ISSN 2039-1676


19 settembre 2011 |

Monitoraggio giugno 2011

Prosegue il monitoraggio mensile delle sentenze e delle più importanti decisioni della Corte EDU che interferiscono con il diritto penale sostanziale.
La scheda mensile è, come di consueto, preceduta da una breve introduzione contenente una presentazione ragionata dei casi decisi dalla Corte, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
 
SOMMARIO
 
1. Introduzione
2. Articolo 2 Cedu
3. Articolo 3 Cedu
4. Articolo 5 Cedu
5. Articolo 6 Cedu
6. Articolo 8 Cedu
7. Articolo 10 Cedu
 
* * *
 
1. Introduzione
 
a) Fra le pronunce in tema di art. 2 Cedu si segnala anzitutto la sentenza Predica c. Romania, con cui la Corte ha riscontrato una duplice violazione – sostanziale e procedurale – di detta norma in relazione alla morte di un giovane detenuto, presumibilmente vittima di un’aggressione da parte delle guardie carcerarie. Essa presenta profili di interesse non solo in quanto costituisce un’applicazione paradigmatica del criterio dell’inversione dell’onere della prova elaborato dalla Corte EDU nell’ambito degli obblighi di “protezione rafforzata”, ma anche per il fatto che il procedimento celebrato dinanzi ai giudici nazionali non si era ancora concluso, sebbene fossero trascorsi più di sette anni dal momento in cui lo stesso aveva preso avvio. La Corte pare, dunque, aver derogato in questa occasione al principio di sussidiarietà che, ai sensi dell’art. 35 Cedu, informa i rapporti tra la sua giurisdizione e le giurisdizioni nazionali, evidentemente in ragione del fatto che numerosi elementi dimostravano come le autorità giurisdizionali interne non fossero realmente interessate all’accertamento della verità ma intendessero, all’opposto, fare di tutto per “insabbiare” la vicenda. In tema di maltrattamenti in carcere sfociati nella morte del detenuto, cfr. altresì le pronunce Matushevskyy e Matushevska c. Ucraina (che presenta punti di contatto con la vicenda tristemente nota di Stefano Cucchi) e Isayev e altri c. Russia (nel quale i maltrattamenti subiti dal ricorrente erano di gravità tale da poter essere qualificati come vere e proprie torture).
 
Merita senz’altro menzione anche la sentenza Trevalec c. Belgio, che offre un’interessante e inconsueta applicazione dei principi che la Corte ha ripetutamente affermato a proposito della pianificazione delle operazioni di polizia: in questo caso, infatti, la persona rimasta accidentalmente uccisa durante l’operazione non era né un criminale né un ignaro passante, ma un reporter che aveva ottenuto l’autorizzazione a riprendere le attività di una squadra speciale di polizia.
 
Nella sentenza Nakayev c. Russia, invece, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato una violazione solo procedurale dell’art. 2 Cedu in relazione a un bombardamento anti-terrorismo avvenuto in una cittadina cecena nel 1999, affermando che le indagini svolte dalle autorità nazionali – anche in questo caso, tuttora pendenti – non consentivano di ricostruire l’accaduto, e in particolare di stabilire quale fosse la causa dell’esplosione della quale il ricorrente era rimasto vittima. 
 
Presenta profili di interesse anche la sentenza Havva Dudu Albayrak e altri c. Turchia, relativa all’omicidio-suicidio commesso da un militare al quale, in epoca immediatamente precedente al reclutamento, erano state diagnosticate patologie di tipo psicotico: la Corte ha ravvisato in questo caso una violazione dell’art. 2 Cedu, perché le autorità turche non avevano adottato le misure necessarie ad impedire il tragico avvenimento.
 
Numerose come sempre, infine, le pronunce relative a casi di misteriose sparizioni di civili in Cecenia, in relazione alle quali la Corte ha per lo più riscontrato la violazione degli artt. 2, 3, 5, 8 e 13 Cedu (Kosumova e a. c. Russia; Vitayeva e a. c. Russia; Gerasiyev e a. c. Russia; Giriyeva e altri c. Russia; Makharbiyeva c. Russia).
 
b) Per quel che attiene all’art. 3 Cedu, conviene prendere le mosse dalla sentenza Sufi ed Elmi c. Regno Unito, in occasione della quale la prima sezione della Corte ha avuto modo di effettuare importanti precisazioni rispetto al principio cd. di non refoulement. La pronuncia, per l’analisi della quale si rimanda al contributo più dettagliato pubblicato su questa Rivista da Angela Colella, è interessante anche dal punto di vista dei rapporti tra la Corte di Strasburgo e quella di Lussemburgo e, più in generale, tra diritto di fonte CEDU e diritto dell’Unione Europea, posto che la Corte EDU è intervenuta su una questione di diritto affrontata in precedenza dalla Corte di Giustizia, giungendo a conclusioni diametralmente opposte. Due le possibili letture della sentenza: secondo una prima ricostruzione, la Corte avrebbe qui utilizzato il diritto comunitario (nella specie, l'art. 15 lett. c) della direttiva 2004/83/CE del 29 aprile 2004) per innalzare lo standard di tutela offerto dalla CEDU; in base a una seconda ricostruzione, invece, essa avrebbe semplicemente fornito una sorta di “interpretazione autentica” della propria giurisprudenza in materia, che già imponeva agli Stati firmatari di accordare la protezione internazionale in tutti i casi disciplinati dall’art. 15 lett. c) della direttiva 2004/83/CE.
 
Vale la pena di menzionare anche la sentenza Csüllög c. Ungheria, in cui la Corte ha riscontrato la violazione sostanziale della norma in esame sub specie di trattamento inumano e degradante in relazione al regime carcerario speciale cui era sottoposto il ricorrente (regime che contemplava lunghi periodi di isolamento e frequenti perquisizioni personali, alquanto invasive).
 
Pur se sintetizzate nel paragrafo relativo all’art. 2 Cedu, meritano un rapido cenno anche le sentenze Kosumova ed a. c. Russia (nella quale la Corte, pronunciandosi su un tipico “caso ceceno”, non ha ravvisato la violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu in relazione a uno dei ricorrenti, che all’epoca dei fatti aveva appena tre anni e, non essendo in grado di percepire la traumaticità degli eventi, non aveva potuto provare sofferenza per la scomparsa del proprio parente) e Girard c. Francia (nella quale la Corte ha negato che il dolore causato ai ricorrenti dall'esumazione del corpo della figlia e la negligenza nell'effettuazione delle indagini genetiche avessero superato la soglia minima di gravità necessaria per affermare la violazione di detta norma).
 
Sono ben quattro, infine, le pronunce in cui la Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 3 Cedu in relazione al sovraffollamento carcerario (Szel c. Ungheria; Goh c. Romania; Orlov c. Russia; Chudun c. Russia), e altrettante quelle in cui è pervenuta alle medesime conclusioni in relazione ad episodi di police brutality, per lo più avvenuti all’interno degli istituti carcerari (Mader c. Croazia; Ipate c. Moldavia; Gubacsi c. Ungheria; UÄŸur et Abi c. Turchia).
 
c) Tra le pronunce in tema di art. 5 § 1 Cedu, merita di essere ricordata innanzitutto la sentenza R.U. c. Grecia in tema di trattenimento di stranieri in appositi centri in attesa della definizione del procedimento per la concessione dell’asilo politico, in cui la Corte ha riscontrato una violazione della suddetta norma convenzionale, non ritenendo operante nel caso di specie la deroga di cui alla lett. f della norma in parola (la quale, come è noto, consente secondo il diritto di Strasburgo la detenzione dello straniero anche nel corso del procedimento di asilo) in quanto il diritto greco non autorizza la detenzione del richiedente asilo politico fino alla decisione definitiva della suddetta domanda e, pertanto, la privazione della libertà personale del ricorrente era priva di una base legale nell’ordinamento interno.
 
Sempre in tema di trattenimento degli stranieri, si segnala inoltre la sentenza Adamov c. Svizzera in cui la Corte ha ritenuto legittima la detenzione de ricorrente, che era stato arrestato in Svizzera e trattenuto in attesa di essere estradato verso gli Stati Uniti, in quanto nel caso di specie non poteva ritenersi operante la norma interna che prevede un salvacondotto per gli stranieri che si rechino in Svizzera allo scopo di rendere una testimonianza, perchè il ricorrente si trovava in Svizzera per motivi personali e professionali, indipendenti dalla citazione a testimoniare: a parere di questi, infatti, la norma che prevede il salvacondotto non poteva ritenersi operante dato che il ricorrente aveva deciso di recarsi in Svizzera nonostante l’irregolarità dell’atto di citazione a testimoniare.
 
Per quel che concerne invece l’internamento degli infermi di mente autori di reato, riveste profili di interesse la sentenza Hazdic e Suljic c. Bosnia, in cui la Corte europea ha riscontrato una violazione dell’art. 5 § 1 Cedu sotto il profilo del principio di proporzione in relazione all’internamento nell’ala psichiatrica del carcere di Zenica dei ricorrenti: secondo il diritto di Strasburgo, infatti, la carenza di strutture adeguate al ricovero degli autori di reato affetti da disturbi psichici, non puo in alcun modo giustificare il loro internamento in carcere come soluzione permanente.
 
Meritano inoltre menzione le sentenze Schmitz e Mork rese entrambe contro la Germania, in cui la Corte, facendo seguito a quanto affermato nella sentenza Grosskopf c. Germania, ha ritenuto conforme all’art. 5 § 1 Cedu la misura della custodia di sicurezza (Sicherungsverwahrung) applicata nei confronti dei ricorrenti nel limite temporale di dieci anni previsto dalla legislazione vigente al momento del reato. Le pronunce in esame presentano particolari profili d’interesse nella parte in cui la Corte europea – pur salutando con favore la pronuncia del 4 maggio 2011 con cui la Corte federale tedesca, alla luce delle pronunce rese dalla Corte di Strasburgo contro la Germania (cfr. in particolare sentenza M. c. Germania) ha dichiarato le disposizioni del codice penale relative alla retroattività delle misure di sicurezza illegittime per contrasto con la legge fondamentale – ha sottolineato tuttavia come la Corte federale tedesca non abbia eliminato retroattivamente le disposizioni in questione.
 
Deve essere altresì ricordata la sentenza Shimovolos c. Russia in cui la Corte – oltre a ravvisare una violazione dell’art. 8 Cedu in relazione al sistema di raccolta di informazioni riguardanti soggetti sospettati di essere coinvolti in attività estremistiche previsto nell’ordinamento russo – ha concluso anche per una violazione dell’art. 5 § 1 Cedu in relazione al fermo del ricorrente che era stato trattenuto per circa un’ora perché ritenuto pericoloso: i giudici europei, confermando quanto affermato nella sentenza Gillan e Quinton c. Regno Unito del 2010, hanno ritenuto infatti che il ricorrente avesse subito una privazione della libertà personale, non ammessa dalla citata norma convenzionale in quanto non finalizzata alla prevenzione di uno specifico reato.
 
In tema di custodia cautelare, si segnalano infine le sentenze Miroslaw Garlicki c. Polonia, Fruni c. Slovacchia, Bernobić c. Croazia e Miminoshvili c. Russia.
 
d) Per quel che concerne le sentenze in tema di art. 6 Cedu, presenta profili d’interesse per il diritto penale sostanziale la sentenza Klouvi c. Francia in cui i giudici europei hanno concluso per la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 2 Cedu in relazione alla condanna per calunnia della ricorrente, affermando – in conformità con la propria precedente giurisprudenza in materia di presunzioni legali – che la presunzione assoluta presente nel codice penale francese allora vigente, a norma della quale, ove una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere abbia dichiarato non provato un fatto denunciato, si deve ritenerne automaticamente provata la falsità, aveva impedito un nuovo accertamento dei fatti.
 
e) ) Sul fronte dell’art. 7 Cedu, deve essere menzionata la decisione Jobe c. Gran Bretagn in cui la Corte ha dichiarato manifestamente infondato il ricorso del ricorrente con riferimento alla sua condanna per il delitto di possesso di materiale di matrice terroristica ed estremista, ritenendo sufficientemente precisa e accessibile la norma del Terrorism Act 2000 che incrimina il possesso di tale materiale “senza giustificato motivo”.
 
f) Tra le pronunce rese dalla Corte in tema di art. 8 Cedu, riveste particolare importanza sotto il profilo della raccolta e conservazione di dati personali per finalità d’indagine e di prevenzione dei reati la già citata sentenza Shimolos c. Russia: i giudici europei hanno in quest’occasione riconosciuto una violazione della norma in parola in relazione all’inserimento dei dati personale del ricorrente, un attivista per i diritti umani, in un database contenente informazioni su soggetti coinvolti in attività estremistiche perchè la normativa interna che regola le suddette misure non era accessibile né sufficientemente precisa.
 
Deve inoltre essere ricordata la sentenza Nunez c. Norvegia relativa all’espulsione amministrativa della ricorrente, una cittadina della Repubblica Domenicana, la quale precedentemente espulsa dalla Norvegia era rientrata in quel paese facendo uso di documenti falsi, in quanto i principi in essa espressi dalla Corte analoghi a quelli che vigono per la materia penale. In particolare, la Corte europea ha in quest’occasione riconosciuto una violazione dell’art. 8 Cedu, sotto il profilo del principio di proporzione, ritenendo preminente rispetto all’interesse pubblico al controllo dell’immigrazione quello della ricorrente a mantenere il legame con i propri figli, entrambi cittadini norvegesi. Sul punto, si segnala l’opinione dissenziente dei giudici Mijović e De Gaetano, i quali hanno espresso il timore che la sentenza in parola potesse lanciare un segnale sbagliato, lasciando intendere che gli stranieri presenti illegalmente in un paese possano tentare di regolarizzarsi utilizzando come espediente il matrimonio e la procreazione.
Merita un cenno da ultimo la sentenza Akar c. Turchia in tema di corrispondenza dei detenuti in cui la Corte – confermando i principi espressi nella sentenza Tan c. Turchia – ha censurato nuovamente la normativa turca sotto il profilo dei principi di accessibilità e precisione.
 
g) Per quel che concerne l’art. 10 Cedu, si segnalano anzitutto le sentenze Aquiliana e altri c. Malta e Kania e Kitterl c. Polonia in tema di diffamazione in cui la Corte europea ha escluso la violazione della norma in parola, ribadendo che il requisitodella verità della notizia nel diritto di Strasburgo non viene inteso in senso assoluto, ma relativo, e – soprattutto – che la sussistenza dello stesso deve essere valutata con riferimento al momento della diffusione della notizia medesima, non essendo rilevanti gli accertamenti successivi.
 
Nella sentenza Pinto Coelho c. Portogallo, invece, la Corte europea ha riconosciuto una violazione dell’art. 10 Cedu, in relazione al divieto assoluto previsto dal codice penale portoghese in merito alla pubblicazione di materiale coperto dal segreto istruttorio (Introduzione a cura di Angela Colella e Lodovica Beduschi).
 
 
2. Articolo 2 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 42344/07, Predica c. Romania (importance level 2)
Il ricorrente è un cittadino rumeno, padre di Marian Predica, un detenuto ventenne, morto mentre stava scontando una pena di reclusione per furto in un penitenziario di alta sicurezza. Il giovane è stato trovato nella sua cella in preda a convulsioni ed è stato portato all'ospedale, dove è deceduto dopo un coma di quattro giorni.
Il ricorrente è stato informato della morte di suo figlio solo dopo 5 giorni, allorquando questi era ormai sfigurato al punto tale che né lui né la moglie sono stati in grado di riconoscerlo.
Il Governo ha sostenuto che le lesioni che hanno portato al decesso di Marian erano dovute ad un incidente originato da un attacco epilettico. Invece, il certificato di morte e la relazione autoptica – così come un rapporto preparato dalla Commissione Superiore di Medicina nel 2010 – hanno indicato che Marian era morto a causa di "un grave trauma cranico e facciale dipendente da aggressione". A ciò va aggiunto che il giovane non aveva mai sofferto di attacchi epilettici prima della carcerazione.
Va rilevato, altresì, che il procedimento dinanzi ai giudici nazionali non è ancora concluso, nonostante siano trascorsi più di sette anni dal suo avvio.
In assenza di una spiegazione plausibile o soddisfacente, la Corte conclude che le autorità romene sono responsabili della morte di Marian, e che di conseguenza vi è stata una violazione, sia sostanziale che procedurale, dell'art. 2 Cedu.
Sotto il profilo risarcitorio, la Corte ha condannato la Romania debba versare al ricorrente 35.000 euro a titolo di equa riparazione.
 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 27441/07, Kosumova ed a. c. Russia (importance level 3); C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 27459/07, Vitayeva ed a. c. Russia (importance level 3); C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 28566/07, Gerasiyev ed a. c. Russia (importance level 3)
Il 7 giugno scorso sono stati decisi, dalla prima sezione della Corte, tre casi inerenti a rapimenti/uccisioni di ceceni, da parte di soldati russi, nel corso delle operazioni di sicurezza del febbraio 2000, del novembre 2002 e del marzo 2004.
La trattazione unitaria dei tre casi, assolutamente analoghi a molti altri già esaminati in precedenza, ci è utile a dare la misura della sistematicità ed omogeneità di episodi siffatti.
La Corte ritiene che i ricorrenti, in tutti e tre i casi, abbiano presentato una narrazione chiara e coerente dell’accaduto, e che quindi gli scomparsi siano purtroppo da ritenersi morti. Rileva altresì che il governo ha rifiutato di produrre, in tutti e tre i casi, materiale documentale in suo effettivo possesso, e che non ha condotto indagini efficienti ed adeguate.
La Corte, quindi, conclude per la violazione dell'articolo 2 Cedu.
Per quanto riguarda la violazione dell'art. 3, sotto il profilo del dolore psicologico subito dai ricorrenti, la Corte lo riconosce in tutti i casi, fatta eccezione per il figlio di Abdul e Kosumov Magomed-Emi Kudayev, bambino in tenera età e quindi incapace di percepire nell'immediato la traumaticità degli eventi.
La Corte riscontra altresì una violazione degli artt. 5 e 13 Cedu.
Riconosce un risarcimento in tutti e tre i casi, sebbene di entità differente.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 14 giugno 2011, ric. n. 30812/07, Trevalec c. Belgio (importance level 2).
Il ricorrente, Yves Trévalec, è un reporter francese che vive a Lussemburgo.
Nel 2003, la società di produzione per la quale stava lavorando ha ottenuto un’autorizzazione a riprendere le attività di una unità speciale di polizia, la squadra anti-gang "PAB".
Il 12 gennaio 2003, il nucleo PAB veniva informato che due individui, incappucciati e armati, si aggiravano intorno ad un blocco di magazzini all’ingrosso (in seguito, i sospetti si rivelarono essere in realtà due giovani con armi giocattolo).
Il ricorrente si muoveva con la polizia per riprendere gli eventi.
Durante l'operazione, due agenti di polizia sopravvenuti, non appartenenti al PAB, sparavano sette colpi di fuoco al sig. Trévalec, che si trovava a pochi metri di distanza da loro. Due proiettili perforavano la sua gamba destra, causando gravi ferite.
I poliziotti sostenevano che il luogo ove il fatto è accaduto era buio, che avevano scambiato la cinepresa tenuta in mano dal ricorrente per una pistola, e che non erano stati messi a conoscenza della presenza del reporter. Nell’autorizzazione affissa presso le centrali di polizia, infatti, non erano menzionati i tempi esatti in cui sarebbero avvenute le riprese; ed, inoltre, anche gli addetti al centro operazioni radio hanno confermato di non aver annunciato la partecipazione del reporter all’operazione.
La Corte ritiene che, in effetti, le autorità PAB, le sole consce della presenza del Sig. Trévalec, nonché responsabili per la sua sicurezza in un contesto in cui era potenzialmente in pericolo la sua vita, non siano state sufficientemente attente. Nella prospettiva della Corte, quella mancanza di vigilanza degli agenti PAB era stata la causa essenziale dell'uso di forza potenzialmente letale da parte degli agenti sopravvenuti, incorsi in un evidente errore circa il ruolo del ricorrente.
E’ riscontrata, dunque, una violazione dell’articolo 2.
Per quanto concerne l’ammontare del danno, richiesto dal ricorrente in una somma abbastanza consistente, la Corte si è riservata di decidere e di fissare una procedura ulteriore, tenendo anche conto dell'eventualità di un accordo tra lo Stato convenuto ed i richiedenti
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 29846/05, Nakayev c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, cittadino russo, lamenta la violazione degli artt. 2, 3, 6 e 13 della Convenzione, in seguito all'attacco aereo di militari federali russi sulla città di Urus-Martan (Cecenia) del 4 dicembre 1999, effettuato nell’ambito di un’operazione anti-terrorismo, ed a fronte della mancanza di un’inchiesta effettiva sull’accaduto. Il ricorrente era stato colpito da parti di proiettili in seguito al bombardamento indiscriminato del villaggio in cui si trovava; le ferite riportate avevano gravemente danneggiato la sua salute e lo avevano reso inabile al lavoro. Le indagini, avviate in seguito alla denuncia del ricorrente sporta nel maggio 2003, sono tuttora pendenti.
La Corte ha riconosciuto la violazione dell'art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale, a causa della durata eccessiva delle indagini svolte dalle autorità russe e delle carenze nello svolgimento delle stesse. A parere della Corte, infatti, il ritardo nella denuncia del fatto, pur potendo comportare alcuni problemi nello svolgimento delle indagini, non può considerarsi causa dei gravi ritardi successivi al maggio 2003. I giudici escludono invece la violazione dell'art. 2 sotto il profilo sostanziale, in quanto, sulla base delle indagini svolte dalle autorità russe, non risulta possibile accertare quale sia stata l'effettiva causa dell'esplosione che ha colpito il ricorrente. La Corte ritiene manifestamente infondato il ricorso all'art. 6 Cedu, mentre non ritiene necessario analizzare la violazione dell'art. 13 separatamente rispetto all'art. 2 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 30 giugno 2011, ric. n. 22590/04, Girard c. Francia (importance level 2)
I ricorrenti sono i genitori di una donna scomparsa in Francia nel novembre 1997. Dopo essersi rivolti più volte alle forze di polizia perché intervenissero nelle ricerche della donna, i ricorrenti hanno portato avanti indagini private; nonostante da novembre 1998 fossero emersi numerosi elementi tali da far ritenere la scomparsa come “sospetta ed inquietante”, solamente nel luglio 1999 sono state svolte dalle autorità delle indagini effettive, che hanno poi portato alla scoperta dell'uccisione della donna, avvenuta nel periodo della sua scomparsa. I ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2, 3 e 8 Cedu.
La Corte, a maggioranza di sei voti contro uno, ha riconosciuto la violazione dell'art. 2 sotto il profilo procedurale, ritenendo che la reazione delle autorità francesi sia stata eccessivamente lenta ed incompatibile con gli obblighi positivi derivanti dall'art. 2 della Convenzione. La sofferenza causata ai ricorrenti dall'esumazione del corpo della figlia per effettuare analisi genetiche al fine di accertarne l'identità, e la negligenza nell'effettuazione delle stesse, a parere della Corte non supera invece la soglia di gravità necessaria ad integrare una violazione dell'art. 3 Cedu. La Corte, infine, riconosce l'avvenuta violazione dell'art. 8 Cedu dovuta al ritardo, imputabile alle autorità francesi, nella restituzione ai ricorrenti del materiale prelevato per esami genetici dal corpo della donna (circa quattro mesi). Infatti, nonostante in altre sentenze (in particolare, Pannullo e Forte c. Francia, ric. n. 37794/97) la Corte avesse escluso che i materiali prelevati dal corpo in sede di autopsia possano costituire attentato al rispetto della vita privata e familiare, in questo caso – richiamando l'art. 1 della Convenzione di Oviedo – ha qui evitato di distinguere tra l'intero corpo di un defunto ed alcune sue parti, ed ha osservato che il ritardo nella restituzione del materiale prelevato impediva ai genitori di dare sepoltura definitiva alla loro figlia; diritto, quest'ultimo, tutelato dall'art. 8 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 24470/09, Havva Dudu Albayrak e altri c. Turchia (importance level 3)
I ricorrenti sono i genitori ed il fratello di Sinan Albayrak, cittadino turco. Questi, dopo alcuni mesi dall'inizio del servizio militare obbligatorio, spara a due commilitoni, uccidendoli e suicidandosi subito dopo. Sinan, prima di accedere al servizio militare, era stato sottoposto ad un esame medico e dichiarato idoneo, anche psicologicamente, allo svolgimento dello stesso. Negli anni immediatamente precedenti, tuttavia, gli erano state diagnosticate patologie di tipo psicotico. I ricorrenti avevano chiesto un risarcimento al Tribunale amministrativo militare turco, ritenendo responsabili le autorità militari per il suicidio di Sinan, per non aver adottato le misure necessarie ad impedirlo; il Tribunale tuttavia aveva rigettato la richiesta.
La Corte, a maggioranza di sei voti contro uno, dichiara la violazione dell'art. 2 Cedu. Poiché Sinan soffriva di una patologia psichica grave, e si è poi suicidato dopo aver ucciso due compagni, la Corte ritiene vi siano state gravi mancanze da parte del corpo medico militare e gravi carenze nel quadro normativo. La Turchia deve dunque ritenersi responsabile per il suicidio di Sinan, non potendosi addurre come causa del fatto un'imprudenza o una mancanza della vittima.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 17879/08, Giriyeva e altri c. Russia (importance level 3)
Ricorrenti sono la madre e i due fratelli di Isa Aygumov, cittadino russo, abitante in Cecenia, in una zona all'epoca dei fatti sotto il controllo delle forze armate russe. Il 9 gennaio 2002 Isa viene arrestato e portato via da un gruppo di persone non identificate; secondo le numerose testimonianze raccolte, si trattava di militari russi. Da allora, i familiari non sono riusciti ad ottenere alcuna notizia di Isa. Pur avendo denunciato il fatto alle autorità, le indagini avviate non hanno portato ad alcun risultato.
La Corte accerta in primo luogo l'avvenuta violazione dell'art. 2 Cedu. In primo luogo, poiché le autorità russe non hanno fornito alla Corte alcuna diversa spiegazione dei fatti, i giudici ritengono accertato che Isa sia stato arrestato dalle forze di polizia russa nel corso di un'operazione straordinaria, e che – tenendo conto del contesto e delle precedenti sentenze relative a casi di scomparsa avvenuti in analoghe condizioni di tempo e di luogo – debba considerarsi morto: perciò risulta violato l'art. 2 sotto il profilo sostanziale. Il medesimo articolo è stato violato anche sotto il profilo procedurale, a causa della mancanza di effettive indagini sui fatti avvenuti. La Corte dichiara altresì violato l'art. 3 Cedu, in relazione alle sofferenze patite dai ricorrenti a causa della scomparsa del loro congiunto e del comportamento delle autorità, costituenti un trattamento inumano. Il fatto che non vi sia alcuna informazione circa la detenzione di Isa, unitamente alle accertate carenze nelle indagini svolte, costituisce altresì una grave violazione dell'art. 5 Cedu. La Corte osserva, ancora, che la mancanza di indagini effettive comporta l'inefficacia di ogni genere di rimedio pur teoricamente esistente; dichiara dunque l'avvenuta violazione dell'art. 13, in relazione all'art. 2 Cedu. Infine, non è accolta la richiesta dei ricorrenti perché sia effettuata un'inchiesta indipendente e conforme ai principi Cedu sui fatti oggetto di giudizio; la Corte infatti ritiene che sia compito del Governo individuare gli strumenti adeguati per adempiere all'obbligazione di cui all'art. 46 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 26595/08, Makharbiyeva c. Russia (importance level 3)
Caso analogo al precedente: sequestro e scomparsa di persona in Cecenia. I ricorrenti sono i parenti di un uomo, Adam Makharbiyev, che nel marzo 2001, fermato ad un posto di blocco dalle forze di polizia russe ed arrestato. Dal momento del suo arresto, non vi sono più notizie ufficiali di Adam. La Corte riconosce la violazione dell'art. 2 Cedu sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, ritenendo la scomparsa e la probabile morte di Adam imputabile alle autorità russe e ritenendo ineffettive le indagini svolte dalle autorità russe. E' altresì riconosciuta la violazione dell'art. 3 Cedu nei confronti di alcuni tra i ricorrenti (i genitori e la moglie di Adam; non invece i suoi due figli), per le sofferenze da questi patite a causa dei fatti oggetto di giudizio, costituenti un trattamento inumano. La mancanza di ogni garanzia relativa alla detenzione di Adam, unita alle accertate carenze nelle indagini svolte, costituisce altresì una grave violazione dell'art. 5 Cedu. Da ultimo, la Corte osserva che la mancanza di indagini effettive comporta la susseguente inefficacia di ogni genere di rimedio pur teoricamente esistente; dichiara dunque l'avvenuta violazione dell'art. 13, in relazione all'art. 2 Cedu. Infine, non è accolta la richiesta dei ricorrenti affinché sia effettuata un'inchiesta indipendente e conforme ai principi Cedu sui fatti oggetto di giudizio; la Corte infatti ritiene che sia compito del Governo individuare gli strumenti adeguati per adempiere all'obbligazione di cui all'art. 46 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 43368/04, Isayev e altri c. Russia (importance level 2)
I ricorrenti, fratelli e cognate di Zelimkhan Isayev, lamentano la violazione degli artt. 2, 3, 5 e 13 Cedu. Secondo le dichiarazioni dei ricorrenti, Zelimkhan, residente in Cecenia, dopo essere stato arrestato nel maggio del 2004 perché sospettato di far parte di una organizzazione terroristica, fu torturato e morì in conseguenza delle torture subite, in assenza di cure adeguate. Un procedimento penale per accertare le responsabilità dei soggetti coinvolti venne aperto, secondo quanto sostenuto dal Governo, solo a distanza di tre anni dal fatto.
La Corte riconosce la violazione dell'art. 2 Cedu, sia sotto il profilo procedurale che sostanziale: in primo luogo, sotto il profilo sostanziale, non avendo il Governo proposto alcuna valida ricostruzione alternativa dei fatti, ed alla luce di tutte le circostanze, questo deve ritenersi responsabile per la morte di Zelimkhan; sotto il profilo procedurale, la Corte dichiara invece l'ineffettività delle indagini svolte da parte delle autorità russe. E' riconosciuta altresì la violazione dell'art. 3, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, avendo Zelimkhan subito delle vere e proprie torture da parte delle autorità russe ed essendo mancata una indagine effettiva sul fatto. La richiesta di accertamento della violazione dell'art. 8 Cedu in relazione ad una perquisizione svolta nell'abitazione dei ricorrenti è dalla Corte dichiarata inammissibile, poiché gli elementi portati dai ricorrenti a sostegno della loro richiesta e dell'illegittimità della perquisizione sono vaghi e contraddittori. La Corte accerta infine la violazione dell'art. 13 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 23 giugno 2011, ric. n. 59461/08, Matushevskyy e Matushevska c. Ucraina (importance level 3)
I ricorrenti sono i genitori di Igor Matushevskyy. Questi, mentre si trovava in carcere perchè sospettato di aver violato la legislazione sugli stupefacenti, è deceduto in circostanze non chiare, probabilmente in conseguenza di un pestaggio. I ricorrenti sostengono che la responsabilità della morte di Igor sia delle autorità ucraine, e che le indagini svolte sul fatto siano state ineffettive. La Corte riconosce la violazione dell'art. 2 Cedu sotto il profilo sia sostanziale che procedurale; riconosce altresì la violazione dell'art. 3 Cedu a causa dei maltrattamenti subiti da Igor in carcere. Sono invece dichiarate manifestamente infondate le doglianze relative all'art. 3 – sotto il profilo della sofferenza patita dai ricorrenti in conseguenza dei fatti – e 6 Cedu.
 
 
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3. Articolo 3 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 30042/08, Csüllög c. Ungheria (importance level 2)
Il caso riguarda lo stato di detenzione di Zsigmond Csüllög, un cittadino ungherese che lamenta di essere stato tenuto in isolamento e sottoposto ad un attento esame delle cavità per più di due anni.
La Corte conferma che il ricorrente ha trascorso quasi tutta la sua pena in regime di protezione speciale - sempre ammanettato allorquando gli era concesso di stare al di fuori della sua cella - e che ha subito stringenti perquisizioni personali.
Ciò premesso in punto di fatto, osserva che l'isolamento è ammissibile solo come misura eccezionale e temporanea, cosa che non è accaduta nel caso di specie.
Gli effetti del rigoroso regime di sicurezza nel quale è stato detenuto per un lungo periodo il ricorrente e le precarie condizioni fisiche che ha sofferto nella sua cella fondano il riconoscimento di una violazione dell'articolo 3 Cedu, sotto il profilo del trattamento inumano o degradante. Sono riconosciuti, per i danni morali, 6 000 euro.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 30221/06, Szel c. Ungheria (importance level 3)
Il caso Szél riguarda un cittadino ungherese il quale lamenta che la sua lunga detenzione sia avvenuta per gran parte in una cella di soli 2,76 metri quadrati.
La Corte rileva che il Governo ha ufficialmente ammesso che le carceri ungheresi sono sovraffollate e che, al momento, la prigione di Budapest ospita il 50% di detenuti in più rispetto alla sua capienza; ricorda, altresì, che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) ritiene che lo spazio minimo di superficie ammissibile per un detenuto sia di 4 metri quadrati.
Sulla base di questi dati, conclude per una violazione dell’articolo 3 Cedu, sotto il profilo del mancato rispetto della dignità umana, a causa del sovraffollamento. Essa afferma, inoltre, che le autorità ungheresi debbano prendere immediate misure amministrative, e non solo, al fine di migliorare le condizioni di detenzione nelle carceri ungheresi; riconosce i danni morali per 12.000 euro.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 56185/07, Mader c. Croazia (importance level 3)
Il ricorrente, cittadino croato, sta attualmente scontando in carcere la condanna a ventotto anni di reclusione per omicidio. La sentenza di condanna si è basata in larga misura sulle confessioni rilasciate dal ricorrente durante l'interrogatorio successivo al suo arresto. Tenuto in questura per tre giorni, questi lamenta di essere stato, in questo lasso di tempo, picchiato e maltrattato, privato di cibo e di sonno ed interrogato in assenza di un difensore. Il ricorrente sostiene inoltre di essere stato condannato in seguito ad un processo iniquo, data l'assenza del difensore durante l'interrogatorio, e dell'inefficienza dell'avvocato assegnatogli d'ufficio. Lamenta infine l'illegittimità della custodia cautelare subita. La Corte riconosce la violazione dell'art. 3 Cedu sia sotto il profilo sostanziale (ritenendo il trattamento subito dal ricorrente un trattamento inumano) che procedurale. E' altresì riconosciuta la violazione dell'art. 6 § 3 in combinato disposto con l'art. 6 § 1 in relazione all'assenza di un difensore durante l'interrogatorio; non invece in relazione alla presunta inefficienza dell'avvocato d'ufficio. La doglianza relativa all'illegittimità della custodia cautelare è invece dichiarata irricevibile, per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 9643/03, Goh c. Romania (importance level 3)
Il ricorrente, attualmente detenuto in Romania, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu in relazione alle condizioni di detenzione nelle carceri di Jilava, Rahova e Margineni.
La Corte riconosce la violazione dell'art. 3 ritenendo che le condizioni di detenzione nelle suddette carceri (in particolare, uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati per detenuto, ed in alcuni casi di un solo metro quadrato, e la mancanza di igiene) costituiscano un trattamento degradante.
E' invece rigettata la doglianza relativa all'art. 3 in relazione alla mancanza di adeguate cure mediche in carcere; le doglianze relative agli artt. 6 e 8 Cedu, infine, sono dichiarate manifestamente infondate.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 23750/07, Ipate c. Moldavia (importance level 3)
Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu dichiarando di aver subito un violento pestaggio da parte degli agenti di polizia penitenziaria del carcere di ChiÅŸinău. La Corte riconosce tale violazione sotto il profilo sostanziale, sulla base di documenti medici che attestano le lesioni subite dal ricorrente, in assenza di una convincente diversa ricostruzione dei fatti da parte del Governo moldavo. L'art. 3 è violato anche sotto il profilo procedurale, per l'ineffettività delle indagini svolte dalle autorità locali in relazione al fatto.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 29652/04, Orlov c. Russia (importance level 2)
Il ricorrente, attualmente detenuto in Russia, lamenta la violazione dell'art. 3 e 13 Cedu in relazione alle condizioni di detenzione nel carcere di Rubtsovsk; invoca altresì l'art. 6 sostenendo di essere stato condannato sulla base di un processo iniquo.
La Corte riconosce la violazione dell'art. 3, dichiarando che le condizioni di detenzione del ricorrente nel periodo 2005-2006 hanno costituito trattamenti inumani e degradanti, per la mancanza di spazio personale a disposizione del ricorrente (meno di due metri quadrati), e dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 Cedu, per la mancanza, in Russia, di un effettivo rimedio per ottenere tutela giurisdizionale rispetto alle condizioni di detenzione. E' infine riconosciuta la violazione dell'art. 6 § 1 e § 3 b) e c) per la mancanza di una adeguata difesa del ricorrente nella fase di appello del processo.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 23 giugno 2011, ric. n. 20493/07, Diallo c. Repubblica Ceca (importance level 2)
I ricorrenti, di nazionalità guineana, dopo essere entrati in Europa giungendo a Lisbona si sono recati in Repubblica Ceca dove hanno avanzato richiesta di asilo, sostenendo che se rimpatriati in Guinea sarebbero stati detenuti e forse uccisi per il loro coinvolgimento in attività non gradite al governo. La loro richiesta fu respinta come manifestamente infondata, senza alcuna analisi del merito della stessa. Entrambi fecero ricorso avverso la decisione; in un caso fu respinto, nell'altro il giudizio risulta tuttora pendente. Fu poi avviato un procedimento di espulsione nei confronti di entrambi, con il parere positivo del ministro dell'interno, motivato sulla base del fatto che i ricorrenti sarebbero stati espulsi verso il Portogallo, considerato un Paese sicuro. Tuttavia i ricorrenti furono espulsi, senza alcun preavviso e senza la possibilità di avvertire i loro avvocati, in Guinea.
La Corte riconosce la violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art 3 Cedu per la mancanza di un rimedio effettivo nella procedura di richiesta di asilo e di espulsione (in particolare, assenza di rimedi con effetto sospensivo e mancata valutazione del merito delle domande).
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 28 giugno 2011, ric. n. 44686/07, Gubacsi c. Ungheria (importance level 3)
Il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu per essere stato brutalmente picchiato dalla polizia mentre si trovava in questura, dove era stato portato in seguito ad un piccolo incidente d'auto, sospettato di aver fatto uso di droghe o alcool. Egli dichiara di essere stato colpito su volto, pancia e testa, e di essere stato preso a calci in tutto il corpo, compresi i testicoli, fino al suo collasso. Al suo arrivo in questura, i medici avevano rilevato solo alcuni graffi e gonfiore ad una guancia; il giorno seguente, invece, un certificato medico attesta la presenza di ferite e contusioni in tutto il corpo, ed ematocele. La denuncia del fatto da parte del ricorrente ha portato alla rapida apertura di indagini, ed alla successiva archiviazione motivata dal fatto che la contraddittorietà delle testimonianze raccolte non permetteva di individuare i soggetti responsabili dei maltrattamenti.
La Corte accerta l'avvenuta violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo sostanziale, ritenendo che quanto subito dal ricorrente costituisca un trattamento inumano e degradante; sotto il profilo procedurale valuta invece adeguate le indagini svolte dalle autorità ungheresi.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 33225/08, Efraimidi c. Grecia (importance level 3)
La ricorrente, cittadina Georgiana, invoca l'art. 3 Cedu in relazione alle condizioni di detenzione presso i locali della polizia di frontiera di Thermi ove era stata detenuta per tre mesi in vista della sua espulsione, e l'art. 5 §§ 1 e 4 Cedu, lamentando l'illegittimità della detenzione stessa. In particolare, la ricorrente sostiene che, essendo priva di documenti, per le autorità greche sarebbe stato in ogni caso impossibile rimpatriarla in Georgia, mancando così la legittimazione della detenzione.
La Corte riconosce in primo luogo l'avvenuta violazione dell'art. 3 Cedu, ritenendo che le condizioni in cui la ricorrente è stata costretta a vivere per tre mesi presso i locali della polizia di frontiera di Thermi costituiscano un trattamento degradante (in particolare per la mancanza di spazio, l'impossibilità di esercizio fisico ed attività ricreative, e la mancanza di un'alimentazione appropriata). Rispetto all'art. 5 § 1, la Corte ne riconosce l'avvenuta violazione ritenendo nel caso specifico eccessiva la durata della detenzione, essendo stato accertato dalle autorità, dopo circa un mese dall'inizio della detenzione, che il Consolato georgiano non avrebbe potuto fornire alla ricorrente i documenti di viaggio necessari per il rimpatrio. La Corte dichiara infine l'avvenuta violazione dell'art. 5 par. 4 Cedu, per la mancanza di un controllo giurisdizionale effettivo della legittimità della detenzione.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 28234/06, UÄŸur et Abi c. Turchia (importance level 3)
I ricorrenti, cittadini turchi di origine curda, lamentano la violazione degli artt. 3, 5, 6, 13 e 14 Cedu, per essere stati picchiati dalle forze dell'ordine turche, in relazione ad una manifestazione che aveva avuto luogo il giorno dell'anniversario dell'arresto di Ocalan, leader del PKK. Lamentano la mancanza di una indagine effettiva sui fatti, e sostengono di aver subito tale trattamento in ragione della loro origine curda.
La Corte dichiara manifestamente infondate tutte le doglianze proposte dal sig. Abi; analogamente dichiara inammissibili quelle proposte dal sig. UÄŸur relative all'art. 5, ed all'art. 14 in combinato disposto con l'art. 3 Cedu. E' invece riconosciuta la violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo sia sostanziale che procedurale, in relazione al trattamento subito dal sig. UÄŸur (pestaggio da parte della polizia con accertata perdita permanente dell'udito dell'orecchio sinistro) ed alla mancanza di una indagine effettiva sul fatto.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 21 giugno 2011, ric. n. 20641/04, Chudun c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, cittadino russo, lamenta la violazione dell'art. 3 Cedu in relazione al periodo di detenzione presso il carcere di Kyzyl (anni 2000-2004), e degli artt. 5 e 6 Cedu.
La Corte riconosce la violazione dell'art. 3, sottolineando come le condizioni di sovraffollamento presenti nel carcere di Kyzyl (che ospita il 50% di persone in più rispetto alla capacità prevista) costituiscano un trattamento inumano e degradante, nonostante l'umiliazione ed il senso di angoscia causato nel ricorrente non siano deliberatamente ricercate da parte delle autorità.
E' riconosciuta altresì la violazione dell'art. 5 par. 1 c), in relazione ad un giorno di carcerazione preventiva non “coperto” da una decisione dell'autorità giudiziaria (il periodo di carcerazione preventiva del ricorrente era stato esteso di tre mesi, su decisione dell'autorità giudiziaria, per il periodo 24 giugno-24 settembre 2003; la successiva proroga era stata disposta il giorno 25 settembre per il periodo 25 settembre-24 dicembre 2003: rimarrebbe dunque priva di base legale la detenzione tra il 24 ed il 25 settembre).
La Corte dichiara l'avvenuta violazione anche dell'art. 5 par. 3, poiché la carcerazione preventiva del ricorrente è stata prorogata per più di quattro anni sulla base di decisioni motivate con formule sommarie.
Infine, è accertata la violazione dell'art. 6 par. 1 della Convenzione a causa dell'eccessiva durata del processo (circa quattro anni e mezzo). Nonostante il ricorrente non ne avesse fatto domanda, la Corte condanna la Russia al pagamento in suo favore di 17.000 euro a titolo di danni non patrimoniali, in ragione del carattere assoluto del diritto tutelato dall'art. 3 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 28 giugno 2011, ric. n. 8319/07 e 11449/07, Sufi ed Elmi c. Regno Unito (importance level 1)
I ricorrenti sono due cittadini somali, detenuti in un centro di detenzione amministrativo nel Regno Unito. Il sig. Sufi aveva fatto domanda di asilo, sostenendo di fare parte di un clan minoritario in Somalia, e di essere stato gravemente ferito da milizie che avevano ucciso alcuni suoi familiari, ma la sua richiesta fu respinta. Il sig. Elmi aveva invece ottenuto dal Regno Unito il riconoscimento dello status di rifugiato. In seguito alla condanna per alcune infrazioni penali gravi (traffico di droga, furto in abitazione e minacce di morte), nel giugno 2006 fu emessa nei confronti di entrambi una sentenza di espulsione.
Nel 2007 entrambi si sono rivolti alla Corte EDU invocando gli artt. 2, 3 e 8 Cedu, sostenendo che il loro rimpatrio avrebbe comportato il rischio di essere sottoposti a trattamenti in contrasto con tali articoli, ed ottenendo dalla Corte la sospensione cautelare del loro rimpatrio fino all'esame del loro ricorso.
La Corte, dopo aver analiticamente ricostruito la situazione politica ed umanitaria in Somalia, la normativa interna, europea ed i principi di diritto internazionale rilevanti per la decisione, esamina le doglianze sotto il solo profilo dell'art. 3 Cedu.
In via preliminare, la Corte analizza la relazione tra l'art. 3 della Convenzione e l'art. 15 c) della direttiva UE 2004/83/CE del 29 aprile 2004, che definisce, come criterio per individuare i soggetti aventi diritto ad un subsidiary protection status, l'esistenza di un “serious and individual threat to a civilian’s life or person by reason of indiscriminate violence in situations of international or internal armed conflict”. I giudici escludono che l'art. 3 Cedu offra una protezione inferiore a quella di cui all'art. 15 c), come invece sostenuto dal Governo britannico. Accertato che a Mogadiscio vi è una situazione di violenza indiscriminata, la Corte dunque, per valutare quale sia il livello di intensità necessario ad integrare una violazione dell'art. 3, adotta alcuni criteri elaborati dall'Asylum and Immigration Tribunal britannico, applicando i quali conclude che il livello di violenza sia tale per cui pressochè ogni persona si trovi a Mogadiscio sia soggetta al rischio subire trattamenti in violazione dell'art. 3 Cedu. Ove il soggetto rimpatriato si stabilisse in un altro luogo della Somalia, sotto il controllo dei gruppi islamici “al-Shabaab”, dove è imposta l'applicazione rigida della Shaaria, sarebbe ugualmente soggetto al rischio di trattamenti contrari all'art. 3, a causa delle gravi violazioni dei diritti umani accertate in quei territori. Infine, richiamandosi ai criteri elaborati dalla recente sentenza M.S.S. c. Grecia e Belgio (facendo dunque riferimento alla possibilità, per i ricorrenti, di soddisfare i bisogni essenziali quali cibo, igiene e riparo, nonché alla sua vulnerabilità) la Corte osserva che, anche nel caso in cui i soggetti rimpatriati cercassero rifugio in un campo profughi, vi sarebbe il rischio di subire trattamenti contrari all'art. 3 Cedu, a causa della gravi condizioni umanitarie dei campi medesimi.
Applicando i suesposti principi al caso concreto, alla luce della specifica situazione personale di ciascun ricorrente, la Corte dichiara che il rimpatrio degli stessi costituirebbe una violazione dell'art. 3 Cedu.
 
 
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4. Articolo 5 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 7 giugno 2011, ric. nn. 39446/06 - 33849/08, Hazdic e Suljic c. Bosnia Herzegovina (importance level 2)
I ricorrenti, collocati nell'ala psichiatrica del carcere Zenica, lamentano una violazione dell'articolo 5§1.
La Corte, nel rilevare che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e la Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina hanno entrambi stabilito che l'ala psichiatrica del carcere di Zenica non è un posto adatto per la detenzione dei pazienti che soffrono di problemi mentali ed è utilizzabile come mera soluzione provvisoria - diventata permanente, nel caso di specie, a causa di una carenza di risorse - riconosce la suddetta violazione.
In generale, deve sussistere comunque una relazione tra lo scopo della detenzione ed il luogo e le condizioni di essa : ed, in linea di principio, la "detenzione" di una persona con disturbi mentali sarà "lecita" solo se effettuata in un ospedale, in una clinica o in altra istituzione appropriata.
Afferma, altresì, che la Bosnia-Erzegovina debba risarcire 15.000 euro al sig. Hadzic, e 25.000 euro al sig. Suljic.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 7 giugno 2011, ric. n. 2237/08, R.U. c. Grecia ( importance level 2)
Il ricorrente, R.U., di origine curda, arrestato da parte delle autorità turche in diverse occasioni a causa della sua attività politica, lamenta di aver subito torture durante la sua carcerazione; inoltre, rileva che, per una ferita andata in cancrena, ha dovuto subire un intervento chirurgico con amputazione di due alluci del piede sinistro e che, a causa di uno sciopero della fame attuato durante la detenzione, è stato colpito dalla sindrome di Wernicke-Korsakoff.
Tutto ciò premesso, il ricorrente racconta che, scontata la sua pena, nel 2007, ha chiesto asilo in Grecia e che, in seguito ad un primo rigetto, e alla relativa opposizione, la procedura afferente alla domanda di asilo è ancora pendente.
Il ricorrente, durante questo periodo, tra l’altro, è stato detenuto presso due centri d’espulsione, in condizioni riconosciute dalla Corte incompatibili con l’art. 3 Cedu.
La Corte rammenta che l'espulsione verso il Paese d'origine comporta una violazione dell'articolo 3 Cedu quando esistano dei motivi seri ed accertati di credere che l'interessato, se allontanato, correrà un rischio reale di essere sottomesso alla tortura o a pene o trattamenti disumani e degradanti.
La Corte è consapevole del dato per cui, essendo la Turchia uno stato membro della Convenzione, dovrebbe assicurare il rispetto del diritto alla vita e l'interdizione di trattamenti disumani o degradanti; ma deve, altresì, prendere atto che il Centro medico per la riabilitazione delle vittime di tortura, nel suo rapporto del 19 settembre 2007, ha confermato che R.U. era stato torturato all'epoca delle sue carcerazioni in Turchia. Questi elementi si rivelano assolutamente fondanti in relazione alla possibilità di accoglimento della domanda d’asilo.
Se fosse effettuato oggi un rimpatrio, allora, l'art. 13 in combinato disposto con l'articolo 3 sarebbe violato, a causa delle carenze nella procedura di asilo e del rischio di deportazione in Turchia senza seria considerazione del merito della sua domanda.
Per quanto riguarda la violazione dell’art. 5 § 1, la Corte sostiene che ogni persona abbia diritto alla libertà ed alla sicurezza, ma che, nel caso di specie, opererebbe la deroga di cui al capoverso f) della disposizione in esame, che permette agli Stati di restringere la libertà degli stranieri – in maniera comunque prevedibile, necessaria e non arbitraria - nell’ambito delle politiche di controllo dell'immigrazione.
Ad ogni modo, la Corte ricorda che il diritto greco non autorizza la detenzione se non sia ancora possibile eseguire l’espulsione, e che, in virtù tanto del diritto greco quanto di quello internazionale, l'espulsione di una persona che abbia fatto domanda di asilo non è permessa fino alla decisione definitiva di suddetta domanda. La violazione dell’art. 5 § 1 si è quindi verificata.
E’ riconosciuta, altresì, una violazione dell’art. 5 § 4, poiché il diritto greco non ha fornito al richiedente alcuna possibilità di ottenere una decisione, da parte del giudice nazionale, sulla legittimità della sua detenzione a fini espulsivi.
A titolo di equa soddisfazione, la Corte riconosce 15.000 euro per danni morali.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 giugno 2011, ric. n. 30493/04, Schmitz c. Germania (importance level 3); C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 giugno 2011, ric. n. 31047/04 ; 43386/08, Mork c. Germania (importance level 3)
I ricorrenti, Paul H. Hermann Schmitz e Walter Mork, sono due cittadini tedeschi che hanno scontato pene detentive di diversi anni per reati gravi e sono attualmente detenuti nella prigione di Aquisgrana ai sensi dell'articolo 66 § 1 Codice penale tedesco (misure di sicurezza).
Facendo riferimento all'articolo 5 § 1, i ricorrenti lamentano l’illegittima indeterminatezza temporale della loro condizione di detenzione.
La Corte conferma la posizione già assunta in altre pronunce, ovvero che questa modalità detentiva è da ritenersi legittima, a condizione che non superi il massimo consentito al momento della commissione del reato, ossia dieci anni. La legittimità della detenzione inflitta ai ricorrenti, nel caso di specie, ad ogni modo, si desumerebbe anche dal dato per cui essa era prevedibile in base alla disciplina del codice penale.
Ciò premesso, la Corte ritiene che non ci sia stata violazione dell’art. 5 § 1 .
Va fatto un particolare accenno a talune riflessioni che la Cedu svolge. Essa osserva che la Corte Costituzionale Federale tedesca, il 4 maggio 2011, ha stabilito che tutte le disposizioni del codice penale relative alla retroattività nella applicazione della detenzione di sicurezza, nonché le decisioni assunte nella stessa direzione, sono incompatibili con la legge fondamentale, per contrasto con il legittimo affidamento dei cittadini, principio cardine di uno Stato di diritto.
La Corte Cedu saluta favorevolmente la decisione della Corte costituzionale tedesca, che tra l’altro fa rilevare la Convenzione quale criterio interpretativo delle disposizioni della Legge fondamentale, e ritiene che ciò sia testimonianza di un impegno per la tutela dei diritti fondamentali; sottolinea, inoltre, che, in punto di tutela, la sentenza della Corte tedesca non ha operato distinzioni di principio tra misura di sicurezza e pena.
Tuttavia, la stessa non dimentica di rimarcare che la Corte costituzionale tedesca non ha eliminato retroattivamente le disposizioni in questione.
 
 
C. eur. Dir. Uomo, sez. IV, 14 giugno 2011, ric. n. 36921/07, Miroslaw Garlicki c. Polonia (importance level 2)
In questo caso, un noto cardiochirurgo, arrestato in modo spettacolare e detenuto in custodia cautelare per diverse accuse, tra cui l'uccisione di un paziente, molestie professionali del personale ospedaliero, false cartelle cliniche ed accettazione di tangenti dai pazienti, lamenta una violazione degli artt. 3, 5 § 3, 6 § 2 Cedu.
Sotto il profilo dell'articolo 5 § 3, è stata riconosciuta la non imparzialità del soggetto giudicante; per il resto il ricorso è stato giudicato irricevibile.
In particolare, per quanto riguarda l’articolo 6 § 2 , ovvero la censura relativa alla violazione della presunzione d'innocenza – avvenuta da parte del Procuratore Generale, che, durante la conferenza stampa, successiva all’arresto, aveva affermato "nessuno perderà più la vita a causa di quest'uomo" - è evidente la sua sostanziale fondatezza. Tuttavia, sul punto il ricorso è inammissibil