13 gennaio 2015 |
Monitoraggio Corte Edu Ottobre 2014
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale
A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Alberto Aimi e Roberta Casiraghi. L'introduzione è a firma di Alberto Aimi per quanto riguarda gli art. 2, 3, 10 e 11 Cedu, mentre si deve a Roberta Casiraghi la parte relativa agli art. 5, 6, 8 Cedu e 2 Prot. n. 7 Cedu.
2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
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Per quanto concerne gli obblighi discendenti dall'art. 2 della Convenzione, la Corte europea ha avuto modo di occuparsi, anche questo mese, di gravi fatti accaduti nel corso della guerra in Cecenia. Con la prima pronuncia - sent. 9 ottobre 2014, Sultygov e altri c. Russia - la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la responsabilità del governo russo per la sparizione - avvenuta tra il 2000 e il 2006 - di diciassette ceceni, arrestati dalle forze armate russe durante operazioni di sicurezza e presso checkpoint militari, ravvisando una violazione dell'art. 2 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale, in relazione alla presunta morte delle vittime, sia procedurale, con riferimento all'inadeguatezza delle indagini svolte dalle autorità russe intorno alla sparizione. Con la stessa sentenza, peraltro, la Corte europea ha affermato la violazione, da parte del governo russo, dell'art. 3 Cedu, in relazione alle sofferenze patite dai parenti delle persone scomparse, nonché dell'art. 5 Cedu, per il profilo relativo alla detenzione illegale delle persone scomparse. Con la seconda pronuncia, invece, i giudici di Strasburgo hanno condannato le autorità russe in relazione all'uccisione accidentale, durante un conflitto a fuoco con i ribelli ceceni, di una cittadina russa, figlia del ricorrente (sent. 16 ottobre 2014, Kosumova c. Russia). La Corte europea, in questo caso, ha riconosciuto la violazione dell'art. 2 Cedu soltanto sotto il profilo procedurale, stigmatizzando l'inefficienza delle indagini svolte dalle autorità russe intorno all'accaduto.
Assai poco sorprendenti, anche questo mese, le condanne pronunciate dalla Corte europea per violazione dell'art. 3 Cedu, in relazione a casi di police brutality commessi da parte di forze di polizia ai danni di detenuti e indagati (sent. 14 ottobre 2014, Peyam c. Turchia; sent. 16 ottobre 2014, Chernetskiy c. Russia; sent. 16 ottobre 2014, Mostipan c. Russia; sent. 16 ottobre 2014, Gordiyenko c. Ucraina; sent. 16 ottobre 2014, Suldin c. Russia; sent. 21 ottobre 2014, Temizalp c. Turchia; sent. 23 ottobre 2014, Bobrov c. Russia). Nel condannare i governi responsabili per la violazione sostanziale dell'art. 3 Cedu operata dai propri agenti, la Corte europea non ha mancato di ribadire la necessità che le autorità statali svolgano indagini effettive sui casi denunciati di maltrattamenti da parte delle forze di polizia, ravvisando in caso contrario una doppia violazione - anche sul profilo procedurale - dell'art. 3 Cedu.
Com'è noto, poi, nei casi in cui le allegazioni di police brutality non possano dirsi provate oltre ogni ragionevole dubbio, la Corte non esita a riconoscere una violazione soltanto procedurale dell'art. 3 Cedu; anche questo mese, ciò è puntualmente avvenuto, in relazione ai maltrattamenti asseritamente subiti da due terroristi dell'ETA nel corso del loro arresto c.d. incommunicado (sent. 7 ottobre 2014, Extebarria Caballero c. Spagna; sent. 7 ottobre 2014, Ataun Rojo c. Spagna).
La Corte europea ha peraltro avuto modo di ribadire che le allegazioni di maltrattamenti subiti da parte delle forze di polizia debbano raggiungere un livello minimo di gravità per essere considerate rilevanti ai sensi dell'art. 3 Cedu (sent. 21 ottobre 2014, Y. c. Lituania) e che non ogni utilizzo della forza da parte dell'autorità di pubblica di sicurezza è contrario all'art. 3 Cedu, ma soltanto quello che eccede dai limiti della proporzione (sent. 16 ottobre 2014, Zalevskiy c. Ucraina).
Non meno scontati, poi, i numerosi casi accertati di violazione di violazione dell'art. 3 Cedu in ragione delle condizioni di detenzione inumane e degradanti, specialmente per le condizioni di sovraffollamento o di scarsa igiene degli impianti carcerari o per la mancanza di adeguate cure mediche (sent. 2 ottobre 2014, Fakalo e altri c. Francia; sent. 9 ottobre 2014, H.H. c. Grecia; sent. 16 ottobre 2014, Adeishvili c. Russia; sent. 16 ottobre 2014, Suldin c. Russia; sent. 21 ottobre 2014, Marian Chiriță c. Romania; sent. 23 ottobre 2014, Nikolaos Athanasiou e altri c. Grecia; sent. 23 ottobre 2014, Mela c. Russia; sent. 28 ottobre 2014, Tirean c. Romania). In particolare, poi, in un caso la Corte europea ha riconosciuto la violazione dell'art. 3 non solo in ragione delle condizioni del luogo di reclusione del ricorrente, ma anche per essere stato questi sottoposto ad un regime detentivo speciale, che prevedeva perquisizioni corporali giornaliere e l'impossibilità di lasciare la propria cella senza manette (sent. 28 ottobre 2014, Åšlusarczyk c. Polonia).
Per quanto riguarda, inoltre, gli obblighi procedurali discendenti dall'art. 3 Cedu, la Corte di Strasburgo ha condannato la Turchia in relazione a un caso in cui, a causa della lentezza delle indagini della polizia intorno ad un fatto di lesioni commesso da due soggetti privati ai danni del ricorrente, la Corte di Cassazione turca era stata costretta a dichiarare la prescrizione del reato (sent. 28 ottobre 2014, Ä°brahim DemirtaÅŸ c. Turchia).
Relativamente agli obblighi c.d. di protezione discendenti dall'art. 3 Cedu, infine, la Corte europea ha avuto modo di pronunciarsi in relazione a due casi, ribadendo la propria costante giurisprudenza, per la quale incombe sulle autorità statuali delle parti contraenti l'obbligo di proteggere persone determinate dal pericolo di subire trattamenti contrari all'art. 3 Cedu. In particolare, nel primo caso, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la responsabilità del governo georgiano ai sensi dell'art. 3 Cedu, per non aver protetto la comunità georgiana di Testimoni di Geova dai numerosi attacchi da questa subita da parte di estremisti cristiano ortodossi, rilevando, peraltro, nella vicenda in esame, una violazione dell'art. 3 Cedu anche sotto il profilo dell'inefficienza delle indagini svolte per punire i responsabili, nonché la violazione degli artt. 9 e 14 Cedu (sent. 7 ottobre 2014, Begheluri e altri c. Georgia). Nell'altro caso sottoposto all'attenzione della Corte europea, invece, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la responsabilità delle autorità russe per aver rilasciato senza protezione un latitante uzbeko - sparito nel nulla a qualche giorno di distanza dalla sua scarcerazione -, la cui estradizione verso l'Uzbekistan era nel frattempo stata vietata dalla Corte europea in applicazione dell'art. 39 delle Rules of the Court, in ragione della probabile sua sottoposizione in patria a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu (sent. 23 ottobre 2014, Mamazhonov c. Russia). Numerosi i profili di contrarietà all'art. 3 Cedu ravvisati dai giudici europei nelle condotte delle autorità russe: oltre alla mancata protezione del ricorrente, la Corte di Strasburgo ha stigmatizzato l'inefficienza delle indagini attorno alla scomparsa della vittima, nonché il mancato rispetto dei principi da essa stabiliti in tema di refoulement verso paesi "a rischio" (su cui v. anche infra, in questo mese, la sent. 21 ottobre 2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia: v. infra per una sintesi).
Tra le pronunce della Corte europea del mese di ottobre, con riferimento all'art. 5 comma 4 Cedu, si segnala la sent. 28 ottobre 2014, Hebat Aslan e Firas Aslan c. Turchia, in cui la Corte di Strasburgo ha ravvisato la violazione del principio di parità delle armi nel procedimento cautelare, in quanto l'opposizione presentata dalla difesa contro la proroga della detenzione provvisoria è stata rigettata senza che venissero comunicate alla difesa le conclusioni scritte del procuratore che esprimeva il proprio parere sfavorevole alla cessazione della misura detentiva. Inoltre, l'assenza di un rimedio che consentisse ai ricorrenti di ottenere un indennizzo per i difetti procedimentali del giudizio cautelare ha altresì violato l'art. 5 comma 5 Cedu.
Per quanto concerne l'art. 6 Cedu, va evidenziata, anzitutto, la sent. 23 ottobre 2014, Furcht c. Germania (per una sintesi, v. infra), relativa a un'indagine sotto copertura: la Corte europea ha riscontrato la violazione dell'equità processuale, in quanto gli agenti undercover non si sono limitati a una condotta passiva, ma hanno indotto il ricorrente a commettere il reato, convincendolo a portare a compimento il disegno criminoso, nonostante egli avesse espresso le proprie perplessità sulla prosecuzione dell'operazione. Inoltre, le prove conseguite tramite l'attività degli agenti provocatori sono state utilizzate per la condanna; a tal riguardo, i giudici di Strasburgo hanno osservato come, al fine di escludere la sussistenza dello status di vittima ai sensi dell'art. 34 Cedu, non possa equipararsi all'estromissione delle prove così ottenute il riconoscimento da parte dei giudici interni dell'attività di provocazione e la conseguente mitigazione della pena. Sempre in tema di operazioni undercover, si segnala la sent. 30 ottobre 2014, Nosko e Nefedov c. Russia (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte di Strasburgo, nel ravvisare la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, ha rimproverato allo Stato russo l'assenza di qualsiasi controllo giudiziario sul potere discrezionale della polizia di intraprendere attività sotto copertura.
Per quanto riguarda l'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, è significativa la sent. 16 ottobre 2014, Suldin c. Russia (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte europea ha affermato che l'assenza ingiustificata del testimone d'accusa viola di per sé il diritto al confronto dell'accusato, non essendo necessario verificare ulteriormente il peso unico o determinante delle sue dichiarazioni: considerato che, come regola generale, i testimoni devono deporre in dibattimento, l'autorità giudiziaria ha il dovere di compiere ogni ragionevole sforzo per assicurare la loro presenza, potendosi procedere alla lettura delle dichiarazioni del testimone assente solo qualora ricorrano valide ragioni.
Con riguardo al diritto all'assistenza di un interprete, il giudice europeo, nella sent. 14 ottobre 2014, Baytar c. Turchia (per una sintesi, v. infra), ha sottolineato l'importanza della fase delle indagini, nella misura in cui le prove ivi ottenute possano poi risultare determinanti per la decisione. Pertanto, anche in tale momento, occorre tutelare il diritto al silenzio e il diritto all'assistenza difensiva, per il cui effettivo esercizio un presupposto ineludibile è rappresentato dalla piena comprensione delle accuse a carico: ne consegue che il diritto a un interprete deve essere garantito già dalla fase investigativa. È stata quindi riscontrata una violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. e Cedu, poiché, nell'interrogatorio di polizia, l'imputata (non avente una conoscenza sufficiente della lingua e quindi non comprendendo in modo adeguato le accuse a suo carico), senza l'assistenza di un interprete, ha prima rinunciato a un difensore e poi reso dichiarazioni che sono servite come base per la condanna.
In tema di presunzione d'innocenza, la sent. 23 ottobre 2014, Melo Tadeu c. Portogallo (per una sintesi, v. infra), ha accertato la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu, in quanto i giudici tributari hanno respinto i ricorsi del ricorrente avverso il sequestro amministrativo dei propri beni, senza tenere conto del proscioglimento intervenuto in sede penale sui medesimi fatti su cui sono stati chiamati a decidere: in merito, la Corte europea ha rammentato come un proscioglimento definitivo debba essere rispettato da tutte le autorità che si pronuncino in maniera diretta o incidentale sulla responsabilità penale dell'interessato. Va poi menzionata la sent. 28 ottobre 2014, Peltereau-Villeneuve c. Svizzera (per una sintesi, v. infra), in cui la Corte di Strasburgo ha evidenziato come violi la presunzione d'innocenza l'uso in un provvedimento di archiviazione di parole dalle quali emerga non solo l'esistenza di un semplice sospetto nei confronti dell'imputato, ma la convinzione della sua colpevolezza.
Con riferimento all'art. 8 Cedu, si segnala la sent. 21 ottobre 2014, Császy c. Ungheria, in cui la Corte di Strasburgo ha accertato la violazione del diritto al rispetto della vita familiare, a causa del diniego al ricorrente arrestato del permesso di partecipare al funerale di un familiare. Sebbene la norma convenzionale non garantisca al detenuto un incondizionato diritto di assistere al funerale di un proprio familiare, nel caso di specie non è stato effettuato alcun bilanciamento tra l'interesse delle indagini e quello del richiedente: le autorità, favorite dalla vicinanza del luogo del rito funebre, avrebbero potuto consentire la partecipazione sotto scorta del ricorrente.
Merita poi una menzione la sent. 28 ottobre 2014, Ion Cârstea c. Romania: la Corte europea contesta allo Stato di non aver adempiuto all'obbligo positivo di assicurare l'effettivo rispetto del diritto del ricorrente alla propria reputazione, venendo meno a quel dovere di bilanciamento fra diritto alla vita privata e libertà di stampa: infatti, nel caso in esame, il giudice di Strasburgo ha ravvisato un danno alla reputazione del ricorrente a seguito della pubblicazione di una sua foto e di un articolo, contenente sia fatti risalenti a vent'anni prima e relativi alla sua vita sessuale sia accuse nei suoi confronti per presunti episodi avvenuti nove anni prima. In particolare, viene rimproverato alle autorità rumene di non aver compiuto, nel corso del procedimento penale sorto a seguito della denuncia del ricorrente e conclusosi con il proscioglimento del giornalista e del suo direttore-capo, una seria valutazione sull'esistenza di un interesse generale alla pubblicazione dell'articolo e sulla sua veridicità.
Oltre che nelle significative pronunce riassunte nel prossimo paragrafo (sent. 21 ottobre 2014, Murat Vural c. Turchia; sent. 28 ottobre 2014, Gough c. Regno Unito) la Corte europea ha avuto modo, nel mese scorso, di occuparsi di interferenze tra operato dei pubblici poteri e libertà di espressione in altri tre casi. Nel primo, la Corte europea ha ravvisato una violazione della libertà di espressione nella condanna del ricorrente ad una pena pecuniaria - successivamente convertita in pena detentiva - per aver distribuito alla stampa un documento contenente il proprio programma elettorale, al di fuori del periodo di dieci giorni precedente alle elezioni comunali in cui la propaganda elettorale, in Turchia, è autorizzata. (sent. 16 ottobre 2014, Gökçe c, Turchia). Nel condannare la Repubblica turca, la Corte ha rilevato, da un lato, come possa dubitarsi del fatto che sia un bisogno sociale fondamentale quello di restringere a dieci giorni prima delle elezioni il periodo di svolgimento della propaganda elettorale; dall'altro, come la pena detentiva inflitta fosse comunque da considerarsi sproporzionata rispetto ai fini perseguiti dal legislatore turco. Con la seconda pronuncia, la Corte di Strasburgo ha dichiarato contraria all'art. 10 Cedu - in ragione della sua sproporzione - la condanna a dieci giorni di detenzione amministrativa patita dalla ricorrente, membro di un partito di opposizione ucraino, per aver strappato, in segno di protesta verso le politiche del governo, un fiocco da una ghirlanda apposta durante una cerimonia dall'allora presidente Yanukovych (sent. 30 ottobre 2014, Shvydka c. Ucraina). Infine, la Corte europea ha confermato la propria intransigenza nel censurare l'imposizione di sanzioni penali a carico di giornalisti, condannando l'Islanda per aver violato il diritto alla libertà di espressione di una giornalista, che era stata condannata a una pena pecuniaria per diffamazione, per aver riportato una frase contenuta in un'intervista a una vittima di abusi sessuali - secondo la giurisdizione nazionale - in maniera scorretta (sent. 21 ottobre 2014, Erla Hlynsdottir c. Islanda, n. 2).
Con riferimento all'art. 11 Cedu, la Corte di Strasburgo è tornata sul tema della compatibilità con la libertà convenzionale di riunione e associazione dell'imposizione di sanzioni - anche soltanto amministrative - a carico dei partecipanti di una manifestazione pacifica, seppure non autorizzata. Nel caso preso in esame dai giudici europei, un gruppo di manifestanti, riunitisi per manifestare di fronte a un ospedale per protestare contro un piano di riorganizzazione sanitaria, non avevano obbedito all'ordine di sgomberare emanato dall'autorità, e per ciò solo erano stati multati (sent. 14 ottobre 2014, Yilmaz Yildiz e altri c. Turchia). La Corte europea, richiamando la propria costante giurisprudenza in tema, ha notato come i giudici nazionali non avessero effettuato un ragionevole bilanciamento tra il diritto a manifestare pacificamente e la necessità di preservare l'ordine pubblico, considerando in particolare come, in via di principio, sia da considerarsi sproporzionata l'imposizione di sanzioni penali o quasi penali ai partecipanti a una manifestazione pacifica e ha perciò riconosciuto la violazione dell'art. 11 Cedu da parte del governo turco.
In tema di diritto a un doppio grado di giudizio, va rammentata la sent. 30 ottobre 2014, Shvydka c. Ucraina, in cui è stata riconosciuta una violazione dell'art. 2 Prot. n. 7 Cedu, per l'ineffettività del diritto al giudizio di appello, svoltosi solo dopo la completa esecuzione della sentenza di condanna emessa in primo grado.
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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 14 ottobre 2014, Baytar c. Turchia
Nell'aprile 2001, la ricorrente è accusata e poi prosciolta dall'accusa di aver portato al fratello detenuto (nel febbraio 2001) un foglio di carta ripiegato e nastrato, scritto da un componente del PKK: il giudice, infatti, ritiene credibile la versione dell'imputata, la quale afferma di aver ritrovato casualmente questo documento e di averlo raccolto per curiosità. Il 17 dicembre 2001, la ricorrente viene accusata ancora per un nuovo medesimo episodio: interrogata dalla polizia, senza l'assistenza di un difensore (a cui l'accusata avrebbe rinunciato), dichiara di aver rinvenuto il documento di provenienza del PKK presso la sala d'attesa del carcere. La ricorrente è condotta innanzi al giudice, il quale, accortosi delle difficoltà linguistiche della ricorrente, chiede a un familiare di fungere da interprete: in questa occasione, l'imputata dichiara che il racconto reso alla polizia riguardava i fatti accaduti a febbraio e che il 17 dicembre non le era stato trovato alcunché durante la perquisizione. Ciononostante, il processo, svoltosi con l'assistenza di un difensore e di un interprete, si conclude con la condanna.
La ricorrente si lamenta dell'assenza di un interprete durante l'interrogatorio di polizia. A tal riguardo, la Corte europea rammenta che il diritto all'assistenza gratuita di un interprete non vale per le sole dichiarazioni dibattimentali, ma anche per i documenti scritti e per gli atti investigativi, poiché permette all'accusato di conoscere l'addebito a suo carico e di difendersi (eventualmente scegliendo se avvalersi o meno del diritto al silenzio e del diritto all'assistenza tecnica). Nel caso di specie, l'intervento di un interprete, assicurato nell'interrogatorio dinanzi al giudice e in dibattimento, è mancato nel corso dell'interrogatorio di polizia, in cui - senza l'assistenza difensiva, alla quale la ricorrente avrebbe rinunciato - sono state rese le dichiarazioni poi impiegate per il verdetto di colpevolezza. Orbene, il giudice di Strasburgo rileva come il mancato intervento dell'interprete in sede investigativa non abbia posto la ricorrente nella condizione di valutare pienamente le conseguenze della sua rinuncia al difensore e al diritto al silenzio. Di qui, la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. e Cedu. (Roberta Casiraghi)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 16 ottobre 2014, Suldin c. Russia
Nel gennaio 2002, il ricorrente viene arrestato e posto in detenzione (in una cella di 3x4 metri, condivisa con altri tre detenuti, priva di tavolo e maleodorante). Nel giugno 2003, il ricorrente è condannato a una pena detentiva di 20 anni. Con riguardo a un primo episodio criminoso, la condanna si fonda sulle dichiarazioni rese durante la fase delle indagini dal testimone N. (mai comparso in dibattimento, senza evidenti ragioni), corroborate dai colloqui telefonici fra lo stesso N. e un altro soggetto. Per la decisione sono prese in considerazione anche le testimonianze predibattimentali di S., Kha., Na. e G. (nessuno di essi comparso in dibattimento), i quali, però, non dicono nulla sulla diretta partecipazione del ricorrente alla commissione del reato. Con riguardo sia a questo episodio sia a un successivo furto (di cui il ricorrente viene dichiarato colpevole sulla base di altre prove), vengono altresì lette le dichiarazioni predibattimentali dei testimoni, assenti in dibattimento, Si., Gi., A., T. e Sh., che tuttavia si limitano a descrivere le circostanze degli eventi delittuosi, senza menzionare il ricorrente.
È, anzitutto, accertata la violazione dell'art. 3 Cedu, per il sovraffollamento della cella, in cui il ricorrente era costretto a trascorrere più di 23 ore al giorno. Il ricorrente lamenta poi di non aver avuto l'opportunità di interrogare il testimone N. nonché gli altri testimoni assenti, a causa degli insufficienti sforzi delle autorità per garantirne la presenza dibattimentale. Con riguardo ai testimoni diversi da N., la Corte europea evidenzia come le loro deposizioni siano risultate irrilevanti per la condanna del ricorrente, reputando dunque superfluo vagliare la sussistenza di giustificazioni per la loro assenza. Con riferimento invece al testimone N., premesso come la sua testimonianza sia stata rilevante per la decisione e come l'autorità giudiziaria non abbia specificato le ragioni della sua assenza, la Corte europea non ritiene necessario procedere alla verifica della decisività della deposizione del teste assente, accertando la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu. (Roberta Casiraghi)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 21 ottobre 2014, Murat Vural c. Turchia
Il ricorrente, un insegnante turco disoccupato, imbratta in tre occasioni alcune statue di Atatürk erette nel distretto metropolitano di Sincan, motivato da un generale risentimento verso la figura del primo presidente della Repubblica di Turchia e verso l'ideologia kemalista, nonché in segno di protesta contro la decisione del Ministero dell'educazione di rigettare la propria richiesta di nomina ad insegnante. Arrestato poco prima della commissione di un quarto atto di vandalismo, il ricorrente è sottoposto a procedimento penale e viene condannato in via definitiva, nel febbraio del 2007, alla pena di 13 anni, un mese e 15 giorni di reclusione e alla pena accessoria della sospensione del diritto di voto per il delitto di cui al § 1 della "Legge sulle offese alla memoria di Atatürk". Il ricorrente adisce allora la Corte europea lamentando plurimi profili di indebita compressione dei diritti fondamentali garantiti dalla Cedu, tra i quali, secondo la Corte di Strasburgo, assumono importanza preminente le lamentate violazioni degli artt. 10 Cedu e 3 Prot. add. Cedu, nella cui duplice prospettiva i giudici europei esaminano il ricorso. Per quanto concerne il primo profilo, la Corte europea rileva innanzitutto l'interferenza tra la condanna del ricorrente e il suo diritto alla libertà di espressione. Per costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, le garanzie dell'art. 10 Cedu si estendono non solo ai discorsi scritti e orali, ma anche a tutti i mezzi di comunicazione non convenzionali, tra i quali rientrano le condotte del ricorrente, non solo perché tramite l'imbrattamento delle statue costui aveva inteso manifestare la propria contrarietà all'ideologia kemalista, ma anche perché il ricorrente era stato condannato non per danneggiamento, ma proprio per aver manifestato il proprio pensiero insultando la memoria del fondatore della Repubblica turca. Così rilevata un'interferenza tra la condanna del ricorrente e il diritto convenzionale alla libertà di manifestazione del pensiero, la Corte europea riconosce come tale interferenza non possa considerarsi «necessaria in una società democratica», proprio in ragione dell'«estrema severità della pena prevista dalla legge e comminata al ricorrente», la cui manifesta sproporzione rende, nell'ottica dei giudici di Strasburgo, «superflua» l'analisi di qualsiasi ragione avanzata dal governo turco a giustificazione della condanna dell'insegnante. Oltre alla violazione dell'art. 10 Cedu, la Corte di Strasburgo rileva infine l'indebita compressione del diritto di voto del ricorrente, con connessa violazione dell'art. 3 Prot. add. Cedu. La Corte europea rammenta, infatti, come la sospensione del diritto di voto a seguito di una condanna costituisca una sanzione compatibile con la Cedu soltanto qualora sia fatta dipendere dalla natura e dalla gravità del reato o della pena inflitta, e non quando - come nell'ordinamento turco - consegua automaticamente alla pronuncia di una qualunque sentenza di una condanna a pena non sospesa per un reato doloso. (Alberto Aimi)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 21 ottobre 2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia
I ricorrenti - 32 cittadini afgani, 2 cittadini sudanesi e un eritreo - entrati illegalmente in Grecia, si imbarcano per l'Italia dal porto di Patrasso e arrivano in diversi porti italiani, dove vengono fermati e immediatamente rispediti in Grecia; colà vengono definitivamente rimpatriati o detenuti in attesa di rimpatrio. Essi lamentano: a) la violazione, da parte dei governi italiano e greco, degli obblighi discendenti dagli artt. 2 e 3 Cedu, poiché il loro rimpatrio li avrebbe sottoposti ad un rischio rilevante di morte o di subire trattamenti inumani o degradanti nel rispettivo paese d'origine; b) la violazione, da parte dei governi italiano e greco, dell'art. 13 Cedu, in quanto ai ricorrenti sarebbe stato precluso l'accesso ad un ricorso effettivo contro la decisione di espulsione; c) la violazione, da parte delle autorità greche e italiane, dell'art. 3 Cedu, in ragione degli asseriti maltrattamenti subiti durante la procedura di trasferimento dall'Italia alla Grecia, nonché delle condizioni degradanti in cui si sarebbe svolta la loro detenzione in Grecia; d) nei confronti della sola Italia, la violazione dell'art. 4 Prot. 4 Cedu, affermando che l'immediato trasferimento dei ricorrenti dai porti italiani alla Grecia avrebbe assunto i caratteri di una vera e propria espulsione collettiva di stranieri, vietata ai sensi dell'invocata normativa convenzionale. La Corte di Strasburgo rileva, in primo luogo, come solo 4 dei ricorrenti - cittadini afgani - avessero mantenuto i regolari contatti con il loro rappresentante processuale necessari per escludere la cancellazione dal ruolo del ricorso. Così circoscritte le posizioni soggettive rilevanti, la Corte europea esclude, innanzitutto, la ricevibilità del ricorso nell'ottica degli artt. 2 e 3 Cedu, per quanto concerne il profilo del rischio - paventato dai ricorrenti - di subire trattamenti inumani e degradanti in patria a seguito dell'espulsione, in ragione del mancato esaurimento delle vie di ricorso interne: i ricorrenti, infatti, non avevano di fatto presentato alcuna domanda d'asilo alle competenti autorità greche. A parere dei giudici di Strasburgo, invece, meritano accoglimento le doglianze relative alla violazione, da parte della Grecia, dell'art. 13 Cedu, in relazione all'art. 3 Cedu. Anche a prescindere dalle carenze generali della procedura greca di richiesta d'asilo e d'impugnazione della decisione di espulsione, infatti, i giudici di Strasburgo notano come ai ricorrenti fosse stata data una brochure informativa in arabo, che non conteneva alcun riferimento al diritto d'asilo, e che le condizioni fatiscenti del campo di Patrasso - dove i ricorrenti erano stati in un primo tempo accolti - non erano tali da consentire di ottenere le informazioni e l'assistenza necessaria per accedere alla procedura d'asilo o per impugnare la decisione d'espulsione verso un Paese - quale l'Afghanistan - in cui sussiste un rischio rilevante di sottoposizione dei ricorrenti a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu. Per quanto riguarda l'Italia, poi, la Corte europea afferma innanzitutto che le modalità di deportazione dei ricorrenti - affidati immediatamente ai capitani dei traghetti per il rimpatrio in Grecia, senza effettuare un'analisi della situazione di ciascun migrante - integrano un'espulsione collettiva e indiscriminata contraria all'art. 4 Prot. 4 Cedu. In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ritiene che la deportazione dei ricorrenti verso la Grecia - uno Stato, cioè, che non garantisce il rispetto dell'art. 13 Cedu nei termini poc'anzi specificati - comporti la responsabilità indiretta dell'Italia ai sensi dell'art. 3 Cedu. Inoltre, sempre ad avviso della Corte europea, la medesima vicenda importa anche un'ulteriore violazione - questa volta in via diretta - dell'art. 13 Cedu da parte dell'Italia, in relazione sia all'art. 3 Cedu, sia all'art. 4 Prot. 4 Cedu. I ricorrenti afgani, infatti, arrivati nel porto di Ancona, erano stati immediatamente imbarcati sui traghetti diretti in Grecia, senza aver potuto né richiedere asilo, né accedere ad una procedura di tutela dei propri diritti che potesse dirsi effettiva ai sensi dell'art. 13 Cedu. Da ultimo, la Corte rigetta le doglianze relative alla violazione dell'art. 3 Cedu, sia in relazione ai presunti maltrattamenti subiti dai ricorrenti nel corso del trasferimento dall'Italia alla Grecia, dei quali non risulta prova agli atti, sia con riferimento alle condizioni della loro detenzione in Grecia, ravvisando l'impossibilità di determinare l'esatto luogo e durata della reclusione patita dai ricorrenti. (Alberto Aimi)
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 23 ottobre 2014, Furcht c. Germania
Nell'ottobre 2007, nel quadro di un'indagine per traffico di droga, viene autorizzata un'operazione sotto copertura nei confronti di sei soggetti (fra cui non figura il ricorrente). La polizia decide di stabilire i contatti con S., un indagato, attraverso il ricorrente. Dopo che un agente comunica al ricorrente la poca convenienza dell'(inizialmente concordata) operazione di contrabbando di sigarette, il ricorrente dichiara la disponibilità sua e di S. al traffico di cocaina e anfetamine, non volendo però essere coinvolto direttamente e pretendendo solo delle commissioni. Qualche giorno dopo, il ricorrente informa gli agenti di non essere più interessato all'attività illecita. Gli agenti convincono però il ricorrente a proseguire l'operazione, all'esito della quale viene arrestato. Il processo si conclude con la condanna del ricorrente, sulla base della sua confessione e dei verbali degli agenti sotto copertura; la pena è tuttavia ridotta in ragione del fatto che il ricorrente è stato incitato dagli agenti di polizia a commettere il reato.
Il ricorrente ritiene iniquo il procedimento, in quanto è stato condannato per un reato che è stato provocato a commettere dagli agenti sotto copertura (condanna per di più basata sulla prove ottenute in virtù dell'operazione undercover). Appurato come al momento del primo approccio da parte degli agenti sotto copertura non vi fossero sospetti sul coinvolgimento del ricorrente nel traffico di droga, la Corte europea nega che il ricorrente potesse ritenersi già intenzionato a commettere l'illecito. Per di più, il ricorrente si è definitivamente convinto a compiere il reato solo dopo l'opera persuasiva degli agenti undercover: pertanto, può affermarsi che questi ultimi abbiano indotto il ricorrente a delinquere. Le prove così ottenute sono poi state utilizzate per la condanna. Di qui la violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, che non può ritenersi scongiurata dal più mite trattamento sanzionatorio irrogato, motivato proprio dal riconoscimento - da parte dei giudici tedeschi - di un'attività di incitamento da parte degli agenti di polizia. (Roberta Casiraghi)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 23 ottobre 2014, Melo Tadeu c. Portogallo
A una data non precisata, la Direzione generale delle imposte reclama il pagamento di imposte alla società V., che resta però inadempiente. Considerando la ricorrente come amministratore di fatto, il 23 marzo 1999, l'amministrazione fiscale le indirizza un'ingiunzione di pagamento. Nel frattempo, viene aperto un procedimento penale per evasione fiscale: esso si conclude con la condanna della società V. e il proscioglimento della ricorrente, non ritenuta amministratore di fatto della società. Nel procedimento tributario, nonostante il proscioglimento penale, viene invece disposto il sequestro della quota azionaria detenuta presso la società B dalla ricorrente, ritenuta debitrice in solido della società V. Tanto l'opposizione quanto la contestazione della ricorrente sono dichiarate irricevibili. Al momento, la quota societaria della ricorrente è ancora posta sotto sequestro, non avendo avuto luogo la vendita per mancanza di un acquirente.
L'interessata ritiene che l'esecuzione tributaria ancora pendente a suo carico malgrado il proscioglimento in sede penale violi il diritto alla presunzione d'innocenza. Anzitutto, il giudice europeo rammenta che la presunzione d'innocenza mira a impedire che un soggetto sia trattato dalle autorità pubbliche come se egli fosse di fatto colpevole dell'illecito per il quale è già stato prosciolto. Nel caso di specie, la Corte europea evidenzia come, nel procedimento tributario, le giurisdizioni adite a seguito del sequestro abbiano rifiutato di considerare il proscioglimento in sede penale, nonostante - ai sensi dell'art. 674-B c.p.c. portoghese - un proscioglimento costituisca in tutte le azioni civili una presunzione legale - seppur semplice e quindi superabile con prove contrarie - dell'inesistenza del fatto all'origine del processo penale. Ne deriva pertanto la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu. Al tempo stesso, viene accertata la violazione dell'art. 1 Prot. add. Cedu, in quanto il mantenimento del sequestro della quota societaria nel procedimento tributario, anche dopo il proscioglimento in sede penale, ha costituito una violazione del diritto al rispetto dei proprio beni. (Roberta Casiraghi)
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 28 ottobre 2014, Gough c. Regno Unito
Il ricorrente, cittadino scozzese e fermo sostenitore dell'ideologia nudista, rifiuta di indossare vestiti in pubblico. Viene arrestato e processato decine di volte in ragione del suo comportamento contrario alla pubblica decenza e, tra il 2006 e il 2012, passa quasi sei anni in stato di detenzione. Il ricorrente adisce la Corte europea lamentando la violazione degli artt. 5, 6, 7, 8, 9, 10, 13, 14 Cedu e degli artt. 2 e 4 Prot. 4 Cedu, in relazione ai suoi numerosi arresti e condanne, sempre motivati dal suo rifiuto di vestirsi in pubblico. Ritenendo manifestamente infondate le altre allegazioni del ricorrente, la Corte di Strasburgo si interroga circa la possibile violazione, da parte delle autorità scozzesi, del diritto del nudista scozzese alla libertà di espressione (art. 10 Cedu) e al rispetto della vita privata e famigliare (art. 8 Cedu). In particolare, in relazione al primo profilo di doglianza, i giudici di Strasburgo riconoscono innanzitutto la legittimità dello scopo perseguito dalla legge penale scozzese mediante l'incriminazione delle condotte addebitate al ricorrente, che viene individuato nella protezione dell'ordine pubblico - che sarebbe stato messo in pericolo dalla vista del corpo nudo del ricorrente da parte del pubblico - e nell'assicurare il rispetto della legge in generale - che avrebbe potuto essere posto in discussione se fosse stato consentito al ricorrente di violare impunemente la legge semplicemente in ragione della sua personale opinione sulla legittimità del nudismo pubblico. In secondo luogo, la Corte europea afferma che le misure restrittive imposte al ricorrente ben potrebbero dirsi necessarie in una società democratica, invocando, da un lato, il margine di apprezzamento delle parti contraenti in relazione alla valutazione e alla reazione agli atti di pubblica nudità e, dall'altro, notando come l'apparente sproporzione del cumulo delle sanzioni inflitte fosse, in definitiva, da imputarsi all'intransigenza del ricorrente, che aveva perseverato nella propria condotta antisociale - nonostante le prime condanne si fossero risolte in un mero ammonimento, o in una pena detentiva breve -, rifiutando, altresì, di manifestare le proprie opinioni riguardo alla pubblica nudità con mezzi non lesivi dell'altrui pudore.
Una volta esclusa la contrarietà con l'art. 10 Cedu dell'azione delle autorità scozzesi, la Corte europea parimenti esclude la sussistenza di una violazione dell'art. 8 Cedu. Infatti, pur essendo tutelate ai sensi dell'art. 8 Cedu, in via di principio, anche le scelte personali riguardo a come apparire in pubblico, i giudici di Strasburgo osservano, da un lato, che l'interesse al rispetto di tali scelte deve raggiungere un livello minimo di serietà - requisito della cui soddisfazione, peraltro, la Corte europea dubita nel caso di specie - e, dall'altro, che qualunque interferenza rilevante sarebbe da considerarsi comunque giustificata per le stesse ragioni per le quali deve ritenersi giustificata la compressione del suo diritto alla libertà di espressione. (Alberto Aimi)
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 28 ottobre 2014, Peltereau-Villeneuve c. Svizzera
Nel gennaio 2008, l'ufficiale diocesano informa il procuratore generale che un'inchiesta canonica è stata aperta nei confronti del ricorrente, sospettato di abusi sessuali. Viene così instaurato un procedimento penale che si conclude per prescrizione, con un'ordinanza di archiviazione con cui il procuratore generale afferma che il ricorrente risulta aver commesso i fatti. Il provvedimento è ripreso dalla stampa e viene citato in più atti del procedimento canonico, il quale si conclude con l'annullamento della condanna emessa in un primo momento.
Il ricorrente ritiene che i termini impiegati nell'ordinanza di archiviazione abbiano violato il principio della presunzione d'innocenza. A tal riguardo, la Corte di Strasburgo osserva come, nel provvedimento di archiviazione, il procuratore non si sia limitato a descrivere l'imputato come sospettato del reato per il quale è decorso il termine di prescrizione, ma abbia espresso la propria convinzione circa la certa colpevolezza del ricorrente. Per di più, questa ordinanza è stata ripresa dalla stampa e ha avuto un importante peso nel procedimento canonico, minando la reputazione del ricorrente. Ne deriva la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu. (Roberta Casiraghi)
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 30 ottobre 2014, Nosko e Nefedov c. Russia
I due ricorrenti, in due vicende separate, sono entrambi coinvolti in operazioni undercover. Con riguardo alla prima vicenda, la polizia riceve informazioni confidenziali che additano la ricorrente come implicata nel rilascio, dietro compenso, di falsi certificati di malattia. Il 20 novembre 2007, l'agente sotto copertura Ms. A. si reca dalla ricorrente, accompagnato da un collega di quest'ultima, per ottenere un certificato di assenza per malattia. Tre giorni dopo, Ms. A. chiede alla ricorrente di prolungare i giorni di congedo: ricevuto il certificato, Ms. A. consegna dei soldi alla ricorrente. Subito dopo, nell'ufficio fa irruzione la polizia. Il processo si conclude con la condanna della ricorrente. Quanto alla seconda vicenda, dopo aver ricevuto informazioni confidenziali, la polizia decide d'intraprendere un'operazione sotto copertura con riguardo al ricorrente, sospettato di rilasciare falsi certificati dietro corrispettivo in denaro. Il 18 luglio 2008, dopo essere stato accompagnato da un agente di polizia per un "alcool test", l'agente undercover Mr. Y. chiede al ricorrente di manomettere il risultato dell'esame, poiché teme che il livello di alcool ecceda il limite legale, con la conseguente revoca della patente di guida. In un primo momento, il ricorrente rifiuta categoricamente; tuttavia, a seguito di una promessa di denaro e delle reiterate suppliche di Mr. Y. (che afferma l'indispensabilità della patente di guida per mantenere la propria famiglia), il ricorrente accetta il denaro per falsare l'esito degli esami. Immediatamente dopo, la polizia entra nello studio del ricorrente e lo arresta. Il processo si conclude con la condanna del ricorrente.
I ricorrenti ritengono che siano stati condannati per reati commessi a seguito della provocazione della polizia, in violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu. La Corte europea condivide le doglianze di entrambi, ritenendo iniqui i procedimenti nei loro confronti. Infatti, in entrambe le vicende, l'operazione sotto copertura è stata disposta, in assenza di qualsiasi controllo giudiziario, dalla polizia, con ampia discrezionalità e senza una preliminare attività investigativa che verificasse la fondatezza delle informazioni confidenziali ricevute. Per di più, gli organi giurisdizionali non hanno adeguatamente verificato le obiezioni dei ricorrenti, relative sia all'inesistenza di ragioni che giustificassero l'operazione undercover sia alla natura dell'attività posta in essere dagli agenti sotto copertura, non meramente passiva ma di provocazione alla commissione del reato. (Roberta Casiraghi)