'altra persona nella cella dei ricorrenti, sicuramente non con il fine di umiliare o creare disagio ai detenuti. Anche le altre censure sub art. 3 sembrano infondate.

Per quanto riguarda l'art. 5 § 1, Il Tribunale rileva che, nella fattispecie, i ricorrenti hanno avuto ampie opportunità di conformarsi volontariamente all'ordine di lasciare il Paese e che le autorità hanno prorogato più volte il termine entro il quale avrebbero dovuto farlo : solo a seguito del persistente mancato rispetto degli ordini sono stati arrestati sulla base di una disposizione sufficientemente precisa a tale riguardo; inoltre, essi non avevano collaborato con le autorità, per un procedimento più rapido, fornendo i documenti di identificazione necessari.

 

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4. Articolo 5 Cedu

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 18 settembre 2012, ric. n. 31622/07, Dochnal c. Polonia (importance level 3)

Il ricorrente, Marek Alojzy Dochnal, è un cittadino polacco, uomo d'affari e lobbista.

Si lamenta dell'eccessiva durata della sua sottoposizione a custodia cautelare (dal settembre 2004 al gennaio 2008, e dall' agosto 2008 al febbraio 2009), nell'ambito di due procedimenti penali a suo carico aventi ad oggetto fatti di corruzione, riciclaggio di denaro ed evasione fiscale.

Egli ha, inoltre, sostenuto che la cella era estremamente piccola, che in inverno la temperatura della cella era scesa sotto lo zero, e che non gli era stato permesso di utilizzare la biblioteca, di partecipare alla messa o ad altre attività, di ricevere giornali e libri.

Evidenzia, altresì, di non aver potuto effettuare l'accesso al fascicolo relativo al secondo procedimento, e di essere stato privato della possibilità di qualsiasi contatto con la propria famiglia.

Ritiene, dunque, esservi stata violazione degli artt. 3, 5 § § 3 e 4 e 8 Cedu.

La Corte, anzitutto, rileva che in tutte le decisioni che hanno prorogato la detenzione del ricorrente, non era addotta nessuna prova specifica del rischio di manomissione di  prove, di intimidazione di testimoni o di altre interferenze con il procedimento.

Inoltre, aggiunge che la restrizione al diritto di accesso per finalità di buon andamento delle indagini, non è da ritenersi accettabile allorché comporti sostanziali restrizioni al diritto di difesa.

Infine, reputa che sia stata illegittima la privazione di contatti con i familiari, tenuto conto peraltro che, dai documenti a disposizione della Corte, risulta che le decisioni del pubblico ministero di diniego delle visite non adducessero alcuna motivazione. La Corte, tra l'altro, osserva che l'atto impugnato è stato applicato ai sensi dell'articolo 217 § 1 del Codice di esecuzione di sentenze penali, disposizione già in altre occasioni criticata da essa per l'eccessiva discrezionalità  che lascia alle autorità.

A ciò va aggiunto che, ad oggi, non è stato ancora pronunciata sentenza nel secondo procedimento e che il pubblico ministero ha rinunciato a molti capi d'accusa.

La Corte, quindi, ha riconosciuto la violazione di tutti e tre gli articoli indicati dal ricorrente - non dell'art. 3, non essendo state esaurite le vie di ricorso interne - ed ha riconosciuto 8 800 euro per il danno morale, e 3.300 euro per le spese di giudizio.

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 18 settembre 2012, ric. nn. 25119/09, 57715/09, 57877/09, James, Wells e Lee c. Regno Unito (importance level 1)

Il caso concerne la detenzione a tempo indeterminato di taluni cittadini inglesi per finalità di protezione pubblica ("pene IPP2").

L'istituto delle IPP2, introdotto nell'aprile 2005 a norma dell'articolo 225 della legge del 2003 sulla giustizia penale, era in origine obbligatorio in caso di recidiva. Il rischio di reiterazione del reato era presunto in caso di condanna per reati violenti o a sfondo sessuale (presunzione vincibile con la prova contraria). In caso di applicazione del IPP, il giudice stabiliva una periodo minimo di pena chiamato "tariffa". Alla fine di questo periodo, il detenuto poteva essere rilasciato se la pericolosità fosse risultata scemata.

Visto l'uso inflazionato di tale istituto, nel 2008 il sistema è stato modificato. In virtù di tali modifiche le  pene non sono più obbligatorie e non possono essere inflitte se la pena minima è inferiore a due anni, salvo talune eccezioni; inoltre, è stata eliminata la possibilità di presunzioni.

Tenuto conto dei loro precedenti, tutti e tre i ricorrenti - nel 2005 - sono stati condannati automaticamente a pene IPP le cui durate minimali erano di due anni, dodici mesi e nove mesi.

È stato raccomandato loro di partecipare a differenti corsi di riadattamento, per imparare modalità di autocontrollo, per superare la tossicodipendenza, per essere sensibilizzati relativamente alla situazione delle vittime. Tuttavia, terminato il primo periodo di pena, i ricorrenti non avevano ancora avuto la possibilità di seguire nessuno di questi corsi, non essendo state stanziate le risorse necessarie al buon funzionamento delle disposizioni della legge del 2003 ed al trasferimento in strutture adeguate.

La Camera dei Lord, pur riconoscendo il sottofinanziamento di tali percorsi di recupero ed i loro deficit strutturali, ha comunque affermato la non arbitrarietà o irregolarità  della detenzione dei ricorrenti perché, anche se non avevano avuto accesso ai corsi, il legame di causalità tra i motivi della loro detenzione e la detenzione stessa non era spezzato.

Questi, dunque, ricorrono alla Corte Edu, ritenendo sussistente una violazione dell'art. 5 §§ 1 e 4 Cedu.

La Corte rileva che mai come per le pene a tempo indeterminato, imposte per fini di protezione pubblica, la possibilità di una reale risocializzazione è elemento ineliminabile, che giustifica e fonda la detenzione stessa. E, sul punto, sottolinea altresì la valutazione negativa dei giudici interni, che avevano riscontrato una grave ed irragionevole assenza di risorse volte a finanziare questi percorsi di recupero sociale ed asserito una inottemperanza del ministro ai suoi obblighi di diritto pubblico, non avendo egli svolto una pianificazione realistica.

In queste condizioni, la Corte considera che dalla scadenza del periodo minimo di pena, la loro detenzione è stata arbitraria e dunque irregolare al senso dell'articolo 5 §1.

Le questioni relative all'art. 5 § 4 Cedu, sulla possibilità di ottenere un'ordinanza di remissione in libertà, invece, sono ritenute in parte assorbite, ed in parte infondate (in proposito, si veda l'opinione dissenziente del giudice Kalaydjieva).

La Corte ha riconosciuto 3000 euro a M. James, 6200 euro a M. Wells e 8 000 euro a M. Lee per danni morali, e 12 000 euro ciascuno per le spese.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 67341/10, Dervishi c. Croazia (importance level 3)

Il ricorrente, Januz Dervishi, è un cittadino croato, arrestato, nel maggio 2008, per traffico di eroina e sottoposto a custodia cautelare.

Tale custodia cautelare è stata prorogata dal giudice in diverse occasioni in ragione del timore di inquinamento delle prove, della gravità del reato contestato e del pericolo di reiterazione del reato. Il Dervishi è stato rilasciato solo nel mese di febbraio 2012;  il procedimento penale è ancora in corso.

Il ricorrente lamenta una violazione dell'art. 5 § 3, ritenendo che le motivazioni poste a base delle proroghe della sua detenzione non erano pertinenti e sufficienti a giustificarla per una durata così lunga.

La Corte ritiene esistente tale violazione. Essa, anzitutto, rileva delle contraddizioni tra le motivazioni assunte a sostegno della proroga della detenzione; infatti, quando l'inchiesta è stata aperta nei confronti del ricorrente, con l'accusa di traffico di eroina, il giudice istruttore ha ordinato la detenzione del ricorrente in virtù del rischio di inquinamento delle prove, ed, in seguito, per le stesse ragioni ha prorogato la detenzione del ricorrente per altre due volte. Tuttavia, quando gli elementi di prova di cui si temeva la manomissione erano stati ormai raccolti, la detenzione  è stata prorogata a causa del rischio di recidiva e della gravità delle accuse.

Inoltre, il fatto che nel corso di un anno siano stati ascoltati solo sei testimoni - e siano state rinviate quasi undici udienze - è sintomatico di scarsa diligenza nel trattare il procedimento, in particolare, in un caso come questo, in cui il ricorrente era già stato detenuto per quasi un anno nel corso delle indagini : in tutto, dunque, un anno e più di nove mesi durante i quali il ricorrente è stato detenuto senza alcun progresso o sviluppo nel procedimento. A ciò va aggiunto, che in nessuna fase del procedimento è stata presa in considerazione la possibilità di irrogare misure alternative, meno gravi,  nei confronti del ricorrente, come la libertà vigilata o la cauzione, espressamente previste dalla legge croata per assicurare il corretto svolgimento delle procedimento penale.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 22152/05, Sergey Solovyev c. Russia (importance level 3)

Il ricorrente, Sergey Solovyev, è un cittadino russo, arrestato nel marzo 2003 per omicidio, e posto in detenzione provvisoria fino al marzo 2006, data nella quale, essendo stato assolto, fu rimesso in libertà.

Il Solovyev rileva una violazione dell'articolo 5 § 1, in quanto per due giorni nel marzo 2005 la sua detenzione era stata irregolare, poiché l'ordinanza di proroga della custodia era stata pronunciata due giorni dopo la scadenza del periodo fissato precedentemente.

Lamenta, inoltre, l'assenza di assistenza legale ad un'udienza in cui è stata decisa la proroga della detenzione.

La Corte riconosce la violazione dell'art. 5 § 1. Essa, invece, non riconosce la violazione dell'art. 5 § 4 relativa alla mancanza di assistenza legale, essendo stato il difensore debitamente avvisato delle udienze. La Corte peraltro afferma che il procedimento speciale di cui all'art. 5 Cedu non contiene alcuna menzione esplicita di un diritto all'assistenza legale, a differenza del successivo art. 6. Il giudice può decidere, perciò, di non aspettare che il detenuto sia fornito di assistenza legale, e le autorità non sono obbligate a provvedere al gratuito patrocinio nei procedimenti sullo stato di detenzione.

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 30689/05, Kirlangiç c. Turchia (importance level 3)

Il ricorrente, M. Hüseyin Kirlangic, sospettato di appartenenza ad un' organizzazione illegale armata (THKP/C), viene arrestato e posto in custodia; durante l'interrogatorio, riconosce alcune delle contestazioni mossegli.

Dinanzi alla Corte Edu, lamenta l'eccessiva durata della sua detenzione provvisoria.

La Corte riconosce la violazione dell'art. 5 § 3 Cedu, poiché il prolungamento della detenzione - per circa 5 anni e 4 mesi - è stato giustificato sulla base di formule standard quali "la natura del reato", "lo stato del caso" o "lo stato dell'istruzione probatoria"; e, se in generale, queste circostanze possono essere fattori rilevanti, non possono però di per sé  giustificare il protrarsi della detenzione per un periodo così lungo.

 

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5.  Articolo 8 Cedu

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 28 agosto 2012, ric. n. 54270/10, Costa e Pavan c. Italia (importance level 2)

I ricorrenti, Rosetta Costa e Walter Pavan, sono due cittadini italiani, che dopo la nascita della loro prima figlia nel 2006, apprendevano di essere portatori sani della fibrosi cistica.

Nel 2010, dopo aver interrotto medicalmente una gravidanza, perché il feto era risultato affetto da tale malattia, i ricorrenti avevano espresso la volontà, in vista di una nuova gravidanza, di accedere alle tecniche della procreazione medicalmente assistita e ad una diagnosi genetica pre-impianto.

Tuttavia, ai sensi della legge n. 40 del 19 febbraio 2004, le tecniche della procreazione medicalmente assistita sono accessibili solamente alle coppie sterili, non fertili o nelle quali l'uomo è affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili.

I ricorrenti lamentano pertanto la violazione dell'art. 8 Cedu, perché ritengono che l'unica strada, attualmente per loro percorribile, per mettere al mondo dei figli che non siano affetti da fibrosi cistica, sia quella di iniziare una gravidanza in modo naturale e procedere all'interruzione medica ogniqualvolta una diagnosi prenatale accerti che il feto sia malato.

Invocano altresì la violazione dell'art. 14 Cedu: lamentano, infatti, di subire una discriminazione rispetto alle coppie 'tipizzate' dalla l. n. 20/2004, che possono liberamente fare ricorso alla diagnosi pre-impianto.

La Corte, dopo aver riconosciuto l'incoerenza del sistema italiano in materia di diagnosi pre-impianto, ritiene che vi sia stata una violazione dell'art. 8, posto che l'ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare è stata sproporzionata.

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 12 settembre  2012, ric. n. 10593/08, Nada c. Svizzera (importance level 1)

Il ricorrente, Youssef Nada, è un imprenditore italo-egiziano che è stato confinato per diversi anni nell'enclave di Campione d'Italia.

Sospettato di intrattenere relazioni ed altresì di finanziare la rete terroristica di Al-Quaida ed Osama Bin Laden, la Confederazione elvetica nel 2001 - in applicazione alla Risoluzione n. 1333 del Consiglio di Sicurezza ONU - inserisce il suo nominativo in una black list e gli vieta il transito e l'ingresso in Svizzera, impedendogli in tal modo di muoversi da Campione. 

Egli lamenta la violazione degli artt. 5, 8 e 13 Cedu.

La Corte accoglie le doglianze relative agli artt. 8 e 13 Cedu, invocando, da un canto, il principio di non ingerenza dello Stato nel diritto di ogni persona al rispetto della propria vita familiare e privata e, dall'altro, osservando che il ricorrente non è stato messo in condizione, dalle autorità elvetiche, di richiedere la effettiva cancellazione del proprio nominativo dalla lista.

I giudici rigettano, invece, il motivo relativo alla violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza di cui all'art. 5 Cedu, perché ritengono che il ricorrente non sia stato privato della sua libertà personale.

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 19764/07, Spyra e Kranczkowski c. Polonia (importance level 2)

I ricorrenti, Anna e Oskar Kranczkowski Spyra, madre e figlio, sono due cittadini polacchi. Sin dalla nascita, Oskar ha avuto problemi respiratori, che hanno determinato la necessità di continui trattamenti e diversi interventi chirurgici. Questi ha oggi un handicap grave, necessita di un costante sostegno, di una riabilitazione continua e di una dieta speciale. Nel 2002, è stato dichiarato disabile al 100%.

I ricorrenti lamentano una violazione dell'articolo 8, ritenendo che la disabilità fosse stata causata dalla mancanza di un adeguato trattamento medico durante l'ospedalizzazione nel periodo del parto, ed, in particolare, dal mancato rispetto da parte del personale degli standard medici di cura per i neonati. I ricorrenti lamentano, inoltre, la mancanza di efficacia delle procedure svolte dalle autorità polacche per chiarire l'origine della disabilità del richiedente.

La Corte, tuttavia, non riscontra nessuna violazione dell'articolo 8.

Essa, infatti, asserisce che gli obblighi positivi dello Stato, ai sensi degli artt. 2  e 8 Cedu, consistono nel garantire un sistema di sanità pubblica composto da professionisti di elevata competenza e da strutture adeguate, nonché nell'adozione di misure volte a proteggere la vita dei pazienti. Nel caso di specie, le perizie richieste dai giudici nazionali non hanno rilevato alcun deficit nel trattamento post parto : il fatto che il ricorrente era stato trasferito al reparto di terapia intensiva senza incubatrice, sebbene l'uso di un incubatrice fosse consigliabile, non era indice di una negligenza medica o di una violazione di standard di cura prescritti dalla legge; ma, soprattutto, non era stato la causa della disabilità.

La Corte ritiene altresì che non vi siano state indagini carenti : ed, infatti, era stato avviato un procedimento civile - non essendo richiesto di apprestare necessariamente lo strumento penale - ed un procedimento disciplinare. In più, sono anche pendenti i ricorsi esercitati dai richiedenti sul piano penale. Ritiene la Corte che, anche qualora l'indagine penale si rivelasse inadeguata, il sistema giuridico polacco, nel suo complesso, ha adeguatamente affrontato il caso in questione; e, in tutte queste sedi, è stata respinta l'ipotesi di un nesso di causalità tra la azioni del personale e la disabilità del ricorrente.

 

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6. Articolo 10 Cedu

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 18 settembre 2012, ric. n. 3084/07, Falter Zeitschriften GmbH c. Austria (importance level 3)

La società ricorrente, Falter Zeitschriften GmbH, è la proprietaria del settimanale viennese Falter.

La questione attiene ad un articolo, pubblicato nel maggio 2005, in cui si criticava aspramente l'operato di un giudice - ritenuto consapevolmente parziale - che aveva assolto un agente di sicurezza del centro di accoglienza di Traiskirchen accusato di avere stuprato una richiedente asilo camerunense.

Tale articolo aveva determinato una condanna per diffamazione, e l'obbligo di versare 7 000 euro di danni ed interessi.

La ricorrente lamenta la violazione dell'art. 10 Cedu.

La Corte, tuttavia, non ritiene essere sussistente tale violazione. Essa ricorda che, nel valutare l'esistenza di un "bisogno sociale imperioso" in grado di giustificare una interferenza con l'esercizio della libertà di espressione, va fatta una distinzione tra fatti e giudizi di valore. Mentre l'esistenza di fatti può essere dimostrata, la verità dei giudizi di valore non è suscettibile di prova. La Corte, tuttavia,  ammette che a volte può essere difficile distinguere tra affermazioni di fatto e giudizi di valore e che, anche per un giudizio di valore, la proporzionalità di una interferenza può dipendere dal fatto che esista una base fattuale  sufficiente, dal momento che anche un giudizio di valore, senza alcuna base di fatto,  può essere eccessivo.

Ancora, in generale, la Corte ritiene che, posta la libertà di criticare i giudici e la magistratura, tenuto conto del fondamentale ruolo svolto dalla magistratura stessa in uno Stato di diritto, vanno biasimati attacchi pretestuosi ed infondati. Nel caso di specie, la Corte concorda con i giudici nazionali nel ritenere che le affermazioni pubblicate erano particolarmente gravi ed avevano bisogno di una base molto solida di fatto, che tuttavia non c'era. Inoltre, la Corte ritiene che l'ingerenza nel diritto di diffondere informazioni era proporzionata : la società ricorrente, infatti, è stata condannata solo al pagamento di un risarcimento di 7.000 euro, che appare ragionevole tenendo conto della lunghezza dell'articolo e dei suoi contenuti, che erano stati particolarmente denigratori e dannosi per la reputazione del giudice.

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 18 settembre 2012, ric. n. 39660/07, Lewandowska-Malec c. Polonia (importance level 3)

La ricorrente, Izabela Lewandowska-Malec, è una cittadina polacca, assistente presso la facoltà di giurisprudenza di Cracovia e consigliere comunale del gruppo d'opposizione.

La questione attiene alla pubblicazione su Internet , da parte della ricorrente, di una lettera in cui esprimeva la propria posizione riguardo ad un procedimento diretto contro il sindaco del suo Comune relativo a delle irregolarità nella gestione dei fondi municipali. In particolare, ella affermava che il sindaco avesse fatto indebite pressioni sul  pubblico ministero.

In ragione di tale lettera, era stata condannata per diffamazione.

Dunque, lamenta una violazione dell' art. 10 Cedu.

La Corte riscontra la sussistenza della violazione e riconosce un risarcimento di 2600 euro per pregiudizio materiale, 3000 euro per pregiudizio morale, e 100 euro per le spese.

La Corte, riprendendo il principio - già analizzato nella precedente pronuncia (Falter Zeitschriften GmbH c. Austria) - della differenza tra fatti e giudizi di valore, ritiene che nel caso di specie si sia trattato di un giudizio di valore, peraltro sostenuto da una sufficiente base di fatto.

La Corte rileva che le questioni oggetto dell'articolo fossero di interesse generale per la comunità e discuterle faceva parte di un dibattito politico; sottolinea che per comprendere il contenuto della lettera della ricorrente non ci si può limitare ad un passaggio isolato, ma bisogna tener conto del contesto complessivo: e, letta in tale contesto, la locuzione "pressione extralegale" aveva un significato ampio, comprensivo di tentativi di influenzare i pubblici ministeri ed il consiglio comunale con mezzi non necessariamente penalmente illeciti. Inoltre, la Corte ricorda che i limiti della critica ammissibile sono più ampi per quanto riguarda i politici, soprattutto quando la critica proviene da altri rappresentanti popolari, il cui compito è anche quello di porre domande scomode a coloro che esercitano funzioni pubbliche (e quindi di criticare le modalità di gestione dei fondi pubblici).

Nel caso di specie, la multa di 7.500 PLN (1.900 euro) e la pubblicazione della sentenza sul sito Internet dell'Agenzia di stampa polacca per un periodo di due settimane sembrano esprimere una mera nota di biasimo per l'esercizio del diritto alla libertà di espressione e, quindi, un'interferenza  sproporzionata rispetto allo scopo perseguito e non "necessaria in una società democratica" ai sensi dell'articolo 10 § 2 della Convenzione.

 

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7. Articolo 11 Cedu

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 11828/08, Sindacato di polizia della Repubblica slovacca ed altri c. Slovacchia (importance level 2)

Questo caso, così come quello successivo, riguardano due ipotesi di uso di misure sanzionatorie di tipo preventivo per ragioni di ordine e sicurezza pubblica.

I ricorrenti sono il sindacato di polizia della Repubblica slovacca e tre dei suoi membri, tra cui il suo vice presidente e l'ex vice-presidente. Nel mese di ottobre 2005, il sindacato ha organizzato un incontro pubblico a Bratislava per protestare contro alcuni cambiamenti attesi nella legislazione in materia di sicurezza sociale e di polizia e contro la riduzione dei loro salari.

Durante questo incontro, viene cantato un coro in cui si invita il Governo a dimettersi. Il ministro degli Interni, intervistato, critica tale riunione, avvertendo che gli agenti che violeranno ancora il codice deontologico della polizia saranno licenziati. Intanto, provvede subito a sostituire il presidente del sindacato della polizia, e sanzionare altri membri escludendoli da altri organi apicali della polizia.

I ricorrenti lamentano una violazione degli artt. 10 e 11 Cedu.

E, tuttavia, la Corte non riscontra nessuna violazione. Infatti, anche secondo la Corte, la manifestazione aveva leso la serietà e l'affidabilità che il corpo di polizia - di cui il Ministro degli Interni è politicamente responsabile -  deve conservare affinché i cittadini possano avere fiducia in esso. E, dunque, la reazione del Ministro - che in seguito non si era declinata in un'effettiva compressione dei diritti sindacali - era legittima.

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 25 settembre 2012, ric. n. 20641/05, EÄŸitim ve Bilim Emekçileri Sendikasi c. Turchia (importance level 2)

Il ricorrente è il sindacato dei Lavoratori dell'Educazione e della Scienza (EÄŸitim ve Bilim Emekçileri Sendikasi), che, nel 2001, aveva modificato la sezione 2 del proprio Statuto prevedendo la tutela del "diritto di tutti gli individui nella società di ricevere, in uguaglianza e libertà, un'istruzione democratica, laica, scientifica e gratuita nella propria lingua madre".

Il 15 febbraio 2002, il prefetto di Ankara chiese la soppressione dei termini "lingua materna"  poiché contrari alla Costituzione, ed in seguito lo scioglimento del sindacato, non avendo esso modificato ancora i suoi statuti.

Il 15 settembre 2004, il tribunale del lavoro di Ankara rigettò l'azione di scioglimento, indicando che tale formulazione degli statuti non metteva in pericolo l'unità territoriale, nazionale o statale, e che non era pensabile che tale disposizione sarebbe stata utilizzata dagli oppositori dell'unità della Repubblica turca. A questo punto vi è impugnazione in Cassazione : quest'ultima annulla la decisione del tribunale e rinvia ad un'altra sezione per la decisone. Ma, il tribunale di Ankara conferma nuovamente la sua decisione iniziale.

Ad ogni modo, il 3 luglio 2005, il sindacato sopprime i termini "lingua materna" dal suo statuto per evitare lo scioglimento, viste le persistenti tensioni.

Il sindacato lamenta dinanzi alla Corte Edu una violazione degli artt. 10 e 11, determinati da una illegittima compressione della libertà d'associazione e di pensiero.

La Corte riconosce tale violazione, anche perché all'epoca dei fatti era stata emanata una legge che permetteva l'insegnamento privato di lingue diverse dal turco (e, in particolare, il curdo). Essa, inoltre, ha osservato che la formulazione dell'articolo di cui si discute non esortava né all'uso della violenza, né alla resistenza armata, né all'insurrezione.

La Corte, dunque, condanna la Turchia a versare 7 500 euro al ricorrente per i danni morali, e 411 euro per le spese.